La carenza di materiali medici giustifica la possibilità di ricevere prestazioni sanitarie in un altro Stato membro: la sentenza della Corte di giustizia nel caso Petru
1. Introduzione
La sentenza del 9 ottobre 2014 resa dalla Corte di giustizia nella causa C-268/13, Petru, a seguito di rinvio pregiudiziale promosso da un giudice rumeno, ha ad oggetto le cosiddette “prestazioni sanitarie transfrontaliere programmate”, ossia le prestazioni sanitarie erogate nei casi in cui il paziente si reca in un altro Stato membro dell’Unione con lo scopo precipuo di beneficiare di cure in un luogo diverso dal proprio Paese d’origine (rectius, di residenza, come è stato definito nei regolamenti di coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale. Il regolamento (CEE) n. 1408/71 (in seguito, semplicemente, “il regolamento”), all’art. 22, par. 1, lett. c), prevede la necessità del rilascio di un’autorizzazione preventiva da parte dell’ente competente dello Stato di residenza, al fine di ottenere, da parte di tale Stato, la presa in carico dell’onere integrale delle spese per le cure che si desidera ricevere in un altro Stato membro, secondo le disposizioni della legislazione di detto Stato. In base al par. 2, secondo comma, del medesimo articolo, il rilascio dell’autorizzazione non può essere rifiutato quando vengono rispettate due condizioni: (i) la cura richiesta deve essere riconducibile all’insieme delle prestazioni sanitarie dispensate dal sistema sanitario nazionale o dall’assicurazione sociale di malattia di riferimento; (ii) la cura in questione non deve essere fruibile nello Stato di appartenenza in un termine compatibile con lo stadio ed il possibile decorso della malattia del richiedente. Tali condizioni, peraltro, lasciano un ampio margine di discrezionalità agli Stati membri, che hanno mostrato la tendenza ad interpretarle in modo restrittivo, così da rendere, di fatto, più difficile, per i pazienti, l’ottenimento dell’autorizzazione preventiva e della presa in carico, da parte dello Stato “autorizzante”, delle spese sostenute all’estero per le cure.
Relativamente al quadro normativo di riferimento, il regolamento su cui verte la causa è stato sostituito dal vigente regolamento (CE) n. 883/2004, che però si applica solo dal 2010, anno in cui è entrato in vigore il relativo regolamento attuativo (CE) n. 987/2009. Poiché la vicenda ha avuto inizio prima del 2010, è il precedente regolamento a venire in rilievo. La sentenza, tuttavia, rimane rilevante anche nel nuovo contesto normativo poiché l’art. 22 del vecchio regolamento è ricalcato dall’art. 20 di quello odierno senza rilevanti modifiche.
2. La vicenda all’origine del rinvio pregiudiziale
Nel 2009 la signora Petru, cittadina rumena, dopo aver constatato che l’ospedale presso cui era ricoverata per un intervento grave ed urgente al cuore era privo di farmaci e materiali medici di prima necessità, aveva avanzato una richiesta di autorizzazione preventiva per beneficiare di detto intervento in Germania, richiesta che, tuttavia, era stata respinta dalla Casa Judeţeană de Asigurări de Sănătate Sibiu (Cassa regionale di assicurazione malattia di Sibiu). La signora si era ugualmente recata in Germania per beneficiare della cura e, una volta rientrata in patria, aveva avviato un contenzioso sia con la menzionata Cassa regionale, sia con la Casa Naţională de Asigurări de Sănătate (Cassa nazionale di assicurazione malattia), per il rimborso delle spese sostenute.
Nel maggio 2013, il giudice nazionale di secondo grado aveva sospeso il procedimento e si era rivolto alla Corte di giustizia, chiedendo se, alla luce dell’art. 22, par. 2, secondo comma, del regolamento, la situazione di carenza dei farmaci e dei materiali medici di prima necessità equivalesse ad una situazione in cui le cure mediche necessarie non possono essere prestate nel Paese di residenza ai sensi della disposizione menzionata, sebbene l’intervento chirurgico possa essere effettuato in detto Stato in tempo utile e adeguato dal punto di vista tecnico, nel senso che esistono gli specialisti necessari, e al medesimo livello di conoscenze specialistiche rispetto agli operatori dello Stato membro in cui ci si vorrebbe spostare per ricevere le cure mediche.
3. La sentenza della Corte di giustizia: la carenza di farmaci e materiali di prima necessità rientra nella valutazione sull’indebito ritardo del trattamento sanitario
La Corte di giustizia, accogliendo solo in parte la soluzione prospettata nelle conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón (su cui v. infra, § 4), ha statuito che anche la mancanza di farmaci e di materiali medici, nonché la carenza di attrezzature specifiche o di competenze specialistiche, possono figurare tra le circostanze da valutare nella verifica della seconda condizione prevista dall’art. 22, par. 2, secondo comma, del regolamento, relativa all’indebito ritardo nel trattamento sanitario nello Stato membro di origine. Tali carenze, infatti, sono idonee a rendere impossibile la prestazione di cure identiche, o aventi lo stesso grado di efficacia, in un lasso di tempo adeguato nello Stato membro di residenza (punto 33).
La Corte, però, nell’effettuare tale valutazione ha dato luogo ad un bilanciamento tra gli interessi del singolo paziente e quelli dello Stato membro in questione, stabilendo che detta impossibilità va valutata, da parte del giudice a quo, tenendo in considerazione, da un lato, il complesso degli istituti ospedalieri idonei a prestare le cure nello Stato membro e, dall’altro, il lasso di tempo entro cui queste ultime possono essere ottenute tempestivamente (punti 34-36). Nel caso di specie, spetterà dunque al giudice del rinvio valutare se la signora Petru abbia legittimamente evitato di rivolgersi ad altri istituti sanitari rumeni prima di recarsi in Germania, in particolare alla luce del referto del medico curante che prescriveva un lasso di tempo massimo di tre mesi per effettuare l’intervento (punto 35).
La presente pronuncia si inserisce nel solco di una giurisprudenza consolidata, che viene così arricchita di un piccolo tassello. Infatti, la concezione di “indebito ritardo del trattamento sanitario” doveva sinora essere valutata con riferimento al quadro clinico del paziente al momento della richiesta di autorizzazione, al suo grado di dolore o alla natura della sua infermità e ai suoi antecedenti, conformemente all’interpretazione fornita nelle precedenti sentenze in materia di prestazioni sanitarie transfrontaliere. L’aspetto innovativo è rappresentato, dunque, da una questione specifica e non si discosta particolarmente da quanto asserito in passato dai giudici di Lussemburgo. Rappresenta però, in ogni caso, un’evoluzione giurisprudenziale degna di nota poiché estensiva della mobilità dei pazienti all’interno dell’Unione europea.
4. Le conclusioni dell’avvocato generale: un ragionamento non del tutto convincente
I giudici di Lussemburgo, come anticipato, hanno accolto la soluzione prospettata dall’avvocato generale solo in parte. La Corte, infatti, non ha ripreso la distinzione tracciata nelle conclusioni tra carenze di carattere temporaneo (per le quali si suggeriva l’obbligo dello Stato membro interessato di concedere l’autorizzazione) e carenze di natura strutturale, generalizzata e prolungata nel tempo (per le quali, invece, l’avvocato generale escludeva il medesimo obbligo). L’approccio è condivisibile perché le conclusioni dell’avvocato generale non paiono, sotto questo aspetto, pienamente persuasive. Egli osserva che il sistema sanitario della Romania, come descritto dal giudice del rinvio, si trova in condizioni di emergenza strutturale e, proprio per questo motivo, conclude per la non autorizzazione della cura transfrontaliera, a meno che i costi del rimborso della medesima possano essere adeguatamente sostenuti dal bilancio del sistema previdenziale rumeno. L’avvocato generale, infatti, ritiene che, nei casi in cui il giudice del rinvio ravvisi una carenza di tal fatta nel sistema previdenziale, l’art. 22 del regolamento non possa essere utilmente invocato, asserendo che, per definizione, lo Stato membro che versa in questa congiuntura non potrebbe sostenere gli oneri economici derivanti da una “emigrazione” sanitaria di massa degli iscritti al proprio sistema di previdenza sociale verso altri Stati membri (punto 31 delle conclusioni). L’avvocato generale sembra avere anteposto le esigenze dello Stato, già chiaramente in difficoltà, a quelle del singolo paziente, al fine di non caricare il primo di oneri economici ulteriori. Il timore evidente è quello di evitare che le carenze degli Stati più poveri dell’Unione si tramutino automaticamente in legittimazione all’ottenimento dell’autorizzazione ad espatriare, per sottoporsi a cure in un altro Stato membro a carico di detti Stati, che rischierebbero così un dissesto definitivo a causa dell’obbligo al rimborso dei propri assicurati. Tale considerazione non rappresenta, in realtà, una vera novità, se si rammenta che la Corte stessa, pur rimuovendo i vincoli alle prestazioni sanitarie transfrontaliere, ha sempre ritenuto ammissibili le giustificazioni legate a motivi imperativi di interesse generale e alla deroga di sanità pubblica ex art. 52 TFUE, giustificazioni consistenti, principalmente, nella tutela della tenuta finanziaria dei sistemi sanitari o previdenziali. Si è sempre voluto così evitare il rischio di pregiudicare i servizi sanitari, o meglio, la loro pianificazione e razionalizzazione, nello Stato di residenza del paziente.
Tuttavia, ci si potrebbe domandare se da tali considerazioni si debba dedurre l’esistenza, all’interno dell’Unione europea, di cittadini di serie A e cittadini di B (rectius, di cittadini dotati di un diritto alla salute di serie A e di cittadini dotati di un diritto alla salute di serie B), poiché si perverrebbe alla conclusione che gli assicurati di uno Stato membro “ricco” avrebbero la possibilità di circolare nell’Unione alla ricerca della cura migliore, ottenendo il rimborso delle spese, quando il loro Stato di residenza non sia in grado di fornirla in un tempo adeguato, mentre quelli di uno Stato membro “povero”, o con meno disponibilità di risorse in quel momento, ne verrebbero esclusi.
5. Alcune riflessioni alla luce del quadro normativo generale
Nella pronuncia non è stato indagato il concetto di “cura richiesta riconducibile all’insieme delle prestazioni sanitarie dispensate dal sistema sanitario nazionale o dall’assicurazione sociale di malattia di riferimento”, che rappresenta la prima condizione per il rilascio dell’autorizzazione preventiva in base all’art. 22 del regolamento. La ragione è che solo la seconda condizione era oggetto del quesito pregiudiziale, su cui peraltro, storicamente, si è concentrata in prevalenza l’attenzione nelle pronunce in materia di prestazioni sanitarie transfrontaliere. Da ciò si dovrebbe dedurre che, nella causa oggetto del procedimento principale, il rifiuto di farsi carico delle spese del trattamento medico da parte delle autorità competenti nello Stato di residenza non è stato motivato dall’inosservanza della prima condizione. In altre parole, l’intervento al cuore richiesto dalla signora Petru in Germania è stato implicitamente riconosciuto come rientrante tra le prestazioni mediche rimborsabili dal sistema previdenziale del suo Stato di residenza, ossia la Romania.
Nessun accenno è stato fatto, né dalla Corte né dall’avvocato generale, alla recente direttiva 2011/24/UE, concernente l’applicazione dei diritti dei pazienti relativi all’assistenza sanitaria transfrontaliera, che nel caso in questione non veniva in rilievo, né avrebbe potuto, per evidenti motivi cronologici, poiché i fatti di causa sono avvenuti ben prima della sua adozione (il 9 marzo 2011) e poiché il giudice nazionale ha operato il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia prima della scadenza del termine di trasposizione della stessa negli ordinamenti nazionali (il 25 ottobre 2013). Tuttavia, ci si sarebbe potuti aspettare, forse, una breve menzione al riguardo perlomeno nelle conclusioni dell’avvocato generale, che, tra l’altro, aveva già avuto modo di pronunciarsi nell’ambito di una causa in materia di prestazioni sanitarie transfrontaliere (cfr. conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón, presentate il 10 giugno 2010, relative alla causa C-173/09, Elchinov.Ciò benché, molto probabilmente, anche l’applicazione della direttiva 2011/24/UE nel caso di specie (rectius, in un caso corrispondente cui essa fosse stata applicabile ratione temporis), pur rendendo ancora meno convincente la distinzione proposta dall’avvocato generale, riportata nel § precedente e non accolta dalla Corte, non avrebbe comunque condotto i giudici di Lussemburgo ad un risultato diverso, poiché essi sembrano aver dato un’interpretazione in linea con l’obiettivo della direttiva, ossia agevolare l’accesso all’assistenza sanitaria transfrontaliera e garantire la mobilità dei pazienti tenendo conto delle esigenze di protezione e pianificazione dei sistemi sanitari degli Stati membri.
A sostegno della tesi secondo cui la Corte sarebbe pervenuta ad un analogo risultato, può anzitutto citarsi il fatto che la direttiva concede esplicitamente priorità di applicazione al regolamento (CE) n. 883/2004 relativo al coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale (cfr. considerando 31 e 46, art. 7, par. 1, e art. 8, par. 3 della direttiva 2011/24/UE), il cui art. 20, come anticipato, riproduce in modo pressoché identico l’art. 22 del precedente regolamento (CEE) n. 1408/71. La conseguenza è che nel caso in cui, anche in futuro, si scelga di ottenere prestazioni sanitarie transfrontaliere nell’ambito del regolamento in questione e venga successivamente instaurata una causa vertente sull’applicazione dello stesso, potrebbero essere invocate tutte le deroghe contenute nel regolamento (CE) n. 883/2004, come interpretate sinora dalla Corte di giustizia nella sua giurisprudenza sull’art. 22 del regolamento (CEE) n. 1408/71, per giustificare l’obbligo e l’eventuale diniego dell’autorizzazione preventiva. Anche la direttiva stessa, peraltro, pur facendo venir meno, in generale, il requisito dell’autorizzazione preventiva, permette ancora agli Stati membri, nelle ipotesi elencate all’art. 8, par. 2, di prevedere un sistema di autorizzazione preventiva per il rimborso dei costi dell’assistenza sanitaria transfrontaliera, nonché di rifiutarne la concessione per i motivi indicati all’art. 8, par. 6. L’autorizzazione dovrà, però, essere rilasciata quando l’assistenza sanitaria in questione non può essere prestata sul territorio dello Stato membro competente entro un termine giustificabile dal punto di vista clinico (art. 8, par. 5). Pertanto, anche in una causa relativa all’applicazione della direttiva in questione dovrebbe, presumibilmente, essere vagliata la sussistenza degli stessi elementi esaminati nel caso Petru.
La distinzione suggerita dall’avvocato generale (v. supra § 4) risulta, invece, poco persuasiva, poiché sembra porsi in netto contrasto, in primo luogo, con il richiamo, operato dal considerando 21 della direttiva, ai valori di universalità, di accesso ad un’assistenza di qualità, di equità e di solidarietà, nonché ai principi della non discriminazione, della libera circolazione e della necessità e proporzionalità di eventuali restrizioni a quest’ultima, ed, in secondo luogo, con uno degli obiettivi espliciti della direttiva, ossia la cooperazione tra Stati in materia di assistenza transfrontaliera. In generale, è ben vero che le conclusioni dell’avvocato generale non sono state seguite nella distinzione proposta e, pertanto, non hanno trovato applicazione nel caso di specie. Tuttavia, non può escludersi che esse possano preludere ad un cambiamento che potrebbe, in futuro, anche trovare accoglimento da parte della Corte. In esse pare potersi riscontrare una preoccupazione particolare, rispetto al passato, riguardo alle molteplici differenze tra gli ormai ventotto Stati membri dell’Unione europea in ordine alla disponibilità di risorse. Ciò vale in particolar modo in un settore dai costi estremamente elevati come quello dei servizi sanitari, che risulta altresì particolarmente sensibile a motivo dei vari interessi coinvolti. D’altra parte, si può ragionevolmente ritenere che la difficile situazione innescata dall’attuale crisi economica tenda ad accentuare dette diversità e, anche questo fattore può avere influito sui giudizi espressi dall’avvocato generale.
Il diritto alla salute, peraltro, sembra trovare difficoltà ad affermarsi nell’ordinamento “comunitario”, e pare indicativo, in tal senso, il fatto che l’art. 35 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, richiamato sia dalla signora Petru sia dalla Commissione, nelle rispettive osservazioni, non sia stato oggetto di riflessione né da parte dell’avvocato generale né da parte della Corte di giustizia. Fortunatamente, la Corte ha adottato, come si è visto, una soluzione che appare meno netta e, con tutta probabilità, più equilibrata rispetto a quella suggerita dall’avvocato generale.
Allo stato attuale, il paziente può scegliere se farsi curare in base alla disciplina degli odierni regolamenti (CE) n. 883/2004 e n. 987/2009 sul coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale, o secondo le norme (di trasposizione) della direttiva 2011/24/UE. Solo lo sviluppo della prassi e di una giurisprudenza relativa alla recente direttiva, peraltro, consentiranno di valutare se, e in quale misura, quest’ultima comporti un miglioramento concreto della posizione del paziente che sceglie di curarsi in uno Stato membro dell’Unione diverso da quello di residenza.
Anna Ferrari