Il “de profundis” del giudicato interno

La sesta sezione del Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sez. VI, 17 gennaio 2017, n. 167) si discosta dall’Adunanza Plenaria e, accogliendo le difese delle parti appellate -Wind e AGCom-, rimette la questione alla Corte di giustizia.

Per la prima volta vengono, quindi, applicati in modo ampliativo e più radicale principi di una recente sentenza della Corte di giustizia (sentenza 5 aprile 2016, in causa C-689/13, Puligienica Facility Esco) che ha sancito che l’autorità dello stare decisis sia “cedevole” anche solo in caso di sospetto contrasto della sentenza dell’Adunanza plenaria con il diritto dell’Unione.

La Corte, infatti, con l’ormai nota sentenza ha affermato che «l’articolo 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che osta a una disposizione di diritto nazionale nei limiti in cui quest’ultima sia interpretata nel senso che, relativamente a una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione, una sezione di un organo giurisdizionale di ultima istanza, qualora non condivida l’orientamento definito da una decisione dell’adunanza plenaria di tale organo, è tenuta a rinviare la questione all’adunanza plenaria e non può pertanto adire la Corte ai fini di una pronuncia in via pregiudiziale».

Tuttavia, nonostante successivamente si fosse pronunciata anche l’Adunanza plenaria con sentenza n. 19/2016, riconoscendo che la sezione del Consiglio di Stato cui è assegnato un ricorso, qualora non condivida un principio di diritto enunciato dall’Adunanza stessa su una questione vertente sull’interpretazione o sulla validità del diritto dell’Unione europea, possa disattendere il principio di diritto enunciato ove esso risulti manifestamente in contrasto con un’interpretazione del diritto dell’Unione già fornita, in maniera chiara ed univoca, dalla giurisprudenza comunitaria, tale possibilità era rimasta sulla carta senza mai essere applicata in concreto.

L’attesa è stata considerevolmente più lunga se si tiene conto che detti principi non potevano essere considerati completamente nuovi. Infatti, fermo restando il principio generale dell’importanza che riveste l’istituto dell’autorità di cosa giudicata sia nell’ordinamento giuridico dell’Unione, sia negli ordinamenti giuridici nazionali, al fine di garantire  la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonché una buona amministrazione della giustizia, la Corte fin dalla sentenza Lucchini del 18 luglio 2007 aveva più di una volta affermato che può essere messa in discussione, in determinati casi, anche la sentenza del giudice nazionale passata in giudicato se in contrasto con il diritto dell’UE. Il limite all’autonomia procedurale lasciata agli Stati membri trova la propria ratio nel consentire l’effettività del diritto europeo e nel garantire la parità di trattamento tra situazioni interne e situazioni europee (c.d. principio di equivalenza). Utilizzando tale impostazione la Corte, anche in mancanza di una competenza vera e propria dell’Unione in materia processuale ha, in altri termini, “invitato” i giudici nazionali ad interpretare le regole processuali in modo conforme per assicurare l’effettiva applicazione del diritto europeo.

Il rinvio pregiudiziale (Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Sicilia, 17 ottobre 2013, ord. n. 848) alla base della citata sentenza Puligienica è indice degli ostacoli che tali principi avevano trovato, poiché lo stesso Consiglio di giustizia amministrativa aveva espressamente richiesto alla Corte “se, limitatamente alle questioni suscettibili di essere decise mediante l’applicazione del diritto dell’Unione europea, osti con l’interpretazione di detto diritto e, segnatamente con l’articolo 267 TFUE, l’articolo 99, comma 3, [codice del processo amministrativo], nella parte in cui tale disposizione processuale stabilisce la vincolatività, per tutte le Sezioni e i Collegi del Consiglio di Stato, di ogni principio di diritto enunciato dall’adunanza plenaria, anche laddove consti in modo preclaro che detta adunanza abbia affermato, o possa aver affermato, un principio contrastante o incompatibile con il diritto dell’Unione europea”. È noto che con la riforma del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) il legislatore all’art. 99, comma 3 cpa ha sancito il vincolo giuridico per le sezioni di uniformarsi alla precedente Adunanza plenaria, che acquista quindi un particolare valore giuridico, non più limitato alla particolare autorevolezza, com’era secondo l’impostazione tradizionalmente prevalente. Tale articolo, infatti, obbliga tutte le Sezioni e i Collegi del Consiglio di Stato ad applicare, ai fini del decidere sul rito e sul merito delle controversie amministrative, i principi di diritto enunciati dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, fatta salva la facoltà di rimettere le questioni alla stessa Adunanza plenaria (onde sollecitarne un revirement solo eventuale) quando la Sezione o il Collegio intendano discostarsi da detti principi. La previsione normativa si inserisce in quell’evoluzione del diritto processuale amministrativo italiano verso un modello di “common law”, incentrato sulla regola dello “stare decisis”. Ma la sentenza dell’Adunanza plenaria inter partes non ha solo valore di stare decisis, ma acquista valore di vero e proprio giudicato interno (e cioè di statuizione vincolante per la decisione finale).

Tuttavia, l’impossibilità che una sezione possa distaccarsi dal giudicato di una Plenaria adendo direttamente la Corte di giustizia è stata ritenuta da quest’ultima non conforme con il diritto europeo. Ed è proprio quanto statuito dalla Corte che è stato recepito ed esteso nella causa alla base dell’ordinanza in commento. Nel caso di specie, infatti, prima di rimettere la questione in Corte di giustizia, la Sesta sezione aveva rinviato la questione all’Adunanza plenaria.

Sembra opportuno un breve richiamo ai fatti posti a fondamento della controversia e alle vicende processuali.

Con provvedimento n. 23356 del 6 marzo 2012 l’AGCM ha irrogato alla società Wind Telecomunicazioni s.p.a. la sanzione pecuniaria di euro 200.000 in applicazione dell’articolo 20, commi 2 e 3 del Codice del consumo, per aver posto in essere una pratica commerciale scorretta ai sensi degli articoli 20,24,25 e 26, lettera f), dello stesso Codice. Tale sanzione trovava la propria ratio nel comportamento di Wind ritenuto dall’AGCM come “pratica commerciale aggressiva”, poiché la società aveva messo in commercio SIM dove erano stati attivati servizi preimpostati di navigazione internet e segreteria telefonica senza aver previamente acquisito il consenso del consumatore e senza averlo reso edotto dell’esistenza della preimpostazione di tali servizi e della loro onerosità.

Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, la Società chiedeva l’annullamento del provvedimento sanzionatorio, lamentando, tra le altre, il difetto assoluto di competenza dell’AGCM e la violazione del Codice del consumo. Si contestava infatti la competenza dell’AGCM ad emettere il provvedimento impugnato, invocando il principio di specialità di cui all’articolo 19, comma 3 del Codice del consumo, ai sensi del quale la normativa generale dettata da tale Codice in materia di pratiche commerciali scorrette doveva ritenersi inapplicabile. Tale censura è stata condivisa dal TAR che con sentenza n. 1754/2013 accoglieva il ricorso ritenendo che fosse l’AGCom istituzionalmente “preposta alla cura e alla salvaguardia dell’interesse pubblico primario della tutela del consumatore nel settore specifico delle comunicazioni elettroniche, e tanto sulla base di fonti normative che, da un lato, inequivocabilmente le conferiscono competenza esclusiva in materia”.

Avverso tale sentenza la soccombente AGCM interponeva appello deducendo, tra i vari motivi, che la pronuncia era viziata nella parte in cui interpretava il principio di specialità – sancito dall’articolo 19, comma 3 del Codice del consumo, e, ancor prima, dall’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva n. 2005/29/CE – ritenendo l’incompetenza dell’AGCM “ad intervenire in applicazione delle disposizioni generali, a prescindere dalla verifica circa l’esistenza di un effettivo contrasto tra discipline e anche con riferimento ad aspetti non coperti in modo specifico dalla disciplina speciale”. La sesta Sezione del Consiglio di Stato rinviava così, con ordinanza n. 4351/2015, la questione all’Adunanza plenaria, sollevando la questione se la normativa applicabile dovesse essere interpretata come norma attributiva di una competenza esclusiva all’AGCM in materia di pratiche commerciali scorrette, anche a fronte di condotte disciplinate da specifiche norme settoriali di derivazione europea (ritenute idonee a reprimere il comportamento sia con riguardo alla completezza ed esaustività della disciplina, sia con riguardo ai poteri sanzionatori, inibitori e conformativi attribuiti all’Autorità di regolazione, nella specie l’AGCom). L’Adunanza con sentenza n. 4 del 9 febbraio 2016, pur rimettendo la causa per l’ulteriore prosieguo alla Sezione, enunciava che “la competenza ad irrogare la sanzione per una «pratica commerciale considerata in ogni caso aggressiva» è sempre individuabile nell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato –AGCM” ritenendo che “nel nostro sistema, mentre la pratica commerciale aggressiva è inequivocabilmente attratta nell’area di competenza dell’AGCM, la violazione degli obblighi informativi suddetta è invece, di per sé, suscettibile di sanzione da parte dell’AGCom”. Non rinviava, così, in via pregiudiziale alla Corte di giustizia, malgrado le richieste delle parti (AGCom e Wind).

Nella fase di prosecuzione della causa dinanzi alla sesta Sezione, l’AGCom aveva, in particolare insistito, sull’errata interpretazione dell’Adunanza plenaria e sulla conseguente incompatibilità della disciplina nazionale attuale di cui all’articolo 27, comma 1-bis del Codice del consumo, con la disciplina UE di cui all’art. 3, comma 4 della direttiva 2005/29/CEE e il considerando 10 della direttiva stessa. Di qui la richiesta, ai sensi dell’art. 267, paragrafo 3 TFUE, per la rimessione alla Corte di giustizia della questione di compatibilità del diritto ‘vivente’ nazionale, quale risultante dalla sentenza dell’Adunanza plenaria n. 4 del 2016, con l’ordinamento dell’Unione.

La sesta Sezione, pur nella consapevolezza dell’efficacia di giudicato interno della pronuncia della Plenaria secondo le norme nazionali, ha riconosciuto sia la rilevanza, sia l’ammissibilità delle questioni pregiudiziali sollevate dalle parti appellate, ponendo tra i vari quesiti se il principio di specialità, sancito al considerando 10 e all’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE, e gli articoli 20 e 21 della direttiva 2002/22/CE e 3 e 4 della direttiva 2002/21/CE osti ad una interpretazione secondo la quale ogniqualvolta si verifichi in un settore regolamentato una condotta riconducibile alla nozione di ‘pratica aggressiva’, ai sensi degli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE, o ‘in ogni caso aggressiva’ ai sensi dell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette (con relativa competenza dell’AGCM).

A quale delle due autorità toccherà dunque la competenza per sanzionare le pratiche scorrette in materia di comunicazioni elettroniche? Come deve essere interpretato il principio di specialità? È conforme con la normativa europea l’interpretazione data dall’Adunanza plenaria che vede di competenza dell’AGCom solo la violazione degli obblighi informativi?

Per ora sul punto non vi è alcuna certezza.  Quel che è certo è che viene superato, attraverso il rinvio alla Corte di giustizia, il giudicato interno: infatti la Corte non è chiamata a giudicare su di esso e la sentenza che ne sortirà comporterà inevitabilmente il suo travolgimento, quale che sia la risposta al quesito posto dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato. È quindi cambiato, almeno nel momento in cui vi sia da applicare il diritto europeo, il ruolo dell’Adunanza plenaria, che non chiude più il processo innovativo giurisprudenziale e che non ne rappresenta così il punto di arrivo. Si è passati da un rafforzamento della funzione nomofilattica dell’Adunanza plenaria voluto dal legislatore con l’art. 99, comma 3 cpa, a un parziale svuotamento della stessa attraverso proprio un’interpretazione giurisprudenziale.

 


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