I direttori dei musei non sono titolari di veri e propri pubblici poteri

1. Sull’annosa questione dei direttori stranieri (cittadini europei) nei musei statali italiani, che è stata a lungo al centro del dibattito politico, è stato messo un punto forse finale dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 9 dello scorso 25 giugno 2018.

La vicenda non era nuova non solo per l’opinione pubblica, ma anche tra le mura di Palazzo Spada. Infatti, la VI sezione del Consiglio di Stato si era già pronunciata in argomento l’anno scorso (sentenza del 24 luglio 2017 n. 3666 del 2017), ritenendo che l’attività di direttore del museo non potesse essere riservata ai cittadini italiani e che l’articolo 1, comma 1 del d.P.C.M. 174 del 1994 dovesse essere disapplicato per contrasto con le previsioni di cui all’articolo 45 del TFUE. Tuttavia, sempre la VI del Consiglio di Stato, in diversa composizione, con la sentenza parziale con contestuale ordinanza n. 677 del 2 febbraio 2018 ha rimesso la questione alla Plenaria, ritenendo che si potesse dare un’altra interpretazione al quadro normativo posto a base della vicenda ed in particolare che si potesse affermare “il principio per il quale l’art. 1, comma 1, lettera a), del regolamento emanato con il d.P.C.M. n. 171 del 1994 – mai successivamente abrogato, neppure dall’art. 14, comma 2 bis, del d.l. 83 del 2014 – richieda imprescindibilmente la cittadinanza italiana per il conferimento di incarichi di livello dirigenziale, sia applicabile nel presente giudizio e non si ponga in contrasto con la normativa dell’Unione europea”.

Un’interpretazione, dunque, opposta rispetto alla precedente, che veniva a configurare un contrasto di giurisprudenza tale da dover deferire la questione all’esame dell’Adunanza Plenaria.

2. Detta questione, apparentemente semplice, si basa su un quadro normativo nazionale molto complesso. Infatti, le norme che vengono in rilievo sono molte sia a livello costituzionale sia a livello normativo primario e regolamentare.

Sotto il primo profilo le norme che sono state invocate in giudizio sono:

– l’art. 51, secondo cui – “I. Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge. A tale fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini.

II. La legge può, per l’ammissione ai pubblici uffici e alle cariche elettive, parificare ai cittadini gli italiani non appartenenti alla Repubblica”;

– l’articolo 54, secondo cui – “I. Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi;

II. I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle, con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”.

Più complesso è invece il quadro normativo primario e regolamentare ove vengono in rilievo:

– l’articolo 37, commi 1 e 2 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (recante “Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della l. 23 ottobre 1992, n. 421”), che così dispone:

1. I cittadini degli Stati membri dell’Unione europea possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano l’esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale.

2. Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, ai sensi dell’articolo 17 della legge 23 agosto 1988, n. 400, sono individuati i posti e le funzioni per i quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana, nonché i requisiti indispensabili all’accesso dei cittadini di cui al comma 1”;

– l’articolo 1, comma 1, lettere a) e b) del d.P.C.M. 7 febbraio 1994, n 174 (“Regolamento recante norme sull’accesso dei cittadini degli Stati membri dell’Unione europea ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche”), il quale, nel dare attuazione alle previsioni di cui al richiamato articolo 37, ha stabilito che:

I posti delle amministrazioni pubbliche per l’accesso ai quali non può prescindersi dal possesso della cittadinanza italiana sono i seguenti:

a) i posti dei livelli dirigenziali delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, individuati ai sensi dell’art. 6 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 , nonché i posti dei corrispondenti livelli delle altre pubbliche amministrazioni”;

b)i posti con funzioni di vertice amministrativo delle strutture periferiche delle amministrazioni pubbliche dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, degli enti pubblici non economici, delle province e dei comuni nonché delle regioni e della Banca d’Italia”;

– l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 4 maggio 1994, n. 487 (“Regolamento recante norme sull’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e le modalità di svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre forme di assunzione nei pubblici impieghi”) il quale, nel richiamare e confermare – ai fini che qui rilevano – le previsioni di cui al d.P.C.M. 174 del 1994, ha stabilito che:

1. Possono accedere agli impieghi civili delle pubbliche amministrazioni i soggetti che posseggono i seguenti requisiti generali:

1) cittadinanza italiana. Tale requisito non è richiesto per i soggetti appartenenti alla Unione europea, fatte salve le eccezioni di cui al D.P.C.M. 7 febbraio 1994, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 1994, serie generale n. 61 (…)”).

Questo complesso di norme deve essere valutato e confrontato con l’art. 45 del TFUE il quale nell’assicurare che la libera circolazione dei lavoratori all’interno dell’Unione, al paragrafo 2 stabilisce che il principio di libera circolazione comporta la rimozione di qualunque discriminazione idonea a comprometterne la realizzazione “fatte salve le limitazioni giustificate da motivi di ordine pubblico, pubblica sicurezza e sanità pubblica” (paragrafo 3), sempre tenendo conto che “le disposizioni del presente articolo non sono applicabili agli impieghi nella pubblica amministrazione” (paragrafo 4).

La questione sottoposta all’Adunanza plenaria riguarda proprio la nozione di “impieghi nella pubblica amministrazione” o, meglio, entro quali limiti gli Stati membri possono applicare la c.d. ‘eccezione di nazionalità’ di cui al richiamato paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE.

3. L’Adunanza plenaria ha fondato il proprio iter ricostruttivo sulla giurisprudenza della Corte di giustizia.

Infatti, ha ricordato come la Corte di Lussemburgo abbia interpretato con estremo rigore la possibilità di poter applicare un’eccezione rispetto a una delle libertà fondamentali del Trattato.

È noto, del resto, sul piano generale che anche le norme che ostacolano o limitano le libertà fondamentali possono essere considerate compatibili col Trattato, se soddisfano le seguenti condizioni:

  • non devono essere applicate in modo discriminatorio (misura c.d. indistintamente applicabile);
  • devono essere giustificate da imperiose ragioni di interesse pubblico;
  • devono essere idonee ad assicurare il raggiungimento dello scopo che perseguono;
  • non devono andare oltre quanto necessario per il raggiungimento dello stesso (Corte di giustizia, 17 novembre 2009, causa C-169/08, Presidente del Consiglio dei Ministri c. Regione Sardegna; Corte di giustizia, 10 marzo 2009, causa C-169/07, Hartlauer; Corte di giustizia, 21 aprile 2005, causa C-140/03, Commissione v. Grecia).

Al riguardo, è stato più volte stabilito che le eventuali misure nazionali volte ad affermare la c.d. ‘riserva di nazionalità’ devono essere limitate a “quanto strettamente necessario” a salvaguardare gli interessi sottesi all’adozione di tale misura (in tal senso: Corte di giustizia, 3 luglio 1986, causa C-66/85, Lawrie Blum; Corte di giustizia, 10 settembre 2014, causa C-270/13, Iraklis Haralambidis). Non solo, ma attraverso l’analisi della giurisprudenza della Corte di giustizia emerge il principio secondo cui gli Stati membri possono legittimamente invocare la riserva di nazionalità per i soli impieghi nell’amministrazione pubblica dove vi sia “un rapporto con attività specifiche della pubblica amministrazione in quanto incaricata dell’esercizio dei pubblici poteri e responsabile della tutela degli interessi generali dello Stato (…)” (Corte di giustizia, 26 maggio 1982, causa C-149/79, Commissione c. Regno del Belgio; Corte di giustizia, 2 luglio 1996, causa C-290/94, Commissione c. Repubblica Ellenica).

4. I compiti di interesse pubblicistico, tra i quali senza dubbio possono rientrare anche i compiti dei direttori dei Musei, possono giustificare in per sèla c.d. riserva di nazionalità?

Ora è chiaro che, affinchè vi possa essere una c.d. riserva di nazionalità, il soggetto agente deve esercitare un potere pubblico. Tale principio non è ricavabile solo dalla giurisprudenza della Corte, ma anche dalla stessa Commissione europea, che con la Comunicazione “Libera circolazione di lavoratori e accesso agli impieghi nella pubblica amministrazione degli Stati membri: l’azione della Commissione in materia di applicazione dell’articolo 48, paragrafo 4 del trattato CEE” (Documento 88/C 72/02 in GUCE C72 del 18 marzo 1988), ha chiarito che possono essere ricondotti alla ‘riserva di nazionalità’ “gli impieghi dipendenti dai ministeri statali, dai governi regionali, dalle collettività territoriali e da altri enti assimilati e infine dalle banche centrali, quando si tratti del personale (funzionari e altri) che eserciti le attività coordinate intorno ad un potere pubblico giuridico dello Stato o di un’altra persona morale di diritto pubblico, come l’elaborazione degli atti giuridici, la loro esecuzione, il controllo della loro applicazione e la tutela degli organi dipendenti”. Non risulta chiaro, tuttavia, se sia sufficiente che tali compiti siano astrattamente conferiti, ovvero sia necessario che gli stessi debbano essere esercitati in concreto. Si tratta dunque di comprendere, per usare i termini utilizzati dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 3666 del 2017, se la normativa europea debba essere interpretata secondo un criterio “strutturale-statico”, e dunque basti (sulla carta) l’incarico dirigenziale, o se invece debba essere intesa secondo un criterio “funzionale-dinamico”, e quindi serva verificare, in concreto, se l’attività sia espressione di pubblici poteri.

Anche sotto questo profilo l’Adunanza plenaria riprende la giurisprudenza della Corte di giustizia. Infatti, nonostante quest’ultima ancora non si sia mai espressa sui Dirigenti dei musei, ha però esaminato la normativa italiana per altro settore, relativo al tema del rilascio della licenza per l’esercizio dell’attività di vigilanza privata e di guardia privata giurata (articoli 134 e 138 del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza – R.D. 18 giugno 1931, n. 773): in tale occasione, pur non negando che dette figure professionali svolgano attività di interesse pubblicistico, ha tuttavia escluso che ciò sia sufficiente a giustificare la ‘riserva di nazionalità’ di cui al più volte richiamato paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE.

In particolare, nell’esaminare la normativa italiana, la Corte ha fatto riferimento alla giurisprudenza secondo cui, al fine di richiamare in modo legittimo la sopra indicata eccezione in relazione a talune figure, è necessario che queste siano connotate da “una partecipazione diretta e specifica all’esercizio di pubblici poteri” (Corte di giustizia, 31 maggio 2001, causa C-283/99 – Commissione c. Repubblica italiana).

5. Per applicare l’eccezione vi deve essere, dunque, l’esercizio diretto di un potere pubblico. Ma tale esercizio deve assumere un carattere prevalente in relazione al complesso delle funzioni e dei compiti demandati alla figura professionale? Ci si chiede se, al fine di applicare legittimamente la riserva di nazionalità, debba trovare applicazione il c.d. ‘criterio del contagio’ (secondo cui è sufficiente che la figura di che trattasi eserciti anche un solo potere di carattere pubblicistico nel complesso dei compiti attribuiti), ovvero il diverso ‘criterio della prevalenza’ (secondo cui è invece necessario che i poteri di matrice pubblicistica, autoritativa e coercitiva assumano valenza prevalente in relazione al complesso dei compiti attribuiti: cfr. punto 5.2.2.2. della sentenza dell’Adunanza Plenaria).

Al riguardo il Consiglio di Stato ricorda come, in altro caso italiano (si trattava della presidenza di Autorità portuali), la Corte di giustizia abbia risolto la questione in senso restrittivo. Infatti, pur non negando che talune delle funzioni demandate ex lege al Presidente di un’Autorità portuale italiana comportino l’adozione di provvedimenti di carattere coattivo intesi alla tutela degli interessi generali dello Stato (e che quindi rientrino – a rigore – nell’area di possibile esenzione propria della c.d. ‘riserva di nazionalità’), ha nondimeno escluso che tale circostanza legittimi ex se l’attivazione di tale riserva (Corte di giustizia, 10 settembre 2014, causa C-270/13, Iraklis Haralambidis).

Infatti, secondo la Corte, “il ricorso a tale deroga non può essere giustificato dal solo fatto che il diritto nazionale attribuisca poteri d’imperio (…). È necessario pure che tali poteri siano effettivamente esercitati in modo abituale da detto titolare e non rappresentino una parte molto ridotta delle sue attività”. Si deve quindi applicare il c.d. criterio della prevalenza.

6. La decisione dell’Adunanza plenaria muove proprio da questo presupposto e ritiene che “la posizione del direttore del Palazzo Ducale di Mantova” non presenti “un carattere di apicalità nell’ambito dell’amministrazione statale” e non comporta “l’esercizio di funzioni di vertice amministrativo” tali da essere considerati di “stampo pubblicistico e autoritativo, in tal modo giustificando la riserva di nazionalità di cui al paragrafo 4 dell’articolo 45 del TUE”. Infatti, secondo l’Adunanza Plenaria, i Direttori dei Musei hanno poteri attinenti al “profilo organizzativo, gestionale e di valorizzazione delle risorse. Basti richiamare (solo a mo’ di esempio) le attribuzioni relative: i) alla programmazione, all’indirizzo, al coordinamento e al monitoraggio delle attività di gestione del museo (lettera a)); ii) alla fissazione degli importi dei biglietti e degli orari di apertura (lettere b) e c)); iii) alla fissazione di elevati standard di qualità nella gestione e nella comunicazione (lettera e)); iv) all’istituzione di forme e modalità di piena collaborazione con gli ulteriori livelli amministrativi rilevanti (lettera f))” (cfr. punto 5.5.3 della sentenza).

In conclusione, l’articolo 1, comma 1, lettera a) del d.P.C.M. 174 del 1994 e l’articolo 2, comma 1 del d.P.R. 487 del 1994, laddove impediscono in modo assoluto la possibilità di attribuire posti di livello dirigenziale nelle amministrazioni dello Stato a cittadini di altri Stati membri dell’Unione europea, risultano insanabilmente in contrasto con il paragrafo 4 dell’articolo 45 del TFUE e, in assenza di possibili interpretazioni di carattere adeguativo, debbono essere disapplicati.

7.L’obiezione secondo cui il ricorso all’eccezione/riserva di nazionalità risulterebbe nel caso in esame giustificato sulla base del principio di reciprocità (per come richiamato al par. 65 della sentenza/ordinanza n. 677 del 2018) non è giustificata.

Infatti, da un lato, la possibilità di attribuire a cittadini non italiani incarichi di funzioni dirigenziali aventi carattere essenzialmente gestionale e non connotati, in sostanza, dalla spendita di funzioni autoritative non implica in via di principio la cessione di quote di sovranità e non giustifica pertanto il richiamo alla violazione del principio di parità di cui all’articolo 11, Cost. D’altro lato il principio del primato del diritto UE comporta che uno Stato membro non possa esimersi dal rispetto degli obblighi derivanti dalla partecipazione all’Unione europea anche se un altro Stato membro è rimasto inadempiente agli stessi obblighi. Principio, questo, è stato più volte affermato dalla stessa Corte di giustizia ed in particolare anche in un caso di inadempimento dello Stato italiano ove ha sottolineato che “risulta da una costante giurisprudenza, da un lato, che l’adempimento degli obblighi imposti dal Trattato CE o dal diritto derivato agli Stati membri non può essere soggetto a condizione di reciprocità (v. sentenza 29 marzo 2001, causa C-163/99, Portogallo/Commissione, Racc. pag. I-2613, punto 22)” (cfr. punto 7 della sentenza Corte di giustizia, 16 maggio 2002, causa C-142/01, Commissione c/ Italia.)


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