Il futuro dell’Unione europea. Acquis o ma(c)quis communautaire?

La volontà di realizzare «un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa» (preambolo TUE e art. 1, secondo co., TUE; preambolo TFUE) continua a rappresentare il principale caposaldo su cui si regge il processo di integrazione europea, anche se – a seguito delle modifiche apportate dal trattato di Lisbona – l’ordinamento «di nuovo genere» istituito nel lontano 1957 ha subìto alcuni cambiamenti che, almeno ad una prima lettura, potrebbero apparire epocali. Si pensi, in particolare, alla codificazione del principio della reversibilità delle competenze (art. 48, par. 2, TUE) e delle regole sul recesso dall’Unione (art. 50 TUE), nonché all’eliminazione dell’obiettivo dell’Unione consistente nel mantenere e sviluppare l’acquis (art. 3 TUE pre-Lisbona). Anche se, a ben vedere, nulla avrebbe escluso, anche in passato, di procedere alla revisione dei trattati riducendo le competenze dell’Unione o consentendo, secondo le regole di diritto internazionale, il recesso di uno Stato membro dall’organizzazione e, ancora, nulla oggi impedisce di ritenere che il menzionato obiettivo sia divenuto, esso stesso, acquis costituzionale dell’Unione e, come tale, debba quindi essere comunque rispettato anche se la previsione pattizia è stata soppressa (in quest’ultimo senso cfr. C. Amalfitano, L’acquis comunitario: da esperienza giuridica a fattore di integrazione, in DUE, 2009, p. 789 ss.).

Ciò a meno di non leggere tale modifica come presa di coscienza del fatto che, a fronte del continuo allargamento dei confini territoriali (con l’ingresso di nuovi Stati) e materiali (ovvero di competenze) dell’Unione, il processo di integrazione deve fare i conti con le esigenze di flessibilità che queste estensioni implicano e che, dunque, si può entro certi limiti sacrificare l’acquis sull’altare della “prosecuzione” dell’integrazione, tale obiettivo divenendo quasi un bene in sé, da perseguirsi anche laddove ad essa non partecipino, sempre e comunque, tutti gli Stati membri, ma un numero più ridotto (e variamente combinato, a secondo delle loro specificità costituzionali) di essi.

Per evitare il rischio di un ravvicinamento al ribasso delle legislazioni nazionali si ammette sempre più frequentemente la possibilità di ricorrere a forme di integrazione differenziata (ID), che altro non sono che il compromesso necessario per reagire all’eterogeneità conseguente all’allargamento (widening) e all’approfondimento (deepening) delle competenze, al contempo assicurando comunque l’efficienza del processo decisionale e consentendo l’evoluzione dell’ordinamento dell’Unione, anche al prezzo di una sua maggiore frammentazione.

Questo fenomeno, variamente qualificato a seconda delle ragioni sottese all’ID, dà vita, come noto, a quell’Europa à la carte o a più velocità o a geometria variabile o a cerchi concentrici, che dir si voglia. Fenomeno che, peraltro, (i) se pare in un certo qual modo urtare o quanto meno presentare profili di incoerenza con un’immagine tradizionale del metodo “comunitario”, risultando in qualche modo lontana da quel “mercato comune” di cui riferiva P. Pescatore (Droit de l’integration, Leyden, 1972), concepito come prodotto di unificazione giuridica, realizzato, non a caso, soprattutto attraverso i regolamenti, che sono direttamente applicabili «in ciascuno degli Stati membri» (art. 288 TFUE), oltre che con l’attività della Corte di giustizia chiamata ad assicurare il primato e l’uniformità interpretativa ed applicativa del diritto “comunitario” in tutti gli Stati membri, (ii) risulta per altri versi perfettamente coerente con il diritto dell’Unione laddove esso impone il rispetto delle identità nazionali (art. 4, par. 2, TUE) e del principio di sussidiarietà (art. 5 TUE), o “interviene” per il tramite di direttive (specie se ampio è il margine di discrezionalità lasciato agli Stati membri in fase di trasposizione, tanto più se sono in esse inserite clausole di options and permissions), o ancora, nella misura in cui la stessa Corte di giustizia, anche nell’ambito dell’esercizio della richiamata funzione di garanzia dell’uniformità interpretativa, pur definendo la regola di principio, la consegna al giudice nazionale, sempre più spesso in una formulazione che richiede a quest’ultimo un esercizio di “discrezionalità” vieppiù ampio e quindi difficile e incerto, e, in quanto tale, fatalmente influenzato dalle specificità del sistema nazionale di appartenenza.

L’ID può perseguirsi non soltanto con strumenti interni ai trattati, ma anche con strumenti ad essi esterni, in primis accordi internazionali: si pensi alla convenzione di applicazione dell’accordo di Schengen, poi integrata nell’Unione con il trattato di Amsterdam (e forma di ID del tutto particolare perché restando esclusi dall’acquis di Schengen alcuni Stati membri – v. infra – sono ad esso vincolati alcuni Stati terzi, ovvero la Norvegia, l’Islanda, la Svizzera e il Lichtenstein), e al più recente Fiscal Compact (di cui anche si prevede l’integrazione – con forme e mezzi ancora da individuare – nell’ordinamento dell’Unione europea).

Quanto alle forme “interne” di ID, il sistema ne conosce sostanzialmente due tipologie: quella che rispondendo alle finalità suesposte, può definirsi “positiva” e dovrebbe essere tendenzialmente transitoria (come lo è l’ID degli Stati che aderiscono all’Unione, che solo per un limitato periodo di tempo si vedono vincolati a regole parzialmente differenti rispetto a quelle che obbligano la generalità degli Stati membri), avendo quale obiettivo ultimo quello di garantire la progressiva adesione di tutti gli Stati membri alla misura originariamente vincolante un numero ridotto di essi; e quella c.d. “negativa”, che legittima uno o più Stati membri a sottrarsi all’applicazione di misure di diritto dell’Unione in una certa materia, secondo clausole di opting-out presenti nei trattati (rectius, nei protocolli ad essi allegati). Tale forma di ID ha natura sostanzialmente costituzionale, mirando di regola a salvaguardare valori che uno Stato membro ritiene imprescindibili, in quanto attinenti, appunto, alla propria struttura costituzionale e che rischiano di essere compromessi dal processo di integrazione che, politicamente ma anche giuridicamente, non può spingersi sino a travolgere valori fondamentali del sistema nazionale o, talvolta, magari, esiti di consultazioni popolari. Proprio per questa ragione, l’ID negativa finisce con l’essere permanente e insuperabile, così introducendo un vulnus tendenzialmente irreparabile all’uniformità applicativa del diritto dell’Unione e, quindi, al processo di integrazione. D’altro canto, il progresso del processo d’integrazione in assenza di simili “concessioni” – normalmente in sede di revisione dei trattati – a favore di alcuni Stati membri, rischia di apparire francamente utopistico, quegli Stati solo a fronte dell’opt out essendo disponibili ad acconsentire alla ratifica del trattato e alla sua entrata in vigore.

Tra le forme più note di ID negativa si ricordano quella di Regno Unito, Irlanda e Danimarca rispetto all’acquis di Schengen (protocollo n. 19) e allo spazio di libertà, sicurezza e giustizia (protocolli nn. 21 e 22), nonché quella di Regno Unito e Polonia e Repubblica ceca rispetto alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (protocollo n. 30 e dichiarazione n. 53).

Tra quelle più note di ID positiva deve naturalmente menzionarsi, oltre all’Unione economica e monetaria, la cooperazione rafforzata, oggetto di disciplina codificata (a partire da Amsterdam) nei trattati, al fine di consentire agli Stati membri di realizzare un processo di integrazione a più velocità. Le regole di cui agli attuali art. 20 TUE e artt. 326-334 TFUE hanno avuto sino ad oggi tre applicazioni pratiche, che hanno condotto all’adozione (i) del regolamento (UE) n. 1259/2010 relativo all’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale; (ii) del regolamento (UE) n. 1257/2012 e del regolamento (UE) n. 1260/2012 sulla tutela brevettuale unitaria; (iii) della decisione 2013/52/UE del Consiglio che autorizza la cooperazione rafforzata nel settore dell’imposta sulle transazioni finanziarie. Risultando impossibile, in tutti e tre i casi, raggiungere il consenso unanime degli Stati membri richiesto per l’adozione delle relative normative entro un “ragionevole termine” (last resort), e riscontrato il rispetto dei limiti e degli obiettivi che i trattati fissano per il ricorso alla cooperazione rafforzata, il Consiglio, autorizzandola, ha superato l’impasse del processo decisionale. Inevitabile il rilievo secondo cui, soprattutto nel secondo e nel terzo caso, il ricorso alla cooperazione rafforzata è stato vissuto, più che come un vantaggio per gli Stati partecipanti, come un pregiudizio per gli Stati che ne sono rimasti esclusi, che hanno infatti impugnato ex art. 263 TFUE la decisione di autorizzazione del Consiglio nel tentativo di bloccare l’instaurazione di nuove forme di ID (cfr. l’impugnazione di Spagna e Italia nelle cause riunite C-274/11 e C-295/11 e l’impugnazione del Regno Unito da cui è scaturita la causa C-209/13). In entrambi i casi, la Corte di giustizia ha comunque rigettato i ricorsi per annullamento (cfr. sentenza 16 aprile 2013 e sentenza 30 aprile 2014), considerando del tutto legittimo dal punto di vista procedurale (non essendo consentito un diverso e più approfondito sindacato in mancanza dell’atto a valle dell’autorizzazione) l’avvio della cooperazione rafforzata. Ed ancora, specie qualora solo uno o due Stati – come nel secondo caso sopra richiamato (Spagna e Italia) – rimangono esclusi, il voto contrario in Consiglio rispetto all’adozione dell’atto all’unanimità rischia di divenire una sorta di opting out (magari a tutela di valori riconducibili all’identità costituzionale dello Stato membro), per evitare il quale occorrerebbe dilatare al massimo l’impegno di last resort, per ridurre al minimo il rischio di cristallizzare la diversificazione. In ogni caso, l’irreversibilità del processo di differenziazione è, in qualche misura, presa in considerazione dal trattato che, pur dichiarando la cooperazione rafforzata aperta agli Stati membri che non vi partecipano in prima battuta, chiarisce che l’atto oggetto di ID non costituisce acquis «che deve essere accettato dagli Stati candidati all’adesione all’Unione» (art. 20 TUE), costituendo così una deroga ad un valore, quello dell’acquis appunto, forse allora non a caso abolito dall’elencazione degli obiettivi dell’Unione.

A fronte del variegato panorama di forme di ID che caratterizza oggi l’ordinamento dell’Unione europea, se pare estrema la tesi prospettata già nel 2001 da C. Delcourt (The acquis communautaire: has the concept had its day?, in CMLR, p. 829 ss.) di una sorta di individualization of the acquis, per cui ogni Stato membro avrebbe un proprio acquis che lo differenzierebbe, per uno o molteplici aspetti, dalla posizione degli altri partecipanti al processo di integrazione, più condivisibile è la tesi della stessa autrice per cui saremmo in presenza non più di un vero e proprio acquis communautaire,quanto piuttosto di un ma(c)quis communautaire, ovvero appunto di un’Europa a cerchi concentrici o più velocità, dove è possibile rinvenire (e lo sarà ancor più chiaramente in futuro) aggregazioni di Stati diversi, combinati a seconda delle loro specificità nazionali ed esigenze costituzionali e politiche.

Ci si può chiedere, ancora, se questo panorama attesti una sorta di crisi dell’identità europea o se, invece, altro non sia che l’inevitabile risultato dell’estensione territoriale e materiale dell’ordinamento dell’Unione e della conseguente eterogeneità che oggi lo caratterizza, dal punto di vista delle tradizioni giuridiche degli Stati membri e della vastità delle competenze, e, pertanto, sia semplicemente il prezzo da pagare per evitare, come visto, un ravvicinamento minimo e al ribasso, consentendo, al contrario, lo sviluppo, per quanto non più uniforme, del processo di integrazione. Il grado di flessibilità del sistema è, oggi, marcatamene superiore a quello delle sue origini, collocate in un’epoca rispetto alla quale è consentito rimpiangere la maggior omogeneità e sicurezza del processo di integrazione. E, tuttavia, è forse il confronto a non essere consentito, perché l’Europa attuale è ben diversa da quella creata nella seconda metà del secolo scorso, dai sei Stati fondatori e di cui P. Pescatore riferiva, in toni entusiastici, nel lontano 1972: diversa, ma non necessariamente meno integrata, almeno nei suoi valori fondamentali e imprescindibili.

Alcuni autorevoli autori si sono interrogati sulle sorti dell’Europa e hanno prospettato la possibilità di una revisione dei trattati che porti alla creazione di un’Europa a (solo) due velocità (cfr., ad esempio, J.C. Piris, The Future of Europe – Towards a two-speed EU?, Cambridge, 2012; L.S. Rossi, L’Unione europea e il paradosso di Zenone. Riflessioni sulla necessità di una revisione del trattato di Lisbona, in DUE, 2013, p. 749 ss.), con un primo gruppo di Stati (presumibilmente quelli dell’area euro) che aderirebbero al nocciolo duro dell’Europa su una serie ben definita e nutrita di competenze, e gli altri che perseguirebbero una forma di integrazione più attenuata. In entrambe le Europe sarebbe vietata l’instaurazione di forme nuove di ID per cui, all’interno dell’uno o dell’altro gruppo di Stati, tutti dovrebbero procedere alla stessa velocità, senza più creare differenziazione alcuna.

Anche per quest’ultima ragione, il progetto, assai ambizioso dal punto di vista politico, risulta difficilmente perseguibile sul piano giuridico oltre che finanziario (implicando, di fatto, una duplicazione di tutte o quasi le istituzioni dell’attuale Unione). Pare infatti impensabile che tutti gli Stati rinuncino soprattutto alle possibilità di ID negativa per salvaguardare le proprie identità costituzionali; né avrebbe senso estendere alcuni regimi di opt out a Stati che non ne hanno mai fatto richiesta né, quindi, ne avvertono l’esigenza.

Ciò non vuol dire che il dibattito sul futuro dell’Europa sia chiuso o risolto. Forse bisognerebbe avere il coraggio di compiere un ultimo passo verso uno Stato federale, cedendo all’Unione (seppur sempre con Stati in regime di opt out) le competenze in materia economica e fiscale, o – al contrario – riflettere sulla concreta possibilità di una reversibilità delle competenze rispetto alla politica monetaria, non senza prima aver individuato strumenti idonei ad evitare il dissesto economico e finanziario dell’Unione o, comunque, degli Stati dell’eurozona.

In attesa (forse) di un cambiamento più radicale, capace di condurre l’Europa al di là della situazione di stallo, il cui costo si sta pagando in un’epoca di crisi finanziaria e del debito sovrano, il sistema di ID oggi esistente sembra quello che meglio rispecchia e soddisfa le peculiarità dell’attuale Europa a 28, dove il ma(c)quis si è sostituito all’acquis, ma non per questo dei risultati ottenuti si può negare l’efficacia, quantomeno nel senso di aver consentito di individuare la sola strada percorribile per far avanzare, di volta in volta, il processo di integrazione, anche se talora ridotto quanto alla sua sfera di operatività territoriale e, quindi, materiale.


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