Il Parlamento europeo ha votato: attivato l’art. 7, par. 1, TUE nei confronti dell’Ungheria

1. “Tanto tuonò che piovve”: il Parlamento europeo, nella plenaria dello scorso 12 settembre, ha deciso di attivare la procedura ex art. 7, par. 1, TUE nei confronti dell’Ungheria

Un voto storico – si tratta della prima volta per il Parlamento europeo – che ha avuto, nei giorni immediatamente precedenti e successivi, grande risonanza mediatica (anche in Italia, ex multis v. qui e qui), ma che affonda le proprie radici in un percorso assai lungo, in quanto il Paese guidato da Viktor Orbàn già da tempo era sottoposto a particolare attenzione da parte delle istituzioni UE.

Situazione che, ad oggi, accomuna l’Ungheria alla Polonia del premier Duda, anch’essa sottoposta alla medesima procedura, avviata però dalla Commissione nel 2017: è bene precisare, onde sgombrare il campo da inesattezze comparse sui media (ex multis, v. qui e qui), che il Consiglio potrà – nel caso ungherese come in quello polacco – soltanto dichiarare l’esistenza di un evidente rischio di una grave violazione dei valori sanciti dall’art. 2 TUE. L’adozione di sanzioni da parte del Consiglio nei confronti dell’Ungheria (così come della Polonia) sarà possibile soltanto all’esito della (più complessa) procedura di cui all’art. 7, par. 2, TUE, ovvero quando il Consiglio europeo, all’unanimità, dovesse sancire che esiste, nello Stato membro de quo, una violazione grave e permanente (e non, quindi, un mero rischio) di uno dei predetti valori.

2. L’Ungheria – entrata a far parte dell’UE a seguito del grande allargamento verso est del 2004 – ha vissuto, dopo l’affermazione elettorale del partito Fidesz, guidato da Viktor Orbàn (2010), una stagione di riforme costituzionali e legislative.

Appena insediatosi a capo dell’esecutivo ungherese, Orbàn ha promosso, grazie alla maggioranza parlamentare ottenuta (i due terzi dei seggi, circostanza che ha consentito a Fidesz di riformare pressoché ogni norma senza dover ottenere l’appoggio di altri schieramenti), l’approvazione di una nuova Costituzione, in vigore dal 2012 (per un approfondimento, v. De Simone), oggetto di attenzione da parte della Commissione (v. infra), del Parlamento europeo (v. le risoluzioni del febbraio 2012, luglio 2013 , giugno 2015, dicembre 2015) e della Commissione di Venezia (organo consultivo del Consiglio d’Europa dal 1990, composto da membri indipendenti ed esperti in materia giuridica e politica, ha contribuito in modo significativo alla diffusione e tutela del patrimonio costituzionale europeo, in particolare mediante forme di ausilio e/o sostegno nelle fasi di redazione di nuovi testi costituzionali o di crisi politico-istituzionale all’interno dei Paesi membri. Rispetto all’Ungheria, v. in primo luogo il parere n. 621/2011, seguito da numerosi altri qui elencati).

Fin dai primissimi anni dei governi Orbàn (oggi giunto al terzo mandato consecutivo), sono stati denunciati numerosi aspetti critici, incompatibili con i valori irrinunciabili enunciati dall’art. 2 TUE, relativi alle riforme costituzionali e normative promosse dal nuovo esecutivo e varate dal legislatore magiaro. Molteplici provvedimenti – con valore retroattivo – sono stati adottati per restringere fondamentali libertà e diritti civili. A mero titolo esemplificativo, le confessioni religiose sono assoggettate a registrazione, previo voto favorevole dei due terzi del Parlamento; è stato interrotto il mandato del Commissario parlamentare che aveva competenza sulla privacy e sul trattamento dei dati personali, con trasferimento delle competenze ad una nuova autorità creata ad hoc; è stata fortemente limitata l’indipendenza della Banca centrale ungherese.

Cospicui sono stati anche gli interventi nel settore giudiziario, che hanno condotto ad una profonda ingerenza del Governo nella nomina e nella gestione dell’organico dei magistrati, resa possibile dall’abbassamento dell’età della quiescenza dei giudici e dal conseguente turnover dei giudici, specie nelle posizioni apicali.

Infine, oggetto di critica è stata una specifica previsione costituzionale che ha introdotto un nuovo le cd. “leggi cardinali”, da adottarsi con maggioranza di due terzi dei voti parlamentari, le quali coprono una serie di materie (ritenute nevralgiche) relative al sistema istituzionale ungherese e all’esercizio dei diritti fondamentali. Tale elevato quorum le rende di difficile modifica salvo che, come nelle circostanze attuali, uno schieramento politico detenga un’ampia maggioranza parlamentare. Nei mesi successivi all’adozione della Costituzione, il partito guidato da Orbàn, forte della maggioranza parlamentare, ha emanato ben quarantanove leggi cardinali.

La Commissione, dinanzi a tali circostanze, ha avviato soltanto tre procedure di inadempimento a carico dell’Ungheria per violazione di disposizioni del diritto UE (per l’analisi delle differenze tra le due procedure in esame, v. M. Parodi, nonché quanto osservato dalla Commissione nella comunicazione n. 158 del 2014); una di queste – relativa all’indipendenza della Banca centrale ungherese – si è chiusa in fase precontenziosa, poiché la Commissione si è ritenuta soddisfatta delle assicurazioni fornite dall’Ungheria. Le altre due procedure, invece, hanno avuto come esito altrettante sentenze della Corte di giustizia, la quale, in entrambi i casi, ha dichiarato l’infrazione dell’Ungheria. In particolare, la Corte ha censurato, nel primo caso, la disposizione nazionale che ha imposto, nel 2011, la cessazione dell’attività professionale di giudici, procuratori e notai che abbiano compiuto 62 anni di età, in quanto questa previsione – inserita nelle disposizioni transitorie della nuova Costituzione – comporta una disparità di trattamento in ragione dell’età non proporzionata rispetto a quanto previsto dalla direttiva 2000/78/CE del Consiglio. Nella seconda sentenza, la Corte di giustizia ha rinvenuto un inadempimento delle autorità ungheresi rispetto alle previsioni della direttiva 95/46/CE (in materia di tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali), in quanto, ponendo anticipatamente fine al mandato dell’autorità di controllo per la protezione dei dati personali, l’Ungheria è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti.

Peraltro, gli orientamenti espressi a più riprese da Orbàn e le scelte assunte dalle autorità ungheresi in materia di immigrazione (tra cui il noto referendum del 2016, nonché l’impugnazione, poi rigettata, dinanzi alla Corte di giustizia della decisione del Consiglio sul ricollocamento obbligatorio dei richiedenti asilo e, da ultimo, la costruzione del “muro” al confine serbo) lasciavano oltremodo intendere come, in questo Stato, potessero essere messe in discussione fondamentali garanzie che, al contrario, dovrebbero essere comune denominatore per tutta l’Unione. In proposito, la Commissione ha annunciato l’apertura di un’ulteriore procedura d’infrazione a carico dell’Ungheria in cui già è stata adita la Corte di giustizia, in quanto lo Stato avrebbe violato gli obblighi derivanti dalla decisione UE 2015/1601 non indicando il numero di richiedenti asilo che avrebbe potuto ricollocare nel proprio territorio.

La situazione ungherese era dunque già da tempo monitorata in ragione dei provvedimenti adottati dai governi Orbàn, di dubbia compatibilità con i valori che l’art. 2 TUE sancisce.

In questa direzione si era mosso con determinazione anche il Parlamento europeo, che, dopo le già ricordate risoluzioni, nel maggio 2017 aveva assunto una chiara posizione con una raccomandazione ed espresso la propria condanna a fronte della situazione ungherese, in virtù dei numerosi interventi normativi gravemente repressivi in settori chiave quali «la libertà di espressione, la libertà accademica, i diritti umani dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati, la libertà di riunione e di associazione, le restrizioni e gli ostacoli alle attività delle organizzazioni della società civile, il diritto alla parità di trattamento, i diritti delle persone appartenenti a minoranze, compresi i rom, gli ebrei e le persone LGBTI, i diritti sociali, il funzionamento del sistema costituzionale, l’indipendenza della magistratura e delle altre istituzioni e molte accuse inquietanti di corruzione e conflitti di interesse che, nel loro insieme, potrebbero costituire una minaccia sistemica emergente allo Stato di diritto in questo Stato membro». Questa situazione, potenzialmente costitutiva di un evidente rischio di violazione grave dei valori consacrati dall’art. 2 TUE, ha indotto il legislatore europeo a dare incarico alla propria competente commissione (LIBE) di redigere, previa attenta valutazione, una bozza di parere motivato ai sensi dell’art. 7, par. 1, TUE per una eventuale attivazione della procedura ivi prevista.

Nel gennaio 2018, la Parlamentare (e membro della commissione LIBE) Judith Sargentini si è recata personalmente (e senza preavviso) in Ungheria per una visita di tre giorni, allo scopo di saggiare la situazione all’interno del Paese. Tuttavia, era stato chiaramente precisato, in via ufficiale, che ogni iniziativa in materia sarebbe stata assunta soltanto in seguito alle elezioni politiche di aprile, in cui Orbàn ha nuovamente ottenuto una chiara e preponderante maggioranza parlamentare (133 seggi su 199 totali). Nei giorni immediatamente seguenti al voto ungherese è stato quindi diffuso un rapporto in cui viene dato conto dei risultati della visita della Parlamentare Sargentini. Tale report conteneva, all’esito di una ampia e diffusa analisi (su cui v. infra) la richiesta al Consiglio di accertare, ai sensi dell’art. 7, par. 1, TUE, l’esistenza di un rischio di una violazione grave dello Stato di diritto in Ungheria.

3. Il testo elaborato da Sargentini, adottato dalla Commissione LIBE il 4 luglio scorso, è approdato alla plenaria del Parlamento europeo il 12 settembre. Esso si compone di una risoluzione, in cui sono esposti i motivi su cui si fonda la proposta al Consiglio, e del testo della decisione su cui il Consiglio stesso sarà chiamato ad esprimersi. In questa seconda parte, sono puntualmente elencate e documentate tutte le criticità emerse, a partire dal 2010, in Ungheria, tali da far temere l’esistenza di un evidente rischio di grave violazione dei valori di cui all’art. 2 TUE.

In particolare, la proposta di decisione enuncia dodici settori in cui si sono verificate le maggiori problematiche. In primo luogo, viene posto l’accento sul funzionamento del sistema costituzionale, in ragione degli interventi sul controllo di costituzionalità e della limitazione delle competenze della Corte costituzionale, ed elettorale, a causa dell’impiego massivo, da parte del governo, di forme di pubblicità sui mezzi d’informazione pubblici, che hanno amplificato eccessivamente il messaggio della coalizione di governo a scapito delle altre forze politiche. Quanto al secondo punto (indipendenza della magistratura e diritti dei giudici), oltre alle censure già avanzate in relazione alla sentenza della Corte di giustizia del 2012 nella procedura d’infrazione relativa all’abbassamento dell’età della quiescenza dei giudici, il report richiama i numerosi provvedimenti volti a incidere sull’autonomia dell’ordine giudiziario. In tal senso, viene menzionata anche una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Baka c. Ungheria) che ha ritenuto violati i diritti di cui agli artt. 6 e 10 CEDU in danno del ricorrente, András Baka, eletto presidente della Corte suprema nel giugno 2009 per un mandato di sei anni, ma rimosso dall’incarico prima della naturale scadenza in virtù delle riforme varate dai governi Orbàn.

Per ciò che concerne il terzo aspetto – corruzione e conflitti di interesse – viene evidenziata, nello specifico, l’assenza di codici di condotta in materia, nonché il deficit di controllo sulle spese della campagna elettorale. Viene inoltre menzionata un’indagine di OLAF, secondo cui in Ungheria è costantemente impiegato un sistema di subappalti per aumentare artificialmente i costi dei progetti finanziati dall’Unione europea, così determinando oltre 28 milioni di € di indebite spese per quest’ultima.

Quanto alla tutela della vita privata, autorevoli fonti internazionali, citate nel report, hanno avanzato il timore che il governo ungherese si serva dell’esigenza di garantire la sicurezza nazionale per giustificare un’intercettazione massiccia delle comunicazioni dei cittadini e residenti in Ungheria, senza prevedere alcun diritto o garanzia in relazione alle indebite interferenze nella vita privata.

In merito alla libertà di espressione e al controllo dei media, si osserva che questi ultimi sono estremamente esposti a forme di controllo politico e risentono dell’influsso governativo. Ciò si è reso palese, in particolar modo, in prossimità dell’ultima tornata elettorale, in cui telegiornali e programmi TV hanno univocamente favorito la coalizione di governo. Come raccomandato dagli osservatori internazionali, sarebbe opportuno che l’agenzia di stampa nazionale non rappresenti l’unico ed esclusivo fornitore di notizie per gli operatori del servizio pubblico.

Sono state sollevate, altresì, critiche alle restrizioni in materia di libertà accademica – specie per ciò che concerne le Università straniere operanti in Ungheria, nonché l’accesso di studenti e docenti e, infine, l’attivazione di corsi in materia di “studi di genere” – e religiosa. Su quest’ultimo versante, desta profonde perplessità la legislazione, adottata dal Parlamento nel 2013, con cui detta istituzione si è auto-costituita come l’autorità incaricata di riconoscere le comunità religiose accreditate a cooperare con lo Stato nel servizio di “attività di interesse pubblico”.

Per quanto riguarda la libertà di associazione, la proposta di decisione pone l’accento sulle limitazioni, alcune già imposte, altre di probabile e futura adozione, relative ai controlli cui sono soggette le organizzazioni che ricevono sostegno economico dall’estero: tali norme, secondo la Commissione di Venezia, possono ritenersi finalizzate a consentire una indebita ingerenza nell’esercizio della libertà associativa.

Quanto alla parità di trattamento, il testo si sofferma in primo luogo sulle sperequazioni tra generi, rilevando la posizione deteriore riservata alle donne nella società, accompagnata da commenti discriminatori pronunciati da numerosi politici. In tal senso, è stato anche osservato che il codice penale ungherese non tutela pienamente le donne vittime di violenza domestica e che soltanto una minima percentuale dei dipendenti pubblici, specie nella classe dirigente, è di sesso femminile. Inoltre, il report pone attenzione alle gravi lacune in merito al trattamento delle persone con disabilità, sovente escluse dalla società e costrette a ricovero forzato in istituti di cura isolati, spesso teatro di violenze e di trattamenti crudeli.

Per ciò che concerne i diritti delle persone appartenenti a minoranze, in particolare i rom e gli ebrei, viene sottolineato che le autorità ungheresi sono state più volte, nel corso degli anni, invitate a sforzi costanti ed efficaci per prevenire, contrastare e sanzionare la disuguaglianza e la discriminazione subite da tali gruppi minoritari. In tal senso, anche la Corte EDU ha evidenziato tali lacune e, per l’effetto, condannato l’Ungheria a causa dei ritardi nelle indagini su hate crimes a sfondo razziale (v., inter alia, Király e Dömötör c. Ungheria).

Sono state sollevate, come già anticipato, gravi perplessità circa la tutela dei diritti fondamentali dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati. Oltre alle continue dichiarazioni ostili all’accoglienza degli medesimi, desta preoccupazione la legislazione ungherese, adottata nel marzo 2017, che consente il trasferimento automatico nelle zone di transito di tutti i richiedenti asilo per l’intera durata della procedura di asilo, causando periodi di detenzione lunghi e indefiniti. Non sono previsti termini per lo svolgimento della procedura né vi sono garanzie per contestare le decisioni assunte in tale sede.

Infine, per quanto concerne taluni diritti economici e sociali, il report sottolinea in particolare la scarsa tutela in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro, specie per i lavoratori autonomi e domestici, le insufficienti misure per contrastare e ridurre la mortalità materna, l’importo minimo delle pensioni di vecchiaia troppo basso (e tale da ridurre alle soglie della povertà gli anziani), l’assenza di sostegno economico ai disoccupati e il difetto di misure di reinserimento nel circuito lavorativo.

4. Il voto del 12 settembre può certo essere definito come uno tra i più delicati del recente passato: numerose sono, infatti, le implicazioni e i profili d’interesse ad esso collegati (per un’accurata analisi, v. H. Labayle).

Nei giorni precedenti, i media avevano dato grande risalto alla votazione, in particolare raccogliendo numerose dichiarazioni dei leader politici circa le indicazioni di voto fornite agli euro-parlamentari afferenti ai loro partiti (inter alia, v. qui, specie con riferimento alle diverse scelte delle due formazioni italiane della coalizione di governo) e cercando di prevedere l’esito della decisione assembleare (v., ad esempio, qui).

Molto accesa è stata altresì la discussione tenutasi in Parlamento europeo il giorno precedente il voto. All’intervento della relatrice Sargentini hanno fatto seguito numerose dichiarazioni, le une chiaramente a sostegno del premier ungherese (in tal senso, spicca quella di Nigel Farage, che ha esortato Orbàn ad uscire dall’UE); le altre, invece, favorevoli all’apertura della procedura di cui all’art. 7, par. 1, TUE nei confronti dello Stato membro. Non è poi mancato, fra gli interventi, quello di Viktor Orbàn, che non ha risparmiato dure critiche al report in discussione, definito come “un insulto al popolo ungherese”.

Ancora, era motivo di dubbio – in ragione del fatto che si trattava, effettivamente, del primo voto ex art. 7, par. 1, TUE per l’assemblea – il metodo di conteggio dei voti necessari (i 2/3, secondo quanto previsto dall’art. 354, par. 4, TFUE) affinché la risoluzione Sargentini potesse essere approvata. Era infatti stata segnalata (v. M. Steinbeis) un’ambiguità relativa al conteggio delle astensioni: secondo l’art. 178, par. 3, del regolamento di procedura del Parlamento, «per l’approvazione o la reiezione di un testo entrano nel calcolo dei voti espressi soltanto i voti a favore e contro, salvo nei casi per i quali i trattati prevedano una maggioranza specifica». Quindi, trattandosi di un’ipotesi di quest’ultimo tipo, l’individuazione del quorum deliberativo avrebbe dovuto tener conto anche delle astensioni (così da conteggiarsi, de facto, come voti contrari alla risoluzione). Invero, la questione era assolutamente centrale, in quanto numerosi parlamentari del PPE (lo schieramento in cui confluivano anche i rappresentanti di Fidesz) di nazionalità non ungherese avevano manifestato l’intento di non prendere posizione. Al contrario, la lettura dell’art. 354, par. 4, TFUE fondava l’opzione ermeneutica opposta, ovvero quella secondo cui la maggioranza dei 2/3 deve valutarsi sul numero dei soli voti espressi, così escludendo dal computo le astensioni.

Il voto del 12 settembre – poi svoltosi secondo la regola prevista dall’art. 354, par. 4, TFUE, ovvero considerando i 2/3 dei voti espressi, purché rappresentanti almeno la metà dei parlamentari – ha visto affermarsi lo schieramento a favore della risoluzione con 448 voti (69,4% degli espressi); 197 i contrari, 48 gli astenuti. Non è da escludere, secondo quanto sottolineato da H. Labayle, la possibilità che questa modalità di conteggio possa indurre l’Ungheria ad un ricorso alla Corte di giustizia, sebbene appaia una via non semplice: l’art. 269 TFUE limita il proprio raggio d’azione ai soli vizi procedurali concernenti soltanto gli atti del Consiglio o del Consiglio europeo nelle procedure ex art. 7 TUE (quindi appare difficilmente estensibile al voto parlamentare), mentre l’art. 263 TFUE può essere impiegato soltanto a fronte di atti che dispiegano effetti giuridici verso terzi. Circostanza che non sembrerebbe ricorrere nel caso di specie, in quanto il voto del Parlamento pare soltanto propedeutico ad una futura (ed eventuale) pronuncia del Consiglio.

Per quanto concerne l’analisi della votazione, tra i ranghi del PPE – in cui, come già accennato, confluiscono i membri di Fidesz – moltissimi parlamentari (116, il 67% del totale degli iscritti al gruppo che si sono espressi) hanno votato a favore del report Sargentini, a fronte di 57 voti negativi e di 28 astensioni. Compatti sul “si” i socialdemocratici (tra le cui fila solo 2 parlamentari hanno espresso opinione contraria), i verdi e i liberaldemocratici; orientati, invece, sul “no” i conservatori dell’ECR.

5. Le conseguenze del voto appaiono, sin da questi primi giorni, di grande momento (per una prima analisi sulle implicazioni di quanto accaduto, v. M. Steinbeis): per la prima volta, infatti, come già evidenziato in apertura, il Parlamento europeo ha attivato la procedura di cui all’art. 7, par. 1, TUE (per un approfondimento sul meccanismo e sulla genesi di tale disposizione, v., in questa Rivista, B. Nascimbene), prendendo così posizione di fronte ad una situazione – quella ungherese – su cui già da tempo si erano concentrate critiche e perplessità. In questo modo, il voto del Parlamento ha posto sostanziale rimedio anche alla sperequazione che parte della dottrina aveva individuato nel differente trattamento riservato all’Ungheria e alla Polonia (v. G. Di Federico e, più recentemente, H. Labayle), in quanto (soltanto) verso quest’ultimo Stato la Commissione si era prontamente attivata con il meccanismo di preallarme (introdotto nel 2014 con la comunicazione n. 158, su cui v., ex multis, L. S. Rossi, e, in questa Rivista, O. Porchia) a presidio dello stato di diritto. Lo stesso Parlamento europeo, con la già menzionata risoluzione del dicembre 2015 (pt. 8) aveva esortato la Commissione ad attivare immediatamente, nei confronti dell’Ungheria, «un approfondito processo di monitoraggio riguardante la situazione della democrazia, dello Stato di diritto e dei diritti fondamentali […] valutando inoltre l’insorgenza di una minaccia sistemica in detto Stato membro che potrebbe trasformarsi nel chiaro rischio di una grave violazione ai sensi dell’articolo 7 TUE».

Ancorché l’Ungheria e la Polonia siano, allo stato attuale, sottoposte alla medesima procedura – che fino a poco tempo fa appariva «lettera morta» (v. C. Curti Gialdino) del Trattato – mette conto sottolineare che vi sono arrivate tramite percorsi differenti e per profili problematici non esattamente sovrapponibili.

Nel caso polacco, è stata la Commissione – legittimata, al pari del Parlamento, ad attivare l’art. 7, par. 1, TUE – ad avere chiesto il 20 dicembre 2017, al Consiglio di dichiarare la sussistenza di un rischio evidente di una grave violazione del (solo) valore dello Stato di diritto da parte della Repubblica polacca. A seguito, infatti, di talune riforme promosse in quel Paese, la Commissione ha fatto ricorso alla strategia dialogica introdotta con la comunicazione del 2014, cercando di contenere la crisi costituzionale (e politica) in atto nello Stato de quo, tuttavia senza apprezzabili esiti. Le tre formali raccomandazioni indirizzate alla Polonia non hanno suscitato le auspicate modifiche della legislazione polacca che aveva progressivamente inciso su aspetti centrali della rule of law, quali l’indipendenza della magistratura e l’autonomia della Corte costituzionale (amplius, sia consentito rinviare a M. Aranci).

Su questo profilo, quindi, emerge con chiarezza una differenza: per la Polonia, i profili che hanno condotto all’attivazione dell’art. 7 TUE concernono soltanto lo stato di diritto, mentre per l’Ungheria la risoluzione del Parlamento europeo abbraccia uno spettro di rischi (e potenziali violazioni) ben più ampio, in quanto concerne – come osserva anche H. Labayle – la violazione «dei valori su cui si fonda l’Unione». Sin dai primi interventi nei confronti del Paese magiaro, il Parlamento europeo ha infatti osservato la presenza di (potenziali) violazioni non già della sola rule of law, bensì di un maggior numero di valori fondamentali dell’Unione, quali «l’esercizio della democrazia, lo Stato di diritto, il rispetto e la protezione dei diritti umani e sociali, il sistema di controlli e contrappesi, l’uguaglianza e la non discriminazione» (v. pt. 1 della risoluzione del febbraio 2012).

Inoltre, se è vero che, in entrambi i casi, sarà il Consiglio a pronunciarsi – con i 4/5 dei voti favorevoli potrà constatare l’esistenza di un evidente rischio di violazione grave di uno (o più) dei valori di cui all’art. 2 TUE –, è opportuno premettere che nel caso della Polonia sarà necessario ottenere la «previa approvazione del Parlamento europeo» prima che la delibera possa essere votata.

In attesa che, in entrambi i casi, il Consiglio, previa audizione degli Stati interessati e ferma la possibilità di rivolgere loro delle raccomandazioni, provveda ad esaminare le questioni e a prendere posizione, non resta che richiamare l’amara considerazione che Viviane Reding, Vicepresidente della Commissione, espresse nel 2013: le avvisaglie di una crisi dello stato di diritto (e, più latamente, dei valori dell’intera UE) si sono avvertite non certo quando tutto «funzionava bene» (così, letteralmente, la Vicepresidente), ma soltanto nel quadro della più ampia difficoltà che ha coinvolto – e sta coinvolgendo (sul punto, parla di “crisi dei valori” J. P. Jacqué) – l’UE, in cui sempre più forti si fanno le spinte anti-europeiste: e si tratta non soltanto di una crisi economica, ma soprattutto politico-costituzionale, come i casi Ungheria e Polonia, purtroppo, dimostrano.


facebooktwittergoogle_plusmailfacebooktwittergoogle_plusmail