Il Parere 2/15 della Corte di giustizia sull’accordo di libero scambio UE-Singapore: luci e ombre
1. Le ragioni e la natura dell’intervento della Corte
Si aspettava con una certa trepidazione, quanto meno tra gli addetti ai lavori, il Parere 2/15 della Corte di giustizia relativo all’Accordo di Libero scambio tra l’Unione europea e la Repubblica di Singapore (in appresso, anche rispettivamente il “Parere” e l’“Accordo”), pronunciato il 16 maggio 2017 ai sensi dell’art. 218.11, TFUE. Molti erano infatti i chiarimenti attesi in relazione ad alcuni degli aspetti più controversi dell’ambio di applicazione (verticale e orizzontale) della competenza dell’Unione europea in materia di politica commerciale comune, come “uscita” dalla riforma di Lisbona (articoli 206 e 207 TFUE). Come noto, l’Accordo di libero scambio tra l’Unione europea e la Repubblica di Singapore, siglato dalla Commissione europea il 26 giugno 2015, dopo oltre cinque anni di negoziati, è solo uno dei cd. “accordi di nuova generazione” che l’Unione europea ha concluso, o si accinge a concludere, da circa dieci anni a questa parte. Essi si caratterizzano per un contenuto che va oltre le tradizionali disposizioni riguardanti la riduzione dei dazi e degli ostacoli non tariffari incidenti sugli scambi di merci e servizi, estendendosi anche a impegni ulteriori in materie connesse al commercio quali, ad esempio, la tutela della proprietà intellettuale, gli appalti pubblici, la concorrenza, lo sviluppo sostenibile, nonché la tutela degli investimenti esteri (diretti e non, cfr. in questa Rivista). Ed è proprio rispetto a queste ultime materie che si erano manifestate le principali divergenze di opinione in seno al Comitato per la politica commerciale, rispetto alla natura della competenza dell’Unione a concludere l’accordo, con conseguenti incertezze in ordine all’opportunità o meno di una sua conclusione esclusivamente da parte dell’Unione europea ovvero in forma mista, con la partecipazione quindi congiunta dell’Unione e degli Stati membri. Più precisamente, la Commissione sosteneva la natura esclusiva della competenza dell’Unione per la totalità delle disposizioni dell’accordo, non solo in forza della copertura garantita dalla nuova formulazione dell’art. 207 TFUE, ma anche sulla base dell’art. 3.2 TFUE, in particolare in virtù del fatto che alcuni impegni previsti, benché non coperti dalla competenza commerciale (si pensi ai servizi di trasporto o alle norme relative agli investimenti esteri non diretti), avrebbero inciso comunque su «norme comuni» vigenti a livello europeo. Tale impostazione, condivisa dal Parlamento europeo, era invece contestata dal Consiglio e dagli Stati membri, i quali ritenevano che la competenza a concludere l’Accordo avesse natura concorrente o, in alcuni casi, addirittura esclusiva degli Stati membri, quanto meno con riferimento alle disposizioni prive di un nesso specifico con gli scambi commerciali – quali la tutela dell’ambiente, la protezione sociale, alcuni aspetti della proprietà intellettuale – e per tutti gli impegni relativi alla tutela di investimenti non diretti. Analoghi dubbi si riflettevano sulla competenza ad assumere i relativi impegni sui meccanismi di risoluzione delle controversie previsti nell’Accordo.
In questo contesto, non può dirsi che la Corte sia venuta meno alle aspettative che si erano alimentate in ordine alla funzione del suo intervento. Infatti, il Parere si caratterizza per la puntualità (quasi puntigliosità) delle soluzioni fornite per ogni settore – o “rivolo” (E. Cannizzaro, Differenziazione e unitarietà nell’azione esterna dell’Unione europea, in DUE, 2003, p. 765) – di competenza implicata nell’Accordo e, fermi gli ampi e coerenti richiami alla pregressa giurisprudenza in questa materia, fornisce soluzioni funzionali, in buona parte, a garantire l’effetto utile delle nuove competenze relative alla politica commerciale dell’Unione, in linea con lo spirito della riforma di Lisbona. Restano tuttavia, e come si dirà, alcune zone d’ombra, che paiono impedire all’Unione di godere di una base giuridica del tutto unitaria nelle negoziazioni commerciali di cui trattasi, soprattutto nel campo degli investimenti esteri. E’ bene peraltro sgombrare il campo da equivoci sin da subito: la Corte si occupa esclusivamente (e dichiaratamente) della «competenza dell’Unione a firmare e concludere l’accordo previsto». Al contrario, in nessun modo il Parere «pregiudica… la questione se il contenuto delle disposizioni di detto accordo sia compatibile con il diritto dell’Unione» (Parere, punto 30; su tali profili, ex multis, H. Lenk, Investment Arbitration Under EU Investment Agreements: Is There a Role for an Autonomous EU Legal Order?, in European Business Law Review, 2017, p. 135 ss.).
2. Il criterio generale per definire l’ambito di applicazione della politica commerciale comune
Oggi, l’ambito di applicazione della politica commerciale comune è in buona parte definito sul piano testuale dal citato art. 207 TFUE, a norma del quale essa si fonda su principi comuni per quanto concerne «le modificazioni tariffarie‚ la conclusione di accordi tariffari e commerciali relativi agli scambi di merci e servizi, e gli aspetti commerciali della proprietà intellettuale‚ gli investimenti esteri diretti, l’uniformazione delle misure di liberalizzazione‚ la politica di esportazione e le misure di protezione commerciale‚ tra cui quelle da adottarsi nei casi di dumping e di sovvenzioni». A ciò si aggiunga inoltre che, in base alla medesima disposizione, la politica commerciale deve comunque essere «condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’Unione» (di cui all’art. 21 TUE). Peraltro, come ben chiarito nella giurisprudenza della Corte successiva all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, la ratio che giustifica l’inclusione o meno di un atto nell’ambito della politica commerciale riposa sulla circostanza che esso riguardi specificamente gli scambi commerciali con uno o più Stati terzi «in quanto esso sia destinato a promuoverli, a facilitarli o a disciplinarli ed abbia effetti diretti ed immediati su di essi», non essendo invece di per sé sufficiente che l’impegno assunto possa avere solo talune implicazioni sui predetti scambi (Parere, punto 36; v. anche CG, 18 luglio 2013, Daiichi Sankyo, C‑414/11, punto 51, CG, 22 ottobre 2013, Commissione c. Consiglio, C‑137/12, punto 57, nonché Parere 3/15 14 febbraio 2017, Trattato di Marrakech sull’accesso alle opere pubblicate, punto 61). Proprio il criterio in esame costituisce il perno intorno al quale la Corte ricostruisce, riportandola ad una tendenziale unità, la competenza dell’Unione ad assumere la gran parte degli impegni sostanziali previsti nell’Accordo. Del resto, trattandosi di “accordo di libero scambio”, non stupisce che essi per lo più corrispondano, per definizione, al criterio di cui si è detto, e quindi alle finalità proprie della politica commerciale, con conseguente competenza esclusiva dell’Unione a priori, in base a quanto previsto dall’art. 3, par. 1, lett. e) TFUE. In particolare, la Corte non esita a ritenere che rientrino “in blocco” nella competenza de qua i capi dell’accordo rispettivamente dedicati al trattamento nazionale e all’accesso al mercato per le merci (capo 2), alle misure di difesa commerciale (capo 3), agli ostacoli tecnici al commercio (capo 4) e alle misure sanitarie e fitosanitarie (capo 5), alle dogane e alla facilitazione degli scambi commerciali (capo 6), agli ostacoli non tariffari al commercio e agli investimenti nella produzione di energie rinnovabili (capo 7), a servizi, stabilimento e commercio elettronico (capo 8), agli appalti pubblici (capo 10), alla proprietà intellettuale (capo 11), nonché alla concorrenza (capo 12). Con riferimento ad alcuni di tali settori, tuttavia, corre l’obbligo di svolgere alcune importanti precisazioni, come si dirà nei paragrafi che seguono.
3. Gli impegni in materia di accesso al mercato dei servizi e produzione di energie rinnovabili: nel solco del Parere 1/08
Non sorprendono le statuizioni della Corte in ordine alla competenza per gli impegni in materia di liberalizzazione dei servizi, ove si conferma che tutte le quattro modalità di prestazione di servizi rispondenti alla classificazione impiegata dall’OMC – ossia, la prestazione transfrontaliera (modalità 1), il consumo all’estero (modalità 2), la presenza commerciale (modalità 3), la presenza di persone fisiche (modalità 4) – sono comprese nella competenza esclusiva dell’UE in materia di politica commerciale (Parere, punti 50 ss.). Del resto, il riferimento testuale agli «scambi… di servizi» nell’ambito dell’odierno art. 207 TFUE è rimasto sostanzialmente invariato rispetto al disposto del previgente art. 133 TCE, e non vi è pertanto ragione di rivedere sul punto la presa di posizione già assunta in questo senso dalla Corte a partire dal Parere 1/08 sugli accordi di modifica degli elenchi di impegni specifici ai sensi del GATS. Si precisa peraltro che sono compresi negli impegni relativi ai servizi, senza quindi bisogno di ricorrere a basi giuridiche diverse, anche quelli in materia di servizi finanziari e di reciproco riconoscimento delle qualifiche professionali, in quanto idonei ad avere effetti diretti ed immediati sugli scambi UE-Singapore (Parere, punto 53). Quanto agli impegni in materia di commercio e investimenti nella produzione di energie rinnovabili, la Corte chiarisce che essi rientrano interamente nella politica commerciale, atteso che non introducono norme di tipo ambientale, ma mirano soltanto alla riduzione degli ostacoli agli scambi e quindi all’apertura dei rispettivi mercati nel summenzionato settore (Parere, punti 73-76). Resta ferma invece l’immunità garantita dall’Accordo alle misure nazionali relative alla cittadinanza, alla residenza, all’impiego permanente e, in generale, all’accesso al mercato del lavoro, che preclude quindi agli impegni commerciali di cui trattasi di incidere direttamente sulla disciplina dell’immigrazione vigente negli ordinamenti delle Parti.
4. Gli impegni relativi ai servizi di trasporto: esclusi… ma “esclusivi”
Un discorso a sé meritano gli impegni che incidono sulla liberalizzazione dei servizi di trasporto. Tra i settori e le modalità di liberalizzazione menzionate nell’elenco degli impegni specifici in appendice all’Accordo, figurano infatti il trasporto marittimo internazionale, il trasporto ferroviario, il trasporto su strada e per via navigabile interna, oltre a tutta una serie di servizi ad essi ausiliari. Al riguardo, non è certo una novità che, al fine di preservare il tendenziale parallelismo tra competenze interne e competenze esterne, essi siano esclusi dalla politica commerciale, ai sensi di quanto previsto all’odierno art. 207(5), TFUE. Così, come già a suo tempo affermato in occasione del menzionato Parere 1/08, è necessario ricorrere, con riferimento ad essi, alla specifica base giuridica di cui al Titolo VI TFUE (Parere, punti 56 ss.). Si nota peraltro che ciò vale anche per gli impegni in materia di appalti pubblici incidenti su tali servizi (Parere, punti 75 ss.). Inoltre, tale eccezione “per materia” riguarda non soltanto i servizi di trasporto in senso stretto, ma anche quei servizi «intrinsecamente connessi a un atto fisico di trasferimento di persone o di merci da un luogo a un altro tramite un mezzo di trasporto» (CG, 15 ottobre 2015, Grupo Itevelesa e a., C-168/14, punti 45-46). A questo proposito, giova precisare che, mentre i servizi di trasporto aereo (interno e internazionale) non sono contemplati nella liberalizzazione, sono invece oggetto di specifici impegni i servizi di riparazione e manutenzione di aeromobili, la vendita e commercializzazione dei servizi di trasporto aereo, e i servizi connessi ai sistemi informatizzati di prenotazione. Rispetto a questi ultimi, tuttavia, la Corte non ravvisa il requisito della “connessione intrinseca” all’operazione di trasferimento aereo, talché essi resterebbero esclusi dall’eccezione di cui all’art. 207(5) TFUE e ricadrebbero pertanto nell’ambito di applicazione della politica commerciale (Parere, punto 68).
Ciò posto, per ciascuna modalità di trasporto oggetto di impegni, la Corte verifica se la competenza esterna dell’UE fondata sul Titolo del Trattato relativo alla politica dei trasporti, originariamente concorrente, possa essersi trasformata in competenza esterna esclusiva in forza dei meccanismi di cui all’art. 3(2) TFUE, e in particolare in funzione dell’impatto dell’Accordo su norme comuni adottate a livello di diritto UE in ciascun settore (Parere, punti 168 ss.). Se per motivi di spazio non è possibile prendere in esame ciascuna modalità di trasporto oggetto di impegni, basti in questa sede segnalare che, per tutte, la Corte ravvisa la natura esclusiva della competenza ai sensi dell’art. 3(2) TFUE, in forza del principio affermato nella giurisprudenza AETS (CG, 31 marzo 1971, Commissione c. Consiglio, 22/70).
5. Gli impegni in materia di tutela della proprietà intellettuale e della concorrenza
Con riferimento agli impegni in materia di proprietà intellettuale, contrariamente all’impostazione avvallata dall’Avvocato generale (conclusioni Avvocato generale Sharpston, 21 dicembre 2016, punti 452 ss.), la Corte non distingue, all’interno dell’Accordo, categorie disomogenee di impegni relativi, rispettivamente, ai cd. “aspetti commerciali” della proprietà intellettuale e ai cd. “aspetti non commerciali” della stessa (quali, ad esempio, la tutela dei diritti d’autore e altri diritti connessi). Infatti, il mero rinvio operato dall’Accordo a obblighi internazionali multilaterali o bilaterali che disciplinano il diritto d’autore, ovvero l’imposizione di obblighi relativi alla lotta contro il commercio illecito, attraverso la predisposizione di rimedi giurisdizionali adeguati avverso le violazioni dei diritti di proprietà intellettuale, non si iscrivono nel contesto di un’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri su questi profili, che implicherebbero l’esercizio di competenze relative ad altri ambiti materiali. Al contrario, esse si propongono di creare una certa omogeneità tra gli strumenti disponibili a tutela dei titolari di diritti di proprietà intellettuale, favorendo in questo modo gli scambi commerciali tra Unione e Singapore. Si ritiene così applicabile, globalmente, il criterio dell’impatto degli impegni de quibus sul commercio tra Stati membri, richiamando il “ruolo essenziale” che la protezione delle proprietà intellettuale svolge negli scambi internazionali, per concludere nel senso di una piena pertinenza dei relativi impegni all’ambito di applicazione della politica commerciale (Parere, punti 122 ss., e già, similmente, CG, Daiichi Sankyo, cit.). Per ragioni in buona parte analoghe a quelle sopra esposte, anche gli impegni relativi alla tutela della concorrenza sono ritenuti parte integrante della politica commerciale comune: essi obbligano infatti le Parti dell’Accordo a disporre di una normativa che consenta di lottare efficacemente contro alcune pratiche restrittive comunemente considerate lesive della concorrenza, limitatamente peraltro ai pregiudizi arrecati al commercio UE-Singapore, senza per contro determinare un’armonizzazione delle rispettive legislazioni concorrenziali in vigore nelle Parti, e quindi senza chiamare in causa l’esercizio di competenze relative al mercato interno (Parere, punti 131-138). Emerge così il carattere “trasversale” della competenza commerciale, idonea a coprire una pluralità di ambiti materiali, sulla scorta di criteri prevalentemente finalistici (supra, § 2). In questa prospettiva, come si vedrà al paragrafo che segue, non stupisce che il richiamo agli obiettivi e ai principi generali dell’azione esterna di cui all’art. 21 TUE ne ampli ulteriormente l’ambito di applicazione.
6. Gli impegni in materia di sviluppo sostenibile: inclusi e, quindi, “esclusivi”
Già da tempo, il diritto primario riflette l’esigenza di integrare anche valori non strettamente commerciali nella definizione e attuazione delle politiche dell’Unione. Così, si stabilisce inter alia che «[n]ella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con (…) la garanzia di un’adeguata protezione sociale» (art. 9 TFUE) e che «[l]e esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile» (art. 11 TFUE, cfr. CG, 21 dicembre 2016, AGET Iraklis, C-201/15, punti 77-78). Sul piano delle competenze esterne, simili meccanismi di integrazione tra politiche vengono garantiti attraverso l’applicazione generalizzata a tutta l’azione esterna dell’Unione degli obiettivi di cui all’art. 21 TUE, tra i quali figura, inter alia, lo sviluppo sostenibile connesso alla preservazione e al miglioramento della qualità dell’ambiente e alla gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali (art. 21.2, lett. f), TFUE). Corrispondentemente, e come sopra accennato, l’art. 207 TFUE ribadisce che la politica commerciale deve essere condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’UE (si veda anche l’art. 205 TFUE). Il suddetto richiamo (incrociato) agli obiettivi generali dell’azione esterna, lungi dall’avere una funzione di mero indirizzo politico, ha invece, secondo la Corte, una conseguenza giuridica ben precisa, ossia l’estensione dell’ambito di applicazione materiale della politica commerciale all’obiettivo dello sviluppo sostenibile, che ne costituisce quindi, oggi, una parte integrante (Parere, punto 147, cfr., per analogia rispetto alla politica di cooperazione allo sviluppo, CG, 11 giugno 2014, Commissione c. Consiglio, causa C-377/12). Su queste premesse, dunque, si afferma che gli impegni dell’Unione e della Repubblica di Singapore volti ad imporre che gli scambi commerciali tra di esse abbiano luogo nel rispetto degli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in materia di protezione sociale dei lavoratori e di tutela dell’ambiente cui esse aderiscono, altro non siano se non l’esercizio di tale competenza. Gli impegni de quibus hanno infatti effetti diretti ed immediati sugli scambi commerciali, nella misura in cui, da un lato, evitano di incoraggiare il commercio tramite un abbassamento dei livelli di protezione sociale e di tutela ambientale e, dall’altro, impediscono di attuare tali standard in modo protezionistico. Inoltre, impegni di questo tipo «riducono il rischio di differenze sproporzionate tra i costi di produzione delle merci e di fornitura dei servizi nell’Unione, da un lato, e a Singapore, dall’altro, e contribuiscono dunque alla partecipazione al libero scambio su un piede di parità degli imprenditori dell’Unione e degli imprenditori di tale Stato terzo» (Parere, punti 158 e 159). Al tempo stesso, la Corte nega che gli impegni in questione realizzino l’armonizzazione delle legislazioni nazionali sul lavoro o ambientali. Inoltre, essi non incidono sulla portata delle convenzioni internazionali che vincolano l’Unione e gli Stati membri, non trovando applicazione, per questo specifico capo dell’accordo, i meccanismi di risoluzione delle controversie in esso previsti. Con la conseguenza che, ancora una volta, le disposizioni esaminate non implicano l’esercizio di competenze relative a tali convenzioni internazionali, ma disciplinano invece esclusivamente gli scambi commerciali tra le Parti, «subordinando la liberalizzazione degli stessi alla condizione che le Parti rispettino i propri obblighi internazionali in materia di protezione sociale dei lavoratori e di tutela dell’ambiente» (punti, 155-166). Tale presa di posizione, peraltro in aperto contrasto con le conclusioni cui era pervenuta sul punto l’Avvocato generale (conclusioni Avvocato generale Sharpston, cit., punti 489 ss.), appare funzionale a dare piena attuazione allo spirito della riforma di Lisbona. In questo modo, in particolare, si assicura una base giuridica solida per una politica commerciale ben ancorata alle esigenze dello sviluppo sostenibile (cfr. in questa Rivista), superando la frammentazione delle competenze che sarebbe invece derivata da un’interpretazione meno sistematica delle nuove disposizioni, e rafforzando la capacità dell’Unione di promuovere i propri valori oltre i propri confini. Ciò pare del resto anche in linea con l’obiettivo di cui all’art. 3.5 TUE, secondo il quale, nelle sue relazioni col resto del mondo, l’Unione contribuisce al commercio «libero ed equo».
7. Gli impegni in materia di protezione degli investimenti esteri diretti: inclusi ed “esclusivi”
Sul piano della nozione di “investimento”, la Corte considera coperti dalla competenza de qua solo gli investimenti esteri diretti, ossia quelli che, in base alla definizione adottata nella giurisprudenza, hanno lo scopo di creare o di mantenere legami durevoli e diretti fra l’investitore e la gestione dell’impresa (cfr. CG, 12 dicembre 2006, Test Claimants in the FII Group Litigation, C-446/04, punti 181-182; CG, 26 marzo 2009, Commissione c. Italia, C-326/07, punto 35, CG, 24 novembre 2016, SECIL, C-464/14, punti 75-76), mentre non sono da ritenersi inclusi quelli cd. indiretti o di portafoglio (finalizzati cioè al mero ritorno sul capitale). Tale presa di posizione si fonda non solo su un’adesione rigorosa al dato testuale dell’art. 207 TFUE, ma anche sulla presunta riconducibilità soltanto dei primi, e non dei secondi, al criterio generale degli «effetti diretti e immediati sugli scambi» (supra, § 2). Infatti, chiarisce la Corte, soltanto una partecipazione societaria volta alla gestione o al controllo di una società esercente attività economica nel territorio dell’altra Parte è idonea ad avere effetti immediati sugli scambi commerciali reciproci, «mentre un siffatto nesso specifico con questi scambi risulta assente nel caso di investimenti che non portino ad una partecipazione di questo tipo» (Parere, punti 82-84). Sotto questo profilo, e al di là delle considerazioni relative alla linea di demarcazione tra investimenti esteri diretti e indiretti (cfr. conclusioni Avvocato generale Sharpston, cit., punti 307 ss.), è difficile negare che la lettera dell’art. 207 TFUE non lasciasse molti margini di apprezzamento all’interprete in ordine all’esclusione degli investimenti esteri non diretti (cfr. infra, § 7). Ciò premesso, di particolare rilievo appare la scelta operata dalla Corte con riguardo alla dibattuta questione se la “protezione” dell’investimento diretto, ossia il suo trattamento successivo all’ingresso nello Stato ospitante, sia compreso o meno nella politica de qua. Al riguardo, giova ricordare che il dato testuale aveva indotto alcuni Autori a orientarsi in senso negativo, in ragione del riferimento contenuto all’art. 206 TFUE alla «graduale soppressione delle restrizioni […] agli investimenti esteri», che limiterebbe quindi l’intervento dell’Unione alla fase di accesso al mercato (cfr. M. Krajewski, The Reform of Common Commercial Policy, in A. Biondi et al. (eds.), EU Law After Lisbon ,Oxford, 2012, p. 303). Tale lettura restrittiva non ha tuttavia trovato spazio nel ragionamento della Corte, la quale non ha esitato a ritenere, come del resto già fatto dall’Avvocato generale, che proprio l’istituzione di un quadro normativo volto alla protezione dell’investimento estero, successivamente al suo accesso al mercato del Paese ospitante, mira a promuovere, a facilitare e a disciplinare gli scambi commerciali tra l’Unione e la Repubblica di Singapore (Parere, punto 94), e quindi appartiene a pieno titolo alla logica della politica commerciale. Del resto, proprio la tutela degli investimenti costituirebbe la “cifra” più rilevante dell’inserimento della materia de qua all’interno dell’art. 207 TFUE, atteso che l’accesso al mercato era in molti casi già garantito attraverso gli impegni in materia di libertà di stabilimento e prestazione di servizi. Sotto questo profilo, degno di nota appare anche che la Corte non consideri lo spazio comunque riservato alle Parti per valutare un trattamento meno favorevole dell’investitore straniero, qualora necessario per tutelare l’ordine pubblico, la sicurezza pubblica o altri interessi pubblici contemplati nell’Accordo, come un’ingerenza dell’Accordo medesimo in settori di competenza esclusiva degli Stati membri. Al contrario, tali disposizioni rappresentano la possibilità di preservare tali competenze degli Stati, introducendo una deroga al regime degli scambi, benché condizionata ad alcun requisiti (il fatto che la misura sia necessaria e non costituisca una “restrizione dissimulata”). Queste limitazioni al potere discrezionale degli Stati sono riconosciute come «inerenti alla conduzione degli scambi commerciali internazionali», poiché mirano a preservare l’“effetto utile” degli impegni commerciali assunti (Parere, punti 101 ss.). Sotto questo profilo, del resto, il meccanismo non appare diverso da quanto avviene già a livello di diritto primario, attraverso le deroghe previste dai Trattati alle libertà fondamentali (per tutti, P. Koutrakos, N. Shuibhne, P. Syrpis (eds.), Exceptions Form EU Free Movement Law, Oxford, 2016). Infine, la Corte non manca di affrontare la delicata questione inerente l’impatto degli impegni relativi alla protezione degli investimenti stranieri da espropriazioni arbitrarie o non indennizzate, sul regime della proprietà, la cui disciplina resta riservata agli Stati membri ai sensi dell’art. 345 TFUE. Al riguardo, si ricorda che la norma in questione, pur esprimendo la neutralità del diritto dell’Unione rispetto ai regimi di proprietà esistenti negli Stati membri, non ha l’effetto di sottrarre tali regimi alla norme fondamentali dell’Unione (CG, 22 ottobre 2013, Essent e a., cause riunite C-105/12 a C-107/12, punti 29 e 36). Sicché, l’obbligo degli Stati di rispettare, nell’ambito delle decisioni di nazionalizzazione e/o espropriazione nei confronti di investitori stranieri, condizioni eque, non discriminatorie e il diritto ad un indennizzo rapido, effettivo e sufficiente, non rappresenterebbe un impegno inerente il regime di proprietà esistente negli Stati membri, ma soltanto «l’obbligo di rispettare i suddetti principi e diritti fondamentali» (Parere, punto 107). In altre parole, se gli Stati membri sono liberi di scegliere i rispettivi regimi di proprietà, le norme nazionali restano soggette all’applicazione delle pertinenti disposizioni di diritto dell’Unione. Così, poiché la tutela degli investimenti stranieri è divenuta una materia di competenza esclusiva dell’Unione, l’art. 345 TFUE non può avere l’effetto di impedire all’Unione di concordare con un Paese terzo il rispetto di principi e diritti fondamentali a tutela di investitori stranieri, nella misura in cui tale disciplina non lede le prerogative degli Stati membri relative alla scelta del regime di proprietà (cfr. conclusioni Avvocato generale, cit., punti 341-342). Ci si potrebbe anche chiedere se l’applicazione di analoghi principi e diritti fondamentali si imporrebbe comunque, almeno in parte, in quanto principi generali del diritto, in considerazione del fatto che gli Stati membri, nell’applicare i rispettivi regimi di proprietà nei confronti degli investitori stranieri, operano all’interno della sfera di applicazione del diritto dell’Unione derivante dall’Accordo stesso (cfr. inter alia, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, art. 17).
Da ultimo, di particolare rilievo è la conclusione della Corte sulla competenza a concludere la clausola dell’Accordo che disciplina i rapporti tra il medesimo e altri accordi precedentemente conclusi tra Stati membri e Singapore in materia di investimenti, a norma della quale «a partire dall’entrata in vigore del presente accordo, gli accordi [bilaterali di investimento] conclusi tra Stati membri dell’Unione e Singapore (…), compresi i diritti e gli obblighi che ne derivano, cessano di produrre effetti e sono sostituiti dal presente accordo». Orbene, anche tale clausola rientra nella competenza esclusiva dell’Unione per quanto riguarda gli investimenti esteri diretti. Infatti, benché il regolamento (UE) n. 1219/2012 consenta agli Stati membri, ai sensi dell’art. 2.2 TUE, di mantenere in vigore o concludere, ad alcune condizioni, accordi bilaterali in materia di investimenti diretti con uno Stato terzo, tale autorizzazione viene meno non appena un accordo in materia sia concluso tra l’Unione e tale Stato terzo. Sotto questo profilo, nemmeno rileva l’art. 351 TFUE, poiché, avendo Singapore accettato la clausola de qua, non sussisterebbe un interesse degli Stati membri a tutelare gli impegni internazionali precedentemente assunti con tale Stato (Parere, punti 245 ss.). Tale conclusione, che appare condivisibile anche alla luce della menzionata disciplina già adottata a livello di diritto secondario su questi aspetti, sconta però una limitazione nella misura in cui la clausola riguardi impegni relativi ad investimenti esteri indiretti (infra, § 7).
8. Gli impegni in materia di investimenti di portafoglio: esclusi e “concorrenti”
Costituiscono investimenti diversi da quelli diretti le acquisizioni finanziarie di titoli societari non caratterizzate dall’intenzione di esercitare un’influenza sulla gestione e il controllo dell’impresa, ovvero alcune tipologie di investimenti immobiliari o di ricorso al prestito (Parere, punti 227-228, cfr. anche CG, 28 settembre 2006, Commissione/Paesi Bassi, C‑282/04 e C‑283/04, punto 19; CG, 21 ottobre 2010, Idryma Typou, C‑81/09, punto 48; CG, 10 novembre 2011, Commissione/Portogallo, C‑212/09, punto 47). Tali investimenti sono movimenti di capitali ai sensi degli articoli 63 ss. TFUE, a norma dei quali sono vietate le restrizioni alla libera circolazione dei capitali non solo tra Stati membri, ma anche tra Stati membri e Paesi terzi, salve talune limitazioni ammesse. Al riguardo, tuttavia, la Corte nega che tali disposizioni dei Trattati possano costituire «norme comuni» ai sensi dell’art. 3.2 TFEU, ed esclude pertanto il relativo radicamento di una competenza esclusiva in capo all’Unione ad assumere impegni volti alla liberalizzazione e protezione di tali investimenti con Stati terzi. Ciò in virtù del fatto che, in base al cd. principio AETS, del quale l’art. 3.2 TFEU costituisce una codificazione, le «norme comuni» cui la norma si riferisce sarebbero solo le disposizioni di diritto derivato che l’Unione progressivamente introduce ma non le norme di diritto primario. Tale conclusione viene supportata anche dall’esigenza di mantenere una coerenza nella gerarchia delle fonti di diritto dell’Unione: in particolare, se i Trattati sono destinati a prevalere sugli atti di diritto derivato, ivi compresi gli accordi conclusi con Stati terzi, questi ultimi non potrebbero “incidere”, e quindi esercitare «un’influenza sul senso o sulla portata delle disposizioni» dei Trattati. La Corte riconosce però l’esistenza di una competenza esterna (implicita) concorrente ad assumere tali impegni, fondata sull’art. 216 TFUE, in ragione del fatto che la conclusione di accordi internazionali che contribuiscano all’instaurazione della libera circolazione dei capitali su una base di reciprocità con Stati terzi può essere considerata «necessaria per realizzare, nell’ambito delle politiche dell’Unione, uno degli obiettivi fissati dai trattati», e segnatamente gli obiettivi di cui alla parte terza, titolo IV, TFUE. Tuttavia, ferma la corretta individuazione di una competenza esterna implicita in questa materia ai sensi dell’art. 216 TFUE, sulla natura della stessa, si sarebbe forse potuto ragionare anche in un altro modo: poiché infatti l’art. 63 TFUE prevede che la libera circolazione dei capitali sia garantita non solo all’interno dell’Unione, ma anche con Stati terzi, in questa materia, a differenza di quanto avviene per le altre libertà fondamentali, è lo stesso diritto primario ad imporre “norme comuni” relative ai rapporti con gli Stati terzi. Regimi di circolazione negoziati singolarmente dagli Stati membri ben potrebbero “incidere” su (nel senso di essere in contrasto con) tali norme, posto che un’interferenza, anche solo potenziale, è sempre in astratto possibile tra un accordo internazionale e il diritto primario, come confermato dal testo dello stesso art. 218.11 TFUE. Del resto, se l’Accordo riguarda la liberalizzazione dei movimenti di capitali, le “norme comuni” con le quali esso potrebbe interferire sono proprio quelle sancite direttamente nei Trattati. Sotto questo profilo, la stessa Corte riconosce che tale libertà non è opponibile agli Stati terzi se non attraverso la conclusione di appositi accordi internazionali che la prevedano su base di reciprocità (Parere, punto 240). Inoltre, la disciplina dei movimenti di capitali con Stati terzi potrebbe in linea di principio pregiudicare il funzionamento anche di altre norme, in particolare quelle relative all’Unione economica e monetaria, come espressamente previsto dall’art. 66 TFUE. Non sarebbe forse stato allora così peregrino ricostruire una competenza esclusiva dell’Unione a negoziare in modo uniforme per tutti gli Stati membri l’accesso e l’uscita dei capitali stranieri dal mercato interno, in applicazione (analogica, e limitata al caso specifico) del principio AETS, la cui ratio resta quella di «preservare l’efficacia del diritto comunitario e il corretto funzionamento dei sistemi istituiti dalla sue norme» (cfr. Parere 1/03, punto 131, per ulteriori considerazioni in parte trasponibili al caso in esame, cfr. anche il Parere 1/75).
9. Meccanismi di risoluzione delle controversie e trasparenza: tra unità e frammentazione della competenza
Nulla quaestio che le disposizioni dell’accordo relative alle risoluzione delle controversie tra le Parti (UE-Singapore), rientrino nella competenza dell’Unione in materia di relazioni internazionali, e che esse siano tutto sommato “ausiliarie” rispetto all’Accordo stesso, e pertanto godano della copertura derivante dalla competenza sostanziale (Parere, punto 276; CG, Parere 1/91, punto 40; Parere 1/09, punto 74; Parere 2/13, punto 182). Poiché inoltre le controversie di cui trattasi riguardano esclusivamente i rapporti UE-Singapore, tali meccanismi non interferiscono con la competenza della Corte di giustizia a giudicare le controversie relative all’interpretazione del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 344 TFUE (Parere, punto 302). La medesima natura “ausiliaria” è riconosciuta dalla Corte anche agli impegni in materia di trasparenza e tutela giurisdizionale effettiva che le Parti si assumono con riferimento alle misure di applicazione dell’Accordo, e in forza delle quali si imporrebbe quindi l’applicazione di principi generali che non ledono le competenze degli Stati membri in materia di procedimento amministrativo e giudiziario (Parere, punti 280-284). Un discorso in parte diverso viene invece sviluppato con riferimento ai meccanismi di risoluzione delle controversie UE-investitore. Essi infatti consentono all’investitore straniero di sottrarre, se lo desidera, alcune controversie alla competenza giurisdizionale dei giudici degli Stati membri, così incidendo direttamente sulle competenze loro riservate in questa sfera. In ragione di ciò, la Corte ritiene che l’assunzione di un impegno siffatto non possa considerarsi meramente “ausiliario” all’Accordo, e non possa quindi essere assunto senza il consenso degli Stati membri. Interessante è peraltro notare che la Corte qualifica la competenza relativa a tali meccanismi di risoluzione delle controversie come concorrente tra Unione e Stati membri (e non esclusiva degli Stati membri in parte qua). Ciò pare confermare che, in linea di principio, la previsione di un meccanismo di risoluzione delle controversie UE-investitore appartiene alla competenza dell’Unione sulla scorta di quanto si è detto nell’incipit di questo paragrafo ma, nella misura in cui tale meccanismo priva gli Stati membri di sfere di competenza giurisdizionale ad essi riservate, la competenza subisce una frammentazione (di tipo verticale), che la sottrae alla “monoliticità” della competenza sostanziale. Il che non appare del tutto coerente con l’affermazione secondo la quale i meccanismi di risoluzione delle controversie sarebbero ausiliari alla disciplina sostanziale. Né è chiaro il motivo per il quale questo specifico strumento perda la propria natura “accessoria” per il solo fatto di determinare un’incidenza su competenze giurisdizionali degli Stati membri (Parere, punto 292). Vero è che tali sistemi di risoluzione delle controversie si rivolgono anche a investimenti non diretti e, da ciò, deriverebbe comunque il mantenimento dello standing internazionale degli Stati membri rispetto a tali impegni (supra, § 7). Non vi è dubbio tuttavia che, in questo modo, si indebolisce lo sforzo volto a ricondurre a unità l’azione internazionale dell’Unione nel campo commerciale di cui sopra si è detto.
10. Conclusioni
Il parere qui in commento fornisce un contributo fondamentale alla definizione della portata di una delle competenze esterne che maggiormente è stata innovata dalla riforma di Lisbona. La Corte ricostruisce infatti la competenza in materia di politica commerciale in modo tale da lasciarla “aperta” ad accogliere al suo interno una pluralità di misure, a condizione che esse rispondano al criterio/obiettivo relativo all’impatto delle stesse sulla facilitazione degli scambi commerciali tra Unione e Paesi terzi (supra, § 2). La competenza in esame si candida così a ricoprire un ambito materiale estremamente ampio, comprensivo ad esempio della tutela della proprietà intellettuale, della tutela della concorrenza, della disciplina degli appalti e della protezione degli investimenti esteri diretti. In questa linea, si inserisce anche l’interpretazione evolutiva del rapporto tra competenze, da una parte, e obiettivi, dall’altra parte, dell’azione esterna dell’Unione. La Corte apre infatti alla possibilità che il perseguimento dei secondi (sanciti all’art. 21 TUE) consenta il relativo ampliamento della sfera materiale delle prime, utilizzate per perseguirli (supra, § 6). Tale approccio è certamente sotteso alla nuova formulazione delle norme primarie, essendo peraltro foriero di importanti ricadute sistemiche sull’azione esterna, sol che si pensi alla tendenza del principio di attribuzione ad operare sempre più sulla scorta di criteri finalistici in questo ambito, sulla falsariga di quanto invero da sempre avviene in materia di PESC. Ciò consente certamente alla stessa Unione di affrontare in modo meno frammentato, e auspicabilmente più coerente, le molte tematiche che le relazioni (non solo economiche) internazionali oggi impongono di trattare in modo unitario. Basti pensare, ad esempio, al necessario dialogo che deve intercorrere tra la disciplina degli scambi commerciali internazionali e le tematiche dello sviluppo sostenibile. L’Unione si candida così a promuovere, anche attraverso la sua politica commerciale, e quindi al di fuori dei propri confini, l’integrazione tra valori commerciali e non, che è da tempo cifra distintiva del mercato interno, restando del resto un presupposto necessario anche per perseguire in modo coerente i Sustainable Development Goals a livello globale. In questo contesto, il punto debole della riformata competenza, sul piano della ripartizione verticale, rischia di restare la protezione degli investimenti esteri, con particolare riferimento ai sistemi di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati/UE previsti negli accordi commerciali dell’Unione. Non sembra al riguardo del tutto condivisibile la separazione tra competenza sostanziale e competenza processuale sottesa al ragionamento della Corte in questo ambito. Essa forse si spiega avendo riguardo all’impatto che tali strumenti di risoluzione delle controversie hanno sul sistema di tutela giurisdizionale effettiva propria dell’ordinamento dell’Unione, che in ampia parte si appoggia sulle competenze giurisdizionali degli Stati membri (Parere 1/09, cit.). Non si potrà allora che affidarsi al principio di leale collaborazione tra Unione e Stati membri, al fine garantire utilità non solo alle negoziazioni degli accordi di cui trattasi, ma anche ai processi di riforma dei meccanismi di risoluzione delle controversie UE (Stati membri)/investitori, sui quali molto si sta lavorando in seno alle istituzioni (cfr., ad esempio, qui), e che vedrebbero proprio nell’Unione la forza propulsiva di un (possibile) cambiamento radicale delle regole che presiedono all’arbitrato internazionale degli investimenti (cfr. per alcuni rilievi critici, A. Henke, La crisi del sistema ISDS e il progetto di una nuova corte internazionale permanente, ovvero della fine dell’arbitrato in materia di investimenti, in Dir. com. int., 2017, p. 133 ss.).