La BCE segue l’esempio di FED, Bank of England e Nippon Ginko: il Quantitative Easing approda anche nell’Eurozona
Il 16 gennaio scorso, lo stesso giorno in cui sono state pubblicate le conclusioni dell’A.G. Cruz Villalón nel caso Gauweiler et Alii c. Deutscher Bundestag – meglio noto come “programma OMT”– (cfr. S. Cafaro, Della legittimità del programma OMT della BCE, per ora… ovvero: le conclusioni dell’avvocato generale Cruz Villalón nel caso Gauweiler et alii c. Deutscher Bundestag, in www.sidi-isil.org/sidiblog), il Presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, annunciava l’imminente riunione del comitato esecutivo finalizzata all’approvazione del programma Quantitative Easing (QE).
La settimana successiva, il 22 gennaio, durante la conferenza stampasvoltasi al termine della prospettata riunione di politica monetaria, lo stesso Mario Draghi ha comunicato il varo del piano QE, un ampio programma di acquisto di titoli di debito, principalmente titoli di Stato – ma anche obbligazioni emesse da agenzie europee sovranazionali e bond societari-, finalizzato a contrastare il rischio di deflazione nell’Eurozona e a riportare il livello di inflazione intorno al 2 %, con conseguente rilancio di domanda e crescita.
Da un punto di vista strettamente tecnico, il termine “Quantitative Easing” – in italiano “alleggerimento/ allentamento quantitativo” della politica monetaria -, designa una delle modalità con cui avviene la creazione di moneta da parte di una banca centrale – nel caso di specie la BCE nel ruolo di “investitore sulla propria economia”, sulla scia di quanto già fatto da tempo dalla Federal Reserve, dalla Banca centrale inglese e dalla Banca giapponese– e la sua iniezione, con operazioni di mercato aperto, nel sistema finanziario ed economico. In caso di ricorso al QE la banca centrale acquista, per una predeterminata e annunciata quantità di denaro, attività finanziarie – ovvero azioni o, in alternativa, titoli – dalle altre banche del sistema, con effetti positivi sulla struttura di bilancio di queste ultime.
Il perno del piano QE approvato dalla BCE verte sull’acquisto di titoli di Stato per un ammontare complessivo di 1.140 miliardi di euro, da effettuarsi con scadenze mensili, a decorrere dall’inizio di marzo 2015 sino alla fine del 2016 – vale a dirsi acquisti per 60 miliardi di euro al mese per 19 mesi, per un totale di 600 miliardi di euro solo nel primo anno -, in proporzione alla quota di contribuzione di ogni Banca centrale nazionale (BCN) al capitale della BCE.
Come anticipato, l’intento finale perseguito dall’Eurotower è di espandere il proprio bilancio di circa 1.000 miliardi di euro e poter così rilanciare il mercato del credito, contrastare l’inflazione nell’Eurozona – da tempo assestatasi su percentuali troppo basse – e, infine, ridurre il carico del debito degli Stati membri aderenti alla moneta unica europea.
I benefici finali del QE dovrebbero manifestarsi sul piano dell’economia reale attraverso i) l’indebolimento della moneta unica, effetto peraltro in parte già scontato del sistema, con conseguente riflesso positivo sulle esportazioni; ii) la c.d. “rimodulazione dei bilanci” degli istituti di credito dai quali la BCE acquisterà i titoli di Stato, con conseguente concessione, da parte di questi ultimi istituti, di maggiori prestiti a imprese e famiglie.
Sebbene il Presidente della BCE abbia sottolineato, da un lato, l’unanimità raggiunta in seno al Consiglio direttivo sul fronte di ritenere il QE un vero e proprio strumento di politica monetaria e, dall’altro, la “larga maggioranza” raggiunta a sostegno del varo del programma di acquisti, nei giorni antecedenti il board non sono mancati contrasti: alcuni dei Governatori del Consiglio direttivo della BCE – primo tra tutti Jens Weidmann, presidente della Bundesbank tedesca -, infatti, si sono dimostrati quantomeno critici rispetto a determinati contenuti del programma, ovvero i) le modalità di ripartizione dei rischi derivanti dall’acquisto e ii) l’anticonvenzionalità e l’asserita illegittimità della misura in esame.
Proprio su tale secondo aspetto è importante soffermarsi, dal momento che il programma QE pare annoverarsi tra le c.d. “non-standard measures” di politica monetaria, alle quali la BCE ricorre per fronteggiare la crisi di liquidità del sistema creditizio – e tra le quali ricordiamo i precedenti Covered Bond Purchase Programme (CBPP), il Securities Markets Programme (SMP), le Long-term refinancing operation (LTRO) e, da ultimo, il programma, ad oggi non (ancora) attuato, Outright Monetary Transaction (OMT). L’anticonvenzionalità di tali misure deriva dal divieto per la BCE – e per le BCN dei “Paesi Euro”- di acquisto diretto dagli Stati membri di titoli di debito pubblico, sancito dagli artt. 123, par. 1, e 125, par. 1, TFUE e dall’art. 21, par. 1, del Protocollo sullo Statuto del sistema europeo di banche centrali e della Banca centrale europea.
Vero è, da un lato, che l’approvazione del piano QE “può sembrare un modo fin troppo semplice per aggirare tale divieto” (cfr. S. Cafaro, L’azione della BCE nella crisi dell’area dell’euro alla luce del diritto dell’Unione europea, in “La crisi del debito sovrano degli Stati dell’area dell’euro. Profili giuridici” (a cura di) G. Adinolfi, M. Vellano, 2013, p. 64), dal momento che l’acquisto delle predette attività finanziarie avverrà sul mercato secondario – vale a dire al di fuori delle apposite aste in cui i Paesi emittenti collocano i propri titoli di debito-, direttamente dalle BCN e da altre istituzioni finanziarie.
è altrettanto vero, però, che tale piano dovrà essere valutato alla luce delle più ampie richieste di sforzi formulate dalla BCE, affinché gli Stati membri adottino riforme strutturali finalizzate alla creazione di una completa e “genuina unione economica”. L’augurio di fondo è che la politica economica cessi di essere una “competenza parallela” dell’Unione europea, fondata sul mero “coordinamento delle azioni degli Stati” e diventi, al pari di quella monetaria, competenza effettivamente soggetta “al ruolo preminente delle istituzioni europee” (cfr. R. Adam, A.Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, p. 661 e 671), capace di imporre agli Stati membri una corretta disciplina fiscale.
Non sfugge, altresì, la sensazione che la politica monetaria “espansiva” della BCE – spinta sino ai limiti massimi consentiti dal TFUE e dal Protocollo SEBC – voglia porsi come strumento di traino dei bilanci nazionali verso manovre di espansione della spesa pubblica “produttiva”, senza, tuttavia, tener conto delle disposizioni di bilancio europee, le quali impongono un’altrettanto forte contrazione della spesa pubblica “improduttiva”. In un contesto rappresentato dall’odierno sistema economico, le manovre di politica monetaria, pur lodevoli e necessarie, parrebbero quindi portatrici di limiti intrinseci, a prima vista insuperabili.