La BEI, la Brexit e l’Italia*

Le seguenti considerazioni intendono riassumere due aspetti della “Brexit” che interessano in modo particolare l’Italia, tenuto conto che l’uscita del Regno Unito dalla BEI non rappresenterà un aspetto secondario della negoziazione che le Parti contraenti avvieranno per giungere ad un equo accordo di recesso.

Occorre in primo luogo richiamare l’attenzione sul fatto che gli effetti della “Brexit” sono diversi se visti nel contesto dell’UE o in quello della BEI.

Nel primo caso, la posta in gioco, soprattutto per quanto concerne l’aspetto “economico”, anche se preoccupante per le economie degli Stati membri, concerne solo questi ultimi. In particolare, questa considerazione vale anche per quanto riguarda il debito dell’UE verso i suoi creditori. È vero che l’UE, come la BEI, raccoglie risorse sui mercati dei capitali, ma non può utilizzarle per coprire necessità di bilancio. Questi prestiti sono trasferiti all’EFSM che li utilizza con un sistema “back to back” per sostenere le economie di Stati membri in difficoltà. Inoltre i prestiti assunti dall’UE sono garantiti dagli Stati membri in modo solidale. Insomma, eventuali contestazioni sui rispettivi diritti ed obblighi rimarrebbero confinate nell’ambito dell’UE e dei suoi Stati membri e possono comunque essere risolte da reciproche concessioni, in particolare di carattere politico.

Nel caso della BEI, invece, l’aspetto “economico” riguarda soprattutto un rischio potenziale attualmente rappresentato da circa 500 miliardi di euro di debiti (come rivelato dal Presidente della Banca W. Hoyer) a fronte di altrettanti crediti, ivi compresi quelli che potrebbero trovarsi in una situazione di “sofferenza”. Ciò significa che la procedura di negoziazione del recesso del Regno Unito dalla BEI, mentre interessa l’Unione europea solo indirettamente, concerne non soltanto i 28 Stati membri e la BEI ma anche i creditori a vario titolo di quest’ultima. Più precisamente, i creditori dei suddetti 500 miliardi di debiti sono interessati da uno svolgimento corretto della suddetta procedura, considerato che la garanzia degli Stati membri in questo caso è limitata per statuto ad una percentuale di circa 1 su 2,5 del debito complessivo. E non bisogna dimenticare che una parte del debito di 500 miliardi è detenuto da creditori esterni all’UE, nei cui confronti i trattati valgono nei limiti in cui questi sono rispettati.

Visto nell’ottica della BEI, l’aspetto fondamentale della questione ”Brexit” risiede dunque nell’esigenza che la procedura di negoziazione sia attuata nel rispetto delle norme dei trattati istitutivi. Altrimenti, si può temere che, nel caso di una “Brexit” pasticciata, gli Stati membri (e quindi anche l’Italia) non potrebbero far valere nei confronti dei creditori della Banca le disposizioni istituzionali previste in loro favore e, in particolare, la limitazione di responsabilità stabilita dall’art. 4.1 dello statuto.

Che significa in sostanza “Brexit” pasticciata”? Prima del trattato di Lisbona il recesso di uno Stato dall’Unione, nel silenzio dei trattati, era probabilmente regolato dalle norme del diritto internazionale e, in particolare, dall’art. 56 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati del 1969. Dopo Lisbona un evento del genere è disciplinato dall’art. 50 TUE. Per quanto riguarda invece la BEI, gli autori dei trattati hanno previsto fin dai trattati di Roma la procedura di liquidazione della Banca ai sensi dell’attuale art. 25.2 dello statuto, secondo la quale il Consiglio dei governatori nomina dei liquidatori ed impartisce loro istruzioni per effettuare la liquidazione. La ragione di questa disposizione dipendeva non solo dal fatto che il diritto internazionale non poteva essere applicato alla Banca, ma, soprattutto, perché non si voleva che gli Stati membri si “immischiassero” nei complessi meandri di un processo di natura economico-finanziaria quale quello richiesto dalla liquidazione dell’organismo bancario.

La procedura di liquidazione prevista dall’art. 25.2 dello statuto è cioè il frutto di una norma speciale che riposa sull’esigenza di tutelare la responsabilità limitata degli Stati membri nei confronti dei creditori della BEI. Questa norma è il punto finale di un filo conduttore che ha improntato lo statuto fin dalla sua origine e che si basa sul principio (riconosciuto dalla Corte di giustizia nella sentenza 3/3/1988, causa 85/86, CE c consiglio dei governatori BEI) di rendere autonoma la Banca sotto il profilo finanziario sia riguardo all’Unione europea sia, in una certa misura, rispetto agli stessi Stati membri. E nulla vieta di ritenere che la suddetta esigenza sussista anche nel caso di una liquidazione parziale dell’organismo bancario, come deve essere considerata la situazione dovuta al recesso di un solo Stato membro. Con la conseguenza che la procedura di negoziazione che porterà al recesso del Regno Unito dalla BEI non potrà che svolgersi nelle forme previste dal suddetto art. 25.2 dello statuto.

Pertanto, una procedura di negoziazione estranea al suddetto art. 25.2 comporterebbe due sostanziali conseguenze. Innanzitutto, come spiegato nell’articolo menzionato in calce, una siffatta procedura sarebbe attuata senza una base giuridica e quindi in violazione dei trattati (di cui lo statuto della BEI è parte integrante). In secondo luogo, per mancanza di alternative, la corrispondente trattativa sarebbe portata a termine dagli stessi Stati membri, per il tramite del Consiglio dell’Unione, anche se con l’ausilio della BEI, provocando così un loro totale coinvolgimento nella risoluzione delle complesse questioni finanziarie legate al recesso del Regno Unito. Il che farebbe ragionevolmente ritenere ai creditori, anche futuri, della Banca di essere totalmente e solidalmente garantiti dagli Stati membri, la limitazione di responsabilità prevista dal detto art. 4.1 dello statuto essendo ormai divenuta una disposizione superata dagli eventi.

Ma non è tutto, perché c’è un altro aspetto della “Brexit” che interessa in modo particolare l’Italia. È inevitabile che, per le ragioni illustrate nell’articolo citato in calce, i 27 Stati membri restanti intenderanno aumentare il capitale della BEI, almeno fino all’ammontare preesistente al recesso del Regno Unito. Conseguentemente, gli stessi Stati membri vorranno stabilire le nuove percentuali di capitale di rispettiva spettanza. In tale prospettiva, occorre considerare che, a seguito del recesso del Regno Unito, gli stessi Stati membri dovranno contribuire proporzionalmente alla ricostituzione della quota di capitale che sarà “restituita” a questo Stato, pari a euro 39.195.022.000. In realtà, l’esigenza di rivedere le quote di partecipazione al capitale della BEI si manifesterà anche prima del suddetto aumento di capitale, allorché i 27 Stati membri dovranno prendere atto della diminuzione del capitale dovuta al recesso del Regno Unito. Essi dovranno cioè indicare formalmente il nuovo importo risultante da tale decremento e ripartirlo nelle minori percentuali di rispettiva spettanza. Tuttavia, il vero problema nel suo complesso nascerà solo quando gli stessi Stati membri saranno chiamati a stabilire le percentuali delle nuove quote legate al definitivo aumento di capitale.

La determinazione di tali quote percentuali si fonda sul principio generale per il quale il capitale sottoscritto della BEI è ripartito tra gli Stati membri secondo importi approssimativamente proporzionati alle rispettive economie. Per quanto concerne l’Italia, questo principio rimase in vigore nel periodo di tempo intercorso dal 1958, anno di costituzione della Banca, fino all’8/6/1988, durante il quale la quota di capitale sottoscritta dall’Italia era inferiore a quella assegnata alle tre maggiori economie europee dell’epoca (Germania, Francia e Inghilterra). A partire da quella data il detto principio non è stato più applicato nei confronti dell’Italia, poiché questa, nel Consiglio dei governatori della BEI dell’11 giugno 1985 (di cui era membro il ministro del Tesoro Bruno Visentini), in occasione di un ulteriore aumento del capitale della Banca, si convinse dell’utilità di una maggiore partecipazione di tale capitale e richiese l’allineamento della propria quota a quella di Francia, Germania e Regno Unito (Informazioni BEI/EIB n. 45 del luglio 1985).

Questo risultato fu poi raggiunto sul piano interno con la legge 9/5/1988 n. 167 che decise l’equiparazione della quota sottoscritta dall’Italia a quelle sottoscritte dalla Francia, dalla Repubblica federale tedesca e dal Regno Unito, rendendo sostanzialmente omogenea nelle istituzioni ed organi delle allora Comunità europee la situazione dell’Italia a quella degli altri tre maggiori Stati membri. Con la conseguenza che attualmente l’Italia è titolare di una quota di capitale sottoscritto di ammontare pari a quello detenuto dagli altri tre Stati membri. È tuttavia ragionevole ritenere che le ragioni economiche e politiche che giustificarono la suddetta decisione potrebbero non essere più valide alla luce delle mutate situazioni economiche riscontrabili nell’insieme dei restanti 27 Stati membri e che la “Brexit” sia l’occasione opportuna per ristabilire il suddetto principio.

E ciò anche nell’ulteriore considerazione che, nel quadro della ricostituzione della quota che sarà restituita al Regno Unito, la corretta applicazione di un principio ritenuto equo dagli originari autori dei trattati, per un verso, consentirebbe di limitare la partecipazione dell’Italia ad un apporto giustificato dalla sua attuale situazione economica e, per un altro verso, non influirebbe sul volume dei finanziamenti della BEI nel nostro Paese.

* Le suesposte considerazioni costituiscono un corollario degli argomenti esposti nell’articolo di G. MARCHEGIANI “Gli effetti della “Brexit” sulla Banca europea per gli investimenti (BEI)” pubblicato il 19 aprile 2017 nel n. 8 della Rivista telematica Federalismi.it.


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