Google e l’antitrust

Nell’ anno del quarto centenario della scomparsa di Miguel de Cervantes stiamo forse assistendo ad un nuovo epico scontro cavalleresco, con la Commissione europea nella parte del “el ingenioso hidalgo don Quijote de la Mancha”, la quale armata di un apparato concettuale che risale alla fine dell’Ottocento, sfida Google, società che a colpi di algoritmi è capace di assumere le sembianze, di volta in volta, di uno “smisurato gigante”, di un mulino a vento, dell’elmo di Mambrino e di molte altre cose. Tant’è che negli ultimi anni, soggetta a tenzoni analoghe da parte, tra gli altri, della Federal Trade Commission statunitense e del Competition Bureau canadese, Google ne è sempre uscita, se non vincitrice, quanto meno indenne da conseguenze serie (si veda ad esempio il  post di G. Manne, ampiamente adesivo alle tesi di Google).

Da quanto è possibile dedurre della sintesi delle due Comunicazioni degli addebiti (di seguito CA) inviate dalla Commissione il 15 aprile 2015 (S.O. 2015) e il 20 aprile 2016 (S.O. 2016), quest’ultima rimprovera a Google sostanzialmente tre tipi di pratiche restrittive della concorrenza.

1. Trattamento discriminatorio dei prodotti dei concorrenti nel mercato degli acquisti comparativi

La prima pratica restrittiva, oggetto della CA del 2015, si produrrebbe nel mercato degli acquisti comparativi. Si tratta del mercato che contiene i diversi motori di ricerca idonei a mostrare in maniera comparata le caratteristiche e i prezzi dei diversi beni o servizi offerti on line. Esso comprende, oltre al motore di ricerca di Google – Google Shopping – anche motori come Nextag, PriceGrabber, Search Smart e molti altri. Secondo la Commissione, Google favoriva sistematicamente il proprio motore Google Shopping, infatti le sue pagine generali mostravano i risultati delle ricerche mettendo quest’ultimo in primo piano sullo schermo e deviando in tal modo il traffico dai servizi di acquisto comparativo dei concorrenti.

A tale riguardo va osservato che accuse analoghe sono state rivolte a Google sia dalla FTC sia dal Competition Bureau. Nelle indagini di entrambe le autorità è stato constatato che gli algoritmi usati da Google per classificare i diversi motori di ricerca erano effettivamente idonei a produrre effetti escludenti nei confronti dei concorrenti, nel senso che il motore di “comparison shopping” che veniva retrocesso, o eliminato, nella prima pagina dei risultati della ricerca sperimentava effetti avversi dal punto di vista economico. Tuttavia, entrambe le autorità in questione hanno dovuto altresì rilevare che gli algoritmi di Google erano ideati sostanzialmente per migliorare la qualità e l’efficacia della ricerca dei prodotti e dei servizi a vantaggio dei consumatori. In particolare, la FTC ha ammesso che esistono più metodi ragionevoli per classificare i risultati di una ricerca e un suo intervento diretto a modificare gli esiti dell’esplorazione web avrebbe implicato un’intrusione nelle scelte di un’impresa relative alla presentazione dei suoi prodotti o servizi, intrusione che doveva ritenersi inappropriata nel caso in cui, come nella pratica oggetto di esame, erano state presentate giustificazioni pro-competitive plausibili.

Alla luce di questi precedenti è possibile che nel corso dell’istruttoria della Commissione, Google riesca ad avvalersi della giurisprudenza relativa alle giustificazioni per gli abusi di posizione dominante codificata nella Corte nella sentenza Post Danmark A/S, (del 27 marzo 2012, C-209/10, ECLI:EU:C:2012:172) in base alla quale un’impresa responsabile di una condotta abusiva ai sensi dell’art. 102 TFUE è comunque ammessa a dimostrare che il proprio comportamento è obiettivamente necessario o che l’effetto preclusivo che ne deriva può essere controbilanciato, o anche superato, da vantaggi in termini di efficienza che vanno anche a beneficio del consumatore, senza che tuttavia la sua condotta possa giungere al risultato di eliminare una concorrenza effettiva, sopprimendo la totalità o la maggior parte delle fonti esistenti di concorrenza attuale o potenziale.

2 Pratiche consistenti nell’imporre l’uso esclusivo di Google Search e di Google Chrome quale condizione per avere l’accordo di licenza per l’utilizzo di Play Store. 

Apparentemente meno facili da smantellare sono gli addebiti mossi a Google nella seconda CA. Sotto un primo profilo, la Commissione rimprovera a Google una serie di pratiche dirette imporre l’uso esclusivo del motore di ricerca Google Search e del browser Google Chrome, attraverso la leva fornita dal possesso del programma applicativo Android. Al riguardo occorre ricordare che, secondo gli accertamenti compiuti della Commissione stessa, oltre il 90% degli smartphones e dei tablets venduti in Europa e negli USA utilizza il sistema operativo Android, di proprietà di Google dal 2005. Tra gli altri sistemi operativi vanno inclusi IOS di proprietà di Apple e Windows Phone appartenente a Microsoft. In altri termini Google fornisce l’ambiente informatico senza il quale i tablets e gli smartphones non possono funzionare a tutti i produttori di questi beni (ad esempio, Samsung, Sony, Hauwey, LG, ecc), salvo alcune importanti ma limitate eccezioni.

La posizione dominante di Google in questo mercato è particolarmente solida perché esistono due rilevanti barriere all’ingresso. La prima è creata dal fatto che nel mercato in esame si produce il c.d. network effect, ossia il valore del bene o del servizio dipende dal numero di coloro che lo usano. Infatti, più un sistema operativo è utilizzato dai consumatori finali, maggiore è il numero di app che vengono ideate per funzionare su di esso; a sua volta l’incremento del numero di app induce un aumento della domanda dei beni che usano il sistema operativo in questione, il quale pertanto rafforza la sua posizione sul mercato senza fare nulla, semplicemente per il fatto che essa è già la più forte. La seconda barriera all’ingresso discende dalla circostanza che l’utilizzatore di un bene che impiega Android non può agevolmente passare ad un prodotto che impiega un diverso sistema operativo, perché in tal modo perderebbe elementi preziosi quali dati, contatti e apps, utilizzabili solo su Android; pertanto la concorrenza tra sistemi operativi è assai flebile.

In questo contesto i produttori di smatphones e di tablets ritengono cruciale pre-installare sui loro prodotti il programma applicativo c.d. Play Store, – che opera solo su base Android – il quale consente l’accesso ad un immenso negozio virtuale di film, canzoni, libri, app, ecc. Tale esigenza commerciale fa sì che Play Store sia oggi divenuto dominante nel mercato delle app, dato che essa ha prodotto una quasi automatica duplicazione in questo mercato della posizione dominante che Android detiene nel mercato dei sistemi operativi. Secondo la Commissione, infatti, Play Store controlla oggi il 90% del mercato delle app. La creazione di tale posizione dominante non è di per sé oggetto di critica della Commissione. Viceversa, quest’ultima ritiene illegittimo l’obbligo contrattuale che sarebbe imposto da Google ai produttori, consistente nel concedere la pre-installazione di Play Store solo a condizione che essi pre-installino anche due particolari app di Google, vale a dire Google Search e Google Chrome. Dato che Google Search è un motore di ricerca che opera nel mercato dei servizi generali di ricerca on line (Google Chrome è invece il browser), l’obbligo di pre-installare quest’ultimo insieme a Play Store consente a Google di moltiplicare la sua posizione dominante, trasferendola dal mercato delle app, al mercato dei servizi generali di ricerca.

Ma v’è di più. Sempre secondo quanto esposto nella sintesi della CA del 2016, la Commissione ritiene che Google abbia concesso incentivi finanziari notevoli ad alcuni dei maggiori produttori di smartphones e di tablets in cambio dell’impegno di questi ultimi di pre-installare unicamente Google Search sui loro prodotti, con esclusione dunque dei motori di ricerca di società concorrenti. Di fatto, sempre secondo la Commissione, oggi Google possiede anche il 90% del mercato dei servizi generali di ricerca on line.

In questo contesto le preoccupazioni della Commissione concernono principalmente la forte restrizione della libertà dei produttori di smatrphones e di tablets di scegliere i motori di ricerca da pre-installare sui loro prodotti, in relazione al mercato dei servizi generali di ricerca on line. Tale restrizione rende i prodotti immessi nel mercato meno differenziati, a detrimento della concorrenza tra gli stessi e delle possibilità di scelta degli consumatori finali. Al riguardo la Commissione segnala che l’analisi della dinamica dei mercati mostra che solo raramente i consumatori finali installano ulteriori motori di ricerca se la funzionalità di questi ultimi è analoga a quella del motore pre-installato.

In una nota del 22 aprile 2016 (la si veda qui), commentando la CA ricevuta dalla Commissione, Google ha ammesso che i produttori che vogliono essere parte del sistema Android devono impegnarsi a verificare e certificare che i loro prodotti sosterranno le app che operano su Android;  a suo dire, senza questo sistema, le app cesserebbero di funzionare allorché un tablet o uno smartphone viene sostituito con uno nuovo dello stesso produttore. Essa ha inoltre affermato che consente l’uso libero di Android da parte di chiunque, ma che i costi connessi con il mantenimento e sviluppo di tale sistema devono essere compensati con la vendita delle app e dei servizi distribuiti via Android.

Sulla base di questi parzialissimi e non del tutto chiari argomenti è ovviamente difficile fare delle previsioni sull’esito degli addebiti. In materia va comunque segnalato che l’approccio europeo alle pratiche leganti è tendenzialmente più rigoroso di quello adottato oltreoceano. Una tesi Chicago style, secondo la quale tali pratiche sarebbero sostanzialmente innocue, in quanto la duplicazione di un monopolio non porta comunque ad un incremento dei profitti monopolistici – ammesso e non concesso che corrisponda alla realtà dei mercati –  non potrebbe comunque trovare accoglimento nel quadro dell’art. 102 TFUE, che, come interpretato dalla Corte, vieta, in quanto abusivo, anche lo sfruttamento di un potere monopolistico (singolo o duplice che sia). Inoltre, se, in via generale, la concessione di incentivi finanziari per l’acquisto di propri prodotti o servizi è da ritenersi ammissibile nella misura in cui costituisce uno strumento concorrenziale, non v’è dubbio che se tali incentivi sono concessi a condizione di escludere i prodotti di altri concorrenti, essi risultano ben difficilmente giustificabili.

3. Ostacolo allo sviluppo di sistemi operativi Android ‘modificati’ (c.d. Android forks) concorrenti con Android.

In relazione al terzo tipo di pratica restrittiva della concorrenza rimproverata a Google, va ricordato che Android è un sistema operativo open-source, il che significa che può essere liberamente usato e sviluppato da chiunque al fine di creare un sistema Android ‘modificato’, il quale, potenzialmente,  può rappresentare un’alternativa ad Android stesso. Tali sistemi modificati sono noti in gergo come Android forks. Orbene, secondo quanto afferma la Commissione nella CA del 2016, una terza pratica commerciale che sarebbe stata posta in essere da Google consisterebbe nell’imporre ai produttori di smartphones e di tablets, al momento della concessione della licenza per Play Store e Google Search, un obbligo di non vendere prodotti che operano su piattaforme Android forks, obbligo che andrebbe sotto il nome di Anti-Fragmentation Agreement.

Evidentemente in tal modo Google ostacola lo sviluppo di Android forks virtualmente competitivi con Android; infatti l’accordo anti-frammentazione riduce grandemente la platea dei possibili clienti di Android forks, ostacolando la loro utilizzabilità commerciale sugli smartphones e i tablets. Il possibile effetto anticoncorrenziale è evidente: il mancato sviluppo di Android forks è funzionale al mantenimento e al rafforzamento della posizione di Android sul mercato dei sistemi operativi; questa posizione, a sua volta, costituisce la fonte del potere di mercato di Play Store, sul quale Google fa leva, non solo per estendere il suo controllo nel mercato dei servizi generali di ricerca, ma anche per proteggere la posizione di Android stesso, chiudendo in tal modo il cerchio.

Se anche questa volta la valorosa Commissione porterà a fortunato compimento un’altra “spaventevole e non mai immaginata avventura”, lo vedremo prossimamente sul web, “cercando con Google”.


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