Indennizzo delle vittime di reati intenzionali violenti: nuova censura della Corte di giustizia… sufficiente la risposta contenuta nella legge europea 2015-2016?

Dopo una prima censura, a fine 2007 (cfr. sentenza 29 novembre 2007, causa C-112/07, Commissione c. Italia), per mancata trasposizione della direttiva 2004/80 del Consiglio, del 29 aprile 2004, relativa all’indennizzo delle vittime di reato (l’intervento di recepimento realizzato con il d. lgs. 6 novembre 2007, n. 204 era infatti successivo alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, benché antecedente – seppur di qualche settimana – alla pronuncia della citata sentenza della Corte di giustizia), con la decisione dell’11 ottobre 2016, causa C-601/14, Commissione c. Italia, la Corte di Lussemburgo nuovamente censura l’ordinamento italiano. Si tratta, in questo caso, di accertamento della non corretta trasposizione della direttiva, la diversa natura della seconda contestazione giustificando l’avvio di una nuova procedura ex art. 258 TFUE, anziché di una procedura di c.d. “doppia condanna” ex art. 260, par. 2, TFUE (per una più ampia disamina della disciplina italiana di cui al d. lgs. 204/2007 e delle sue carenze cfr. F. Chiovini, in questa Rivista).

In linea con la soluzione prospettata dall’avvocato generale Bot nelle conclusioni del 12 aprile 2016, i giudici del Kirchberg sostengono che anche la normativa di cui al menzionato decreto legislativo (e al decreto ministeriale di attuazione del 23 dicembre 2008, n. 222) non soddisfi le prescrizioni “europee” in tema di indennizzo equo ed adeguato (qualora l’autore del reato resti ignoto o non possa essere perseguito o sia insolvente: cfr. considerando n. 10 della direttiva) per le vittime di reati intenzionali violenti commessi in situazioni transfrontaliere, il nostro ordinamento limitando siffatto indennizzo ad una serie circoscritta di fattispecie criminose (pt. 52 della sentenza). L’art. 12, par. 2, della direttiva impone, infatti, la creazione di un sistema di indennizzo siffatto per le vittime di qualsiasi reato doloso violento commesso nel territorio dello Stato e, benché spetti allo Stato definire la nozione di «reato doloso violento» nel suo diritto interno, tale specificazione – precisa la Corte –non consente di limitare il campo di applicazione del sistema di indennizzo delle vittime ad alcuni solo dei reati intenzionali violenti (pt. 46 della sentenza; ovvero quelli previsti nel nostro ordinamento da leggi speciali, richiamate dal d. lgs. n. 204/2007, e legati, in particolare, al terrorismo e alla criminalità organizzata).

Si noti che, nelle more della pronuncia in esame, il nostro legislatore è intervenuto a colmare la carenze contestategli dalla Commissione nella procedura di infrazione e accertate dalla Corte (anche in questo caso, la decisione della Corte si è imposta – in assenza di una rinuncia agli atti da parte della Commissione – dal momento che l’inadempimento si è cristallizzato alla scadenza del termine fissato nel parere motivato, ovvero il 18 dicembre 2013, termine di molto antecedente all’intervento normativo “integrativo” della disciplina di cui al d. lgs. n. 204/2007). La legge 7 luglio 2016, n. 122 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2015-2016) contiene, infatti, una serie di disposizioni (cfr. artt. 11-16) volte a garantire l’indennizzo in parola alle vittime di reati dolosi commessi con violenza alla persona (art. 11). Vero è che tale indennizzo sarà riconosciuto solo al verificarsi di una serie di condizioni (art. 12) e occorrerà vedere se la Commissione le riterrà in linea con le indicazioni fornite dalla Corte nella pronuncia di ieri (e, eventualmente, con le ulteriori indicazioni fornite dall’avvocato generali nelle sue conclusioni) o se, al contrario, richiederà un ulteriore sforzo del nostro legislatore per assicurare un più completo e “soddisfacente” indennizzo alle vittime di reati intenzionali violenti. Vittime che, ad ogni modo, potranno usufruire di tale indennizzo non soltanto in situazioni transfrontaliere (come anche la sentenza in commento sembra richiedere), ma anche in situazioni puramente interne, non facendo (giustamente) la legge europea alcuna distinzione in proposito.

Ciò, senza dubbio nel pieno rispetto del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost. ed in coerenza con quanto imposto dalla legge 24 dicembre 2012, n. 234 (Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea), il cui art. art. 53 vieta che «[n]ei confronti dei cittadini italiani [trovino] applicazione norme dell’ordinamento giuridico italiano o prassi interne che producano effetti discriminatori rispetto alla condizione e al trattamento garantiti [in Italia] ai cittadini dell’Unione europea» (si ricordi che –analogamente – nella trasposizione delle direttive mediante decreti legislativi, essi devono, secondo quanto prescritto dall’art. 32, lett. i), della stessa legge, assicurare «la parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea [non potendo] essere previsto in ogni caso un trattamento sfavorevole dei cittadini italiani»). Ma anche, a nostro modo di vedere, sulla base di una lettura dell’art. 12, § 2, della direttiva che richiede ad ogni Stato membro la creazione di un sistema di indennizzo “generalizzato” (ovvero per qualunque vittima di reato, a prescindere dalla sua nazionalità e/o residenza e, quindi, dal carattere transfrontaliero o meno della fattispecie criminosa volta a volta rilevante) funzionale (e prodromico) al sistema di cooperazione tra Stati membri regolamentato dalla direttiva, che certo (questo sì) può operare solo in situazioni transfrontaliere (legittimando la vittima del reato residente in uno Stato diverso da quello del locus commissi delicti ad avvalersi del meccanismo predisposto dalla direttiva per ottenere l’indennizzo anche senza tornare nello Stato in cui ha subito il reato, tramite la cooperazione, appunto, tra l’autorità del suo Stato di residenza e quella dello Stato in cui il reato è stato commesso).


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