La cittadinanza Ue non è in vendita: la Corte UE dichiara incompatibili con il diritto UE i programmi di naturalizzazione per investimenti della Repubblica di Malta. Le implicazioni della sentenza sul criterio dello ius sanguinis previsto dalla legislazione italiana
- Con sentenza del 29 aprile u.s., la Corte di giustizia ha accertato la violazione dell’art. 20 TFUE e dell’art. 4, par. 3 TUE da parte del governo maltese per aver introdotto e attuato un programma di naturalizzazione in cambio di determinati investimenti, assimilando tale procedura ad una commercializzazione della concessione della cittadinanza di uno Stato membro nonché, per estensione, di quella dello status di cittadino dell’Unione.
La decisione pronunciata dalla Grande Sezione disattende dunque le argomentazioni proposte dell’avvocato generale Collins che nelle conclusioni del 4 ottobre 2024 aveva suggerito alla Corte di respingere il ricorso della Commissione rilevando una competenza esclusiva degli Stati membri a stabilire chi può essere un proprio cittadino e respingendo, come priva di logica, la tesi per cui essendo gli Stati membri tenuti a riconoscere la cittadinanza concessa da altri Stati membri, le loro leggi devono contenere determinate norme e, in particolare, la prova di un vincolo effettivo.
- Ricordiamo che la Commissione ha introdotto una procedura d’infrazione nei confronti di Malta dopo aver ripetutamente evidenziato i rischi che i programmi di cittadinanza per investitori comportano in particolare in materia di sicurezza, riciclaggio di denaro, evasione fiscale e corruzione, sollecitando gli Stati interessati (Bulgaria, Cipro e Malta) a porvi fine (cfr. la relazione sui “Programmi di soggiorno e di cittadinanza per investitori nell’Unione europea”, COM(2019) 12 final e la raccomandazione “relativa ai programmi di soggiorno e di cittadinanza per investitori e a misure immediate nel contesto dell’invasione russa dell’Ucraina”, C(2022) 2028 final. In termini ancora più incisivi, Ursula Von der Leyen, nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 16 settembre 2020 ribadiva: “Che si tratti del primato del diritto europeo, della libertà di stampa, dell’indipendenza della magistratura o della vendita di passaporti d’oro, i valori europei non sono in vendita”.
Cipro – nei cui confronti è tutt’ora aperta la fase precontenziosa di una procedura d’infrazione (INFR(2020)2300) – e Bulgaria modificavano le norme interne ma non Malta che anzi dopo aver raggiunto il limite di 1.800 soggetti selezionati con il primo programma del 2014 (Individual Investor Programme, IIP), alla fine del 2020 ne istituiva un altro (Granting of citizenship for Exceptional Services Regulations) secondo il quale la cittadinanza maltese poteva essere concessa sistematicamente, in cambio di pagamenti predeterminati: 1) versando al governo maltese 600.000 euro oppure 750.000 euro di cui euro 10.000 come deposito non rimborsabile insieme alla presentazione delle domande di soggiorno o del modulo di idoneità, mentre il saldo è dovuto dopo l’approvazione della domanda di naturalizzazione; 2) acquistando o detenendo un immobile residenziale a Malta del valore minimo di euro 700.000, oppure prendere in affitto un immobile residenziale a Malta per un minimo di 5 anni con un canone annuo minimo di euro 16.000; 3) donando un minimo di euro 10.000 a un’organizzazione o società non governativa registrata, o altrimenti approvata dalle autorità, in ambito filantropico, culturale, sportivo, scientifico, animalista o artistico; 4) avendo risieduto a Malta per un periodo di 36 mesi (nel caso in cui il pagamento ammonti a euro 600.000), periodo che può essere ridotto a un minimo di 12 mesi a condizione di effettuare un investimento diretto eccezionale, ossia un pagamento non inferiore a euro 750.000; richiedendo ulteriori versamenti, se nelle domande sono inclusi dei familiari,
- Nel ricorso introduttivo, la Commissione sostiene che la concessione della cittadinanza nazionale e dunque di quella comunitaria, in cambio di pagamenti o investimenti predeterminati, senza alcun legame effettivo con lo Stato membro interessato, violi il principio di leale cooperazione (art. 4, par. 3 TFUE) e dell’integrità del concetto di cittadinanza dell’Unione, di cui all’art. 20 TFUE.
La Corte, pur accertando la violazione di tali norme, segue un percorso argomentativo differente rispetto a quello proposto dalla Commissione rilevando come una procedura di naturalizzazione puramente commerciale qual è quella maltese, pregiudica in modo manifesto “il rapporto di solidarietà e di lealtà” sul quale trova fondamento la reciprocità dei diritti e doveri tra uno Stato membro e i suoi cittadini (punto 96). Nella medesima prospettiva, viene compromesso altresì il rapporto di fiducia fra gli Stati membri in base al quale possono essere esercitati i diritti attribuiti al cittadino dell’Unione. Invero, sebbene la cittadinanza nazionale comporti automaticamente l’acquisto della cittadinanza europea, quest’ultima crea dei rapporti peculiari tra il cittadino, le istituzioni dell’Unione e gli altri Stati membri. Per questo motivo “le disposizioni relative alla cittadinanza dell’Unione figurano tra le disposizioni fondamentali dei Trattati che, inserendosi nel quadro del sistema peculiare dell’Unione, sono strutturate in modo da contribuire alla realizzazione del processo di integrazione che costituisce la ragion d’essere dell’Unione stessa e fanno quindi parte integrante del suo quadro costituzionale” (punto 91). La cittadinanza dell’Unione, aggiunge la Corte, costituisce “una delle principali concretizzazioni della solidarietà, facendo parte dell’identità dell’Unione, in quanto ordinamento giuridico accettato dagli Stati membri a condizione di reciprocità” (punto 93). Uno Stato membro, nel legiferare in materia di cittadinanza, deve dunque rispettare i limiti del diritto dell’Unione e, nel caso di specie, il principio di leale cooperazione e l’art. 20 TFUE dal quale derivano i principi di solidarietà e di lealtà fondanti l’esercizio dei diritti e degli obblighi che i trattati riservano ai cittadini dell’Unione.
- La sentenza pone senza dubbio fine al programma di naturalizzazione maltese, ma nulla dice in merito alle possibili ripercussioni sulla cittadinanza nazionale, e quindi comunitaria, già concessa da Malta nell’ambito di tale programma o nel quadro del precedente programma del 2014. D’altro canto, sebbene il governo convenuto non abbia chiesto nelle difese di limitare l’effetto temporale della decisione, all’indomani della pubblicazione della sentenza, si è affrettato a chiarire “that decisions taken under both the current and the previous legislative framework remain valid” precisando anche i principali risultati ottenuti tramite l’utilizzo delle cospicue somme di denaro provenienti dalle procedure di naturalizzazione per investimento. Al momento, dunque, sembra difficile pensare che Malta introdurrà delle procedure di revoca. Ma altri Stati membri UE potrebbero contestare la legittimità della cittadinanza così acquisita non riconoscendo l’esercizio dei diritti derivanti dalla cittadinanza comunitaria ad un soggetto naturalizzato tramite i suddetti programmi per investimento. In questi casi, le complesse “sfide legali” finirebbero probabilmente per coinvolgere nuovamente la Corte di giustizia.
Gli effetti della decisione, d’altro canto, potrebbero interessare anche la cittadinanza acquisita tramite programmi d’investimento posti in essere da altri Stati membri, in particolare, Bulgaria e Cipro. Tali Stati, tuttavia, hanno già introdotto delle procedure di revoca (cfr. per la Bulgaria e per Cipro) e non sono noti contenziosi aperti in altri Stati per il mancato riconoscimento dei diritti di cittadinanza UE per la presunta illegittimità della procedura di naturalizzazione nazionale.
- Il ragionamento giuridico sotteso alla sentenza in esame, ed in particolare il passaggio che sancisce quale fondamento del vincolo di cittadinanza di uno Stato membro il “rapporto di solidarietà e lealtà” tra lo Stato ed il cittadino, potrebbe assumere rilevanza per la Corte Costituzionale italiana chiamata a pronunciarsi sulla legittimità della legge del 5 febbraio 1992, n. 91, Nuove norme sulla cittadinanza nella parte in cui consente l’acquisto della cittadinanza ius sanguinis senza limiti temporali o vincoli effettivi (cfr. in questa Rivista qui e qui) ma anche nel dibattito politico sviluppatosi attorno alla proposta di riforma della legge n. 91/1992 che si è concretizzato nell’adozione del decreto – legge 28 marzo 2025 n. 36, Disposizioni urgenti in materia di cittadinanza e nel disegno di legge S 1450, Disposizioni in materia di cittadinanza.
Il caso sul quale è chiamata a pronunciarsi la Corte Cost. è stato sollevato d’ufficio con ordinanza del 26 novembre 2024 dal Tribunale di Bologna e riguarda la possibile illegittimità dell’art. 1, legge n. 91/1992 per cui «è cittadino per nascita: a) il figlio di padre o di madre cittadini» in riferimento agli artt. 1, 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli obblighi internazionali e agli artt. 9 TUE e 20 TFUE.
La norma viene in rilievo rispetto alla richiesta giudiziale inoltrata da dodici cittadini brasiliani, alcuni minorenni, residenti in Brasile, intesa ad ottenere il riconoscimento della cittadinanza italiana iure sanguinis, in quanto discendenti diretti di un’ava, cittadina italiana, nata in Marzabotto (BO) il 27 aprile 1874, poi emigrata e deceduta in Brasile, nel 1976. I ricorrenti non hanno alcun legame con la Repubblica italiana poiché vivono in Brasile, non hanno mai soggiornato in Italia, neppure per brevi visite, né conoscono la lingua italiana salvo una ricorrente che sarebbe in grado di rispondere ad alcune mail inviate dal difensore.
Il Tribunale remittente ritiene, in sintesi, che in assenza di meccanismi di progressiva desuetudine, ad esempio limitando il diritto alle prime generazioni o introducendo la richiesta di un soggiorno negli ultimi anni o per un certo periodo sul territorio nazionale, il criterio dello ius sanguinis, applicato in modo assoluto, rappresenta una manifesta lesione del principio di ragionevolezza e proporzionalità ai sensi dell’art. 3 Cost. Infatti, la disciplina contestata, consentendo il riconoscimento della cittadinanza a soggetti privi di alcun minimo collegamento con la comunità nazionale e con il territorio della Repubblica, e fondando unicamente l’attribuzione sul legame di sangue con l’ascendente, ancorché come nel caso di specie, risalente al XIX secolo, andrebbe a compromettere in modo significativo il parametro di cui all’art. 1, secondo comma Cost., il quale dispone che “la sovranità appartiene al popolo”. Inquadrando la fattispecie nel più ampio contesto di applicazione della norma, l’ordinanza segnala anche i dati disponibili sulle domande pendenti presso i Consolati all’estero (800.000 procedimenti amministrativi nel 2007 e risulta che oggi molti fissino la data dell’appuntamento per presentare domanda a circa 10-12 anni dalla richiesta) oltre che presso i Comuni e i tribunali (il Presidente del tribunale di Venezia ha rappresentato che nel 2024 il 73% di tutte le cause civili ha ad oggetto l’accertamento della cittadinanza iure sanguinis) paventando l’ipotesi che “il riconoscimento dello status a decine di milioni di persone prive di collegamento effettivo con la comunità nazionale, una popolazione maggiore dello stesso numero di cittadini residenti sul territorio nazionale, [avrebbe] evidenti ricadute non solo sui profili culturali del popolo, ma sullo stesso esercizio della sovranità popolare e, in ultima analisi, sul funzionamento della democrazia”. Il numero di discendenti da emigrati italiani residenti all’estero, aventi diritto all’accertamento della cittadinanza, è di oltre 60 milioni, sicché “addirittura raggiungono e superano la stessa popolazione in patria”.
L’ordinanza richiama anche gli obblighi derivanti dall’ordinamento internazionale e dal diritto UE, quali parametri interposti ai sensi dell’art. 117 Cost. In particolare, secondo il tribunale remittente verrebbe in rilievo il criterio del legame effettivo, dedotto dalla sentenza Nottebohm e il contrasto con il principio di proporzionalità rispetto alle norme di diritto UE chiedendo alla Corte Cost. di valutare i riflessi di un arbitrario riconoscimento della cittadinanza europea “a milioni di persone prive di legame effettivo e genuino con alcuni Stati membri”.
La questione d’illegittimità costituzionale muove dunque da premesse diverse rispetto a quelle della vicenda maltese non venendo in rilievo il tema della “commercializzazione della cittadinanza”. Tuttavia, poiché l’acquisto della cittadinanza italiana consente poi all’individuo l’esercizio dei diritti connessi allo status di cittadino dell’Unione, i giudici non potranno ignorare nella risoluzione della fattispecie interna la pronuncia della Corte di giustizia che introduce come limite all’applicazione delle norme interne di naturalizzazione la verifica di un “rapporto di solidarietà e lealtà”; principio che risulta essere idoneo anche a fondare l’introduzione di limiti al criterio dello ius sanguinis. D’altro canto, l’adozione del d.l. n. 36/2025, riduce la possibilità che la Corte Cost. sollevi un rinvio pregiudiziale alla Corte di Lussemburgo sul punto.
Invero, il d.l. n. 36/2025, anticipando l’entrata in vigore di alcune norme contenute nel disegno di legge S 1450, prevede che i discendenti di cittadini italiani, nati all’estero, saranno automaticamente cittadini solo per due generazioni. Precisamente, solo chi ha almeno un genitore o un nonno nato in Italia sarà cittadino dalla nascita. I figli di italiani acquisteranno automaticamente la cittadinanza se nascono in Italia oppure se, prima della loro nascita, uno dei loro genitori cittadini ha risieduto almeno due anni continuativi in Italia. I nuovi limiti valgono solo per chi ha un’altra cittadinanza (in modo da non creare apolidi) e si applicano a prescindere dalla data di nascita (prima o dopo l’entrata in vigore del decreto-legge). Resterà invece cittadino italiano chi in precedenza è già stato riconosciuto tale (da un tribunale, da un comune, da un consolato). E come si legge nel comunicato stampa n. 121 del Consiglio dei Ministri, fra le ragioni della novella legislativa, vi è anche la volontà di “garantire la libera circolazione nell’Unione Europea solo da parte di chi mantenga un legame effettivo col Paese di origine”.
- La decisione sui “passaporti d’oro” apre dunque molteplici profili di riflessione. L’istituto della cittadinanza UE ne esce certamente rafforzato, sia in ragione del ruolo che gli viene riconosciuto nel processo d’integrazione comunitaria quale esplicazione dei principi di solidarietà, mutua fiducia e leale cooperazione, sia per il fatto che le pertinenti norme dei trattati vengono nuovamente (già nel parere 1/13 di adesione alla CEDU) riconosciute come parte integrante del quadro costituzionale dell’Unione. La Corte, inoltre, muovendo dall’esigenza di evitare la commercializzazione della concessione della cittadinanza di uno Stato membro, deduce dall’art. 20, par. 2 TFUE, “il vincolo di solidarietà e lealtà” quale fondamento del rapporto tra uno Stato e i suoi cittadini ma anche “dei diritti ed obblighi che i trattati riservano ai cittadini dell’Unione” (par. 97). Pertanto, se da un lato, nel caso in esame, questo principio rileva come limite all’esercizio della potestà normativa degli Stati membri nell’attribuzione della cittadinanza, dall’altro lato, esso rappresenta un nuovo elemento costitutivo della cittadinanza UE, potenzialmente suscettibile di esplicare i propri effetti anche in diversi e molteplici contesti giuridici.
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