Il rispetto dei diritti umani impone allo Stato membro l’obbligo di rilasciare un visto umanitario al richiedente asilo esposto a rischi per la propria vita e incolumità. – Le conclusioni dell’Avvocato Generale nella Causa X e X c. Belgio, C-638/16 PPU
Nelle Conclusioni presentate il 7 febbraio 2017 (Causa C-638/16 PPU, X e X c. Belgio) l’Avvocato Generale Mengozzi si è espresso in merito ad un’importante quanto delicata questione: l’individuazione di vie d’accesso legali all’Unione europea e l’obbligo per gli Stati membri di rispettare i diritti umani. Secondo la posizione dell’A.G. – fortemente osteggiata dalla Commissione e dai governi dei ben 14 Stati membri intervenuti in causa – sussiste per lo Stato un obbligo di rilasciare un visto per ragioni umanitarie quando vi sono fondati motivi per ritenere che un rifiuto metterà in pericolo la vita e la sicurezza personale dei soggetti richiedenti la protezione internazionale.
La questione delle vie legali di accesso all’Ue riveste crescente interesse, inserendosi nel contesto dell’attuale dibattito sulle misure per fronteggiare efficacemente la pressione migratoria, garantendo al contempo il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Già in diverse occasioni, infatti, le istituzioni europee hanno manifestato l’intenzione di introdurre, accanto alle misure di contrasto dei flussi irregolari, dei canali d’ingresso organizzati e sostenibili, tali da consentire alle persone bisognose di protezione internazionale di raggiungere il territorio europeo in modo legale, sicuro e dignitoso (v. la Comunicazione della Commissione “Riformare il sistema europeo comune di asilo e potenziare le vie legali di accesso all’Europa” e la Risoluzione del Parlamento europeo sulla “situazione nel Mediterraneo e la necessità di un approccio globale dell’UE in materia di immigrazione”, ma si vedano anche i rilievi contenuti nel rapporto per il Comitato LIBE “Humanitarian Visas: Option or Obligation?). Si tratta, peraltro, di schemi già attuati in alcuni casi a livello nazionale (v. ad es. il programma di visti umanitari creato in Brasile nel 2013 a favore di soggetti colpiti dal conflitto in Siria e positivamente accolto dall’UNHCR).
In effetti, lo strumento del visto umanitario risponde a questa ratio: può essere richiesto da un soggetto bisognoso di protezione internazionale presso i consolati e le ambasciate di uno Stato membro presenti in un paese terzo di origine o transito, consentendo, ove concesso, di potersi poi recare direttamente nello Stato membro in questione al fine di presentare domanda di asilo ed essere inserito nelle relative procedure per l’ottenimento della protezione internazionale.
Come si è anticipato, secondo l’opinione dell’A.G., gli Stati membri devono concedere un visto umanitario qualora, alla luce delle circostanze, il rifiuto rischia di compromettere il godimento e la salvaguardia dei diritti fondamentali del richiedente protezione internazionale.
Una tale conclusione giunge in risposta ai quesiti pregiudiziali sollevati dal Consiglio del contenzioso degli stranieri del Belgio la cui trattazione – visto il carattere di estrema urgenza e pericolo per i ricorrenti (una coppia siriana con bambini in fuga dalla guerra ) – è stata affidata alla grande sezione con procedimento pregiudiziale d’urgenza.
La famiglia siriana aveva avanzato presso l’ambasciata belga in Libano domanda per l’ottenimento di un visto per motivi umanitari, conformemente al Codice dei visti dell’Ue (Regolamento CE n.810/2009, art. 25, par. 1, lett. a), al fine di consentirle di lasciare la città di Aleppo posta sotto assedio e introdurre poi una richiesta di asilo in Belgio. Il visto veniva tuttavia negato. Il giudice belga, investito del ricorso avverso tale decisione, si è quindi rivolto alla Corte di giustizia per l’interpretazione del Codice dei visti alla luce delle norme che tutelano i diritti umani sancite dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue (artt. 4 e 18) e dagli obblighi internazionali posti dalla Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati del 1951 e dalla CEDU.
Secondo le posizioni espresse dalla Commissione e dagli Stati membri intervenuti (a parte Malta, tutti appartenenti a un compatto blocco di paesi del centro-nord Europa) la vicenda dei ricorrenti fuoriesce dall’ambito del diritto dell’Unione, la Carta dei diritti fondamentali non troverebbe dunque applicazione. Ancora, si configurerebbero rilevanti questioni di giurisdizione e ambito spaziale della disciplina dell’Ue in materia di asilo e tutela dei diritti umani, l’applicazione della stessa richiedendo specifici requisiti territoriali e giuridici.
L’A.G. si oppone a tali considerazioni, argomentando che quando uno Stato membro decide in merito a una domanda di visto per motivi umanitari secondo la disciplina del Codice dei visti, esso sta a tutti gli effetti attuando il diritto dell’Unione. Nel fare ciò, infatti, le autorità nazionali adottano una decisione circa la concessione o meno di un documento che autorizza l’attraversamento delle frontiere esterne dell’Ue, secondo un regime normativo armonizzato e comune.
Ora, ai sensi dell’art. 51, par. 1 della Carta dei diritti fondamentali, quando agiscono nell’attuazione del diritto dell’Unione, gli Stati membri sono tenuti al rispetto delle disposizioni dalla stessa poste e, dunque, “rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione”.
Le autorità belghe, prendendo una decisione ai sensi della disciplina del Codice dei visti, hanno dato attuazione al diritto dell’Unione ed erano, pertanto, pienamente tenute al rispetto dei diritti garantiti dalla Carta. In questo senso, inoltre, i diritti fondamentali ivi sanciti rilevano indipendentemente da qualsiasi criterio di territorialità, la loro tutela imponendosi a ogni autorità degli Stati membri ogniqualvolta essa agisca nell’ambito del diritto dell’Unione.
Se, viceversa, si agganciasse l’applicazione della Carta a un legame di territorialità con uno Stato membro, si creerebbe una sorta di “zona d’ombra” per cui l’attuazione della normativa comune sui visti sarebbe sottratta al rispetto dei diritti umani. Se, infatti, la Carta non si applicasse anche allorché uno Stato membro attua il diritto dell’Ue extra-territorialmente, significherebbe che vi sono situazioni che, pur coperte dal diritto dell’Ue, si sottraggono alla tutela dei diritti fondamentali.
In altri termini – come del resto confermato dalla giurisprudenza della Corte di giustizia (sentenze Åkerberg Fransson, C-617/10 e Pfleger e.a., C-390/12) – deve necessariamente sussistere un parallelismo tra l’azione dell’Ue (condotta dalle sue istituzioni o dagli Stati membri quali intermediari) e il rispetto dei diritti fondamentali previsti dalla Carta. Pertanto, l’applicazione del diritto dell’Unione (dentro o fuori il suo territorio) implica per forza anche quella della Carta e dei diritti in essa garantiti.
Alla luce di questa premessa, basandosi in particolare sugli articoli 4 e 18 della Carta (rispettivamente, divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti; diritto di asilo), l’A.G. arriva a concludere che uno Stato membro ha (non la facoltà, bensì) l’obbligo di rilasciare un visto per motivi umanitari qualora si possa fondatamente ritenere che la decisione di rifiuto esporrebbe il soggetto interessato al rischio di subire trattamenti vietati dalla Carta, privandolo così inoltre di un mezzo legale per esercitare il suo diritto a richiedere la protezione internazionale in detto Stato membro.
Quanto alle ulteriori fonti internazionali richiamate nel rinvio pregiudiziale (CEDU e Convenzione di Ginevra), l’A.G. non considera utile approfondire la questione, non essendovi alcun dubbio circa la rilevanza di tali testi normativi, tanto come parametro d’interpretazione del diritto dell’Ue in materia di asilo, quanto come parametro di legalità per gli Stati membri che lo applicano.
Una volta spese le proprie argomentazioni giuridiche, l’A.G. completa le Conclusioni con una considerazione finale circa il valore universale dei diritti inviolabili e inalienabili dell’uomo, pilastro su cui poggia l’intera costruzione europea. L’Unione europea, viene sottolineato, ha il dovere – giuridico e morale – di onorare, difendere e promuovere questi diritti, garantendone il rispetto concreto soprattutto nei confronti dei soggetti più vulnerabili e bisognosi di tutela come i rifugiati. Di fronte alle sfide poste dai flussi migratori e dalle crisi umanitarie – si ammonisce – sono in gioco la stessa credibilità dell’Ue e la sua reputazione nel mondo.
La parola, adesso, passa ai giudici della Corte di giustizia, la cui sentenza è attesa per il 7 marzo 2017.