In caso di Brexit

Come ormai è ben noto, nel caso di esito positivo del referendum sul recesso del Regno Unito dalla UE, la c.d. Brexit, l’Unione europea rischierà una recessione economica e perderà credibilità e peso internazionale; inoltre la Brexit determinerà la fine del modello di riappacificazione del Continente e di integrazione concepito negli anni del dopoguerra ed efficacemente perseguito per 50 anni, ovvero sino alla crisi finanziaria del 2008. Ancora peggiori – simili a quelle di una guerra persa – saranno le probabili conseguenze sul Regno Unito: svalutazione della sterlina, riduzione significativa del PIL, perdita della primazia europea quale centro finanziario, drastica riduzione di influenza politica sullo scacchiere internazionale e realistico smembramento del Regno stesso, a seguito di una possibile indipendenza della Scozia.

Se tutto questo vale il riacquisto della “sovranità” – questa “cosa piumata che si posa sull’anima”, avrebbe detto Emily Dickinson – ce lo diranno gli inglesi il 23 giugno. Il giurista, allo stato, può solo cercare di fare il punto sui possibili scenari derivanti da una vittoria del “leave the Union” facendo riferimento all’art. 50 del Trattato UE, che contiene la disciplina sul recesso dall’Unione. Tale norma prevede tre differenti ipotesi.

La prima è quella che prefigura il recesso entro un tempo massimo di due anni a far data dalla notifica della volontà di recedere al Consiglio europeo da parte dello Stato interessato. In base al combinato disposto del secondo e terzo paragrafo dell’art. 50 TUE, infatti, l’Unione conclude con lo Stato recedente, entro due anni dalla menzionata notifica, «un accordo volto a definire le modalità di recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione». Tale accordo è negoziato – almeno in via di principio – dalla Commissione ed è concluso dal Consiglio europeo, che delibera con la particolare maggioranza qualificata prevista dall’art. 238, par. 3, lett. b), TFUE, previa approvazione del Parlamento europeo.

La seconda ipotesi è che, entro il termine di due anni, non si concluda – nonostante i negoziati – alcun accordo di recesso. In tal caso, in base all’art. 50, par. 3, TUE, i trattati cessano automaticamente di essere applicabili allo Stato recedente.

Infine la terza ipotesi, ancora contemplata all’art. 50, par. 3, TUE, è quella in cui il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato recedente, decida all’unanimità di prorogare il termine dei due anni. In tal caso i trattati UE restano applicabili allo Stato recedente, sino alla data decisa dal Consiglio e dallo Stato interessato.

Quanto all’oggetto dell’accordo previsto dall’art. 50 TUE, ci pare che quest’ultimo, per un verso, non possa limitarsi a definire le condizioni e le modalità attraverso le quali uno Stato membro si scioglie dagli obblighi e rinuncia ai diritti derivanti dalla sua appartenenza all’Unione, per l’altro, non possa nemmeno contenere la disciplina completa e definitiva dei rapporti tra l’ex Stato membro e l’Unione. Piuttosto l’accordo di recesso deve costituire una sorta di ponte tra il regime dei trattati UE e i nuovi rapporti tra l’ex Stato membro e l’Unione. Lo si ricava da diversi elementi.

Anzitutto il testo stesso dell’art. 50 TUE stabilisce che l’accordo di recesso debba essere stipulato «tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione», con ciò suggerendo che debba contenere sia disposizioni per lo scioglimento dalla disciplina UE, sia regole volte ad assecondare la definizione del prevedibile assetto dei rapporti futuri tra le parti, ma non che debba disciplinare tali rapporti. Nello stesso senso va il limite temporale dei due anni entro il quale deve concludersi – in via di principio – il negoziato; tale limite testimonia che l’obbiettivo principale dell’accordo è soprattutto quello dell’abbandono del sistema giuridico dell’Unione, e non quello della ricostruzione dei rapporti con tale sistema.

In secondo luogo, anche la collocazione dell’art. 50 TUE – inserito tra le disposizioni finali e subito dopo la norma relativa alla adesione – esclude, secondo una interpretazione sistematica, che mediante esso si possano disciplinare definitivamente e con completezza le relazioni tra Stato recedente e Unione. Peraltro, il TFUE contiene disposizioni ad hoc – in particolare gli artt. 216 e ss. – per l’instaurazione di relazioni tra l’Unione e Stati terzi, le quali prevedono procedure e maggioranze di voto diverse dalle maggioranza indicata dall’art. 50 TUE per la delibera dell’accordo di recesso. Ad esempio, per concludere un accordo di associazione, l’art. 218 TFUE prevede che il Consiglio deliberi all’unanimità, mentre per l’accordo di recesso, l’art. 50, par. 4, TUE rinvia alla maggioranza prevista dall’art. 238, par. 3, lett. b), TFUE, ossia almeno 72% dei membri del Consiglio rappresentanti gli Stati membri partecipanti, che totalizzino almeno il 65% della popolazione, tenendo presente che, sempre in base al par. 4 dell’art. 50 TUE, lo Stato recedente non partecipa a tale deliberazione. Non vi è nessuna indicazione nei trattati che le condizioni e le procedure per la regolamentazioni dei rapporti con un ex Stato membro debbano essere diverse rispetto a quelle che si applicano per i rapporti con Stati che non hanno mai fatto parte dell’Unione.

Alla luce di quanto sopra ci pare che l’accordo di cui all’art. 50 TUE debba contenere i termini dello scioglimento delle relazioni tra Unione e Stato recedente, nonché una disciplina di tali relazioni volta a far transitare le stesse verso il loro futuro prevedibile assetto. L’accordo di recesso tuttavia non deve – e probabilmente non può – contenere la regolamentazione definitiva dei rapporti tra le parti, la quale richiede un ulteriore patto, concluso secondo le procedure e con le maggioranze previste dal TFUE.

Brexit! And now?

Quale tra le diverse ipotesi di recesso contemplate dall’art. 50 TUE potrà essere applicata all’eventuale Brexit dipende considerevolmente dalle condizioni politiche che si affermeranno nel Regno Unito e in alcuni grandi Paesi dell’Unione europea. A mio avviso, tre sono gli scenari principali.

Scenario 1: il Regno Unito decide di non stipulare alcun accordo ad hoc con Unione europea

Nell’ambito del primo scenario, a seguito dell’esito del referendum, si afferma nel Regno Unito la volontà politica di regolare i rapporti con l’Unione – non mediante un accordo specifico – bensì attraverso l’adesione a schemi pattizi già esistenti, come l’EFTA/EEA o la OMC. Si tratta di una soluzione minimalista, che peraltro è già suggerita da diversi euroscettici, e che consentirebbe di percorrere l’opzione dell’accordo di recesso entro i due anni dalla notifica al Consiglio europeo della volontà di recedere. Questa notifica potrebbe essere compiuta alla fine dell’anno con il duplice vantaggio di rendere più agevole la predisposizione del nuovo bilancio dell’Unione, che terrebbe conto del recesso dal 1° gennaio 2019, e di aumentare di qualche mese il tempo disponibile per predisporre tutti i termini e le condizioni dell’uscita di uno Stato membro così rilevante. Peraltro, la scelta di mantenere rapporti nel quadro di discipline internazionali già note ed operative dovrebbe semplificare il negoziato sia dal punto di vista giuridico, che dal punto di vista politico. È difficile infatti scorgere ragioni per le quali i restanti 27 Stati membri dovrebbero obiettare ad una tale soluzione. Di conseguenza il termine dei due anni, così come esteso mediante il rallentamento della notifica, potrebbe essere rispettato.

Scenario 2: Regno Unito e Unione europea convengono di stipulare un accordo ad hoc

In base ad un secondo scenario, il Regno Unito decide di regolare le future relazioni con l’Unione con un accordo ad hoc. All’uopo i modelli non mancano e vanno dall’accordo di associazione analogo a quello attualmente in vigore tra UE e Turchia, al Free Trade Agreement, ad esempio simile a quello stipulato tra UE e Canada (CETA), oppure al complesso di relazioni intercorrenti tra UE e Svizzera, la quale è membro EFTA, ma non è parte EEA, e stipula di volta in volta con l’Unione accordi di incorporazione del diritto UE.

In questo caso sarebbe difficile rispettare il termine dei due anni, sia pure esteso mediante l’escamotage della notifica ritardata. A prescindere dalle difficoltà e dall’estensione del negoziato, occorre infatti considerare che nel 2017 sia la Germania sia la Francia terranno le elezioni politiche, e che in entrambi questi Paesi vi sono importanti partiti che spingono per rivedere drasticamente i rapporti con l’Unione; è allora facile immaginare che nessuno dei governi di questi Stati sarà disposto a premiare l’uscita del Regno Unito con un accordo che prefiguri un assetto soddisfacente per quest’ultimo delle relazioni con l’Unione. Al riguardo va considerato che, come visto, in base all’art. 50 TUE, l’accordo di recesso deve essere deliberato dall’Unione con una maggioranza qualificata particolare, ossia, conformemente al par. 3 della disposizione, col voto favorevole di almeno il 72% degli Stati membri che rappresentino almeno il 65% della popolazione dell’Unione. Considerando che il Regno Unito non può partecipare alla votazione, questo significa che l’accordo deve essere votato da almeno 19 Stati su 27 e che tra questi, realisticamente, devono figurare almeno 4 Stati grandi sui cinque rimanenti (Germania, Francia, Italia, Spagna e Polonia), altrimenti la soglia del 65% non viene superata. Basterebbero dunque alleanze tattiche tra due grandi Stati per impedire la conclusione dell’accordo. Ciò senza contare che quest’ultimo deve essere approvato dal Parlamento europeo e tale passaggio potrebbe non essere scevro da complicazioni.

In un tale quadro, se non si vogliono interrompere bruscamente le relazioni tra Unione e Regno Unito, si dovrebbe ricorrere alla decisione di prorogare formalmente il termine dei due anni, mediante delibera unanime del Consiglio europeo e con l’accordo del Regno Unito. In questa fase ancora una volta il dato politico diventa cruciale: il Consiglio europeo non dovrebbe faticare a trovare l’unanimità al suo interno, ma è imponderabile la posizione del Regno Unito, posto che la proroga del termine implica la continuazione della appartenenza all’Unione (saremmo già nel 2019!) e tale risultato potrebbe essere considerato inaccettabile da tale Stato, in considerazione della volontà espressa dai suoi elettori.

Scenario 3: l’Unione europea decide un’auto-riforma che consente al Regno Unito di continuare ad esserne membro

Il terzo scenario che si può ipotizzare è che la Brexit spinga l’Unione a riconsiderare in maniera effettiva – e non gattopardesca – la propria struttura costituzionale, in particolare, secondo il modello dei due cerchi concentrici. In quello centrale rientrerebbero gli Stati disposti ad accettare una «Unione sempre più stretta» anche con caratteri di integrazione politica; nel cerchio periferico si collocherebbero gli Stati che vedono l’Unione solo come un’area economica in cui i fattori della produzione circolano liberamente, con eventuale parziale esclusione dei lavoratori. Una tale riforma andrebbe incontro ai desideri anche dei più euro-scettici inglesi e quindi le ragioni per abbandonare l’Unione riformata verrebbero meno. Forse in questa prospettiva il Regno Unito potrebbe accettare più facilmente di prorogare il termine di recesso previsto dall’art. 50 TUE, in modo da consentire alla riforma di essere adottata da tutti gli Stati membri conformemente alle loro disposizioni interne.

Tuttavia questo scenario è ipotizzabile solo dopo le elezioni francesi e tedesche del 2017, perché vi è il rischio, in particolare in Francia, che un eventuale nuovo governo euro-scettico decida di collocare il Paese nel cerchio periferico e non in quello centrale.

È impossibile dire quali di questi scenari augurarsi, e a pochi giorni dal referendum si può solo auspicare che God save the Union!


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