Giudicato e diritto dell’Unione europea: un nuovo chiarimento dalla Corte di giustizia

  1. Con la sentenza 10 luglio 2014 – resa su domanda di pronuncia pregiudiziale ex art. 267 TFUE formulata dal Consiglio di Stato italiano (causa C-213/13, Pizzarotti) –, la Corte di giustizia è tornata a pronunciarsi in tema di rapporti tra giudicato nazionale e ordinamento dell’Unione europea.

Più precisamente, il giudice di Lussemburgo è stato chiamato a chiarire se il giudice nazionale – in questo caso il Consiglio di Stato italiano – possa ritenere inefficace il giudicato formatosi su una vicenda in materia di appalti pubblici, qualora consenta la sussistenza di una situazione giuridica contrastante con il diritto dell’Unione europea – in particolare con la direttiva 2004/18/CE del 31 marzo 2004, relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, forniture e servizi – o se, al contrario, sia possibile dare esecuzione ad un giudicato in contrasto con il diritto dell’Unione.

  1. Il rinvio pregiudiziale viene sollevato dal Consiglio di Stato italiano nell’ambito di una controversia tra l’impresa Pizzarotti & C. S.p.A. (di seguito: la “Pizzarotti”), da un lato, e il Comune di Bari, la Giunta comunale di Bari e il Consiglio comunale di Bari, dall’altro, in relazione alla pubblicazione di un bando di ricerca di mercato  per la progettazione e la realizzazione della nuova cittadella giudiziaria di Bari in modo da razionalizzare l’amministrazione e le risorse. Il bando richiedeva che gli offerenti si impegnassero ad avviare i lavori di costruzione delle opere entro il 31 dicembre 2003 e indicava le risorse pubbliche disponibili, cui bisognava aggiungere l’importo dei canoni già sostenuti dal Comune di Bari per la locazione degli immobili sede degli uffici giudiziari interessati dall’accorpamento.  Tra le proposte pervenute a seguito della pubblicazione del predetto bando, il comune di Bari selezionava quella della Pizzarotti. Successivamente, il Ministero della Giustizia comunicava al Comune una forte riduzione delle risorse pubbliche a disposizione chiedendo di verificare la disponibilità degli offerenti a realizzare comunque l’opera, nonostante il mutato quadro economico.  La Pizzarotti, favorevole a proseguire, su richiesta del Comune, riformulava la propria proposta. Nel 2004, veniva comunicato che il finanziamento pubblico era stato completamente eliminato: ciononostante, la Pizzarotti presentava una seconda proposta con la quale si offriva di realizzare comunque le opere destinate alla locazione da parte del Comune.. Questa seconda proposta rimaneva tuttavia priva di riscontro. La Pizzarotti si rivolgeva, quindi, al Tar  Puglia per far valere l’illegittimità del silenzio della pubblica amministrazione e conseguentemente l’obbligo del Comune di provvedere; ma il giudice respingeva  il suo ricorso. Il Consiglio di Stato, invece, adito in appello, dapprima con sentenza n. 4267/2007 e successivamente con le sentenze di esecuzione rispettivamente n. 3817/2008 e n. 2153/2010: i) accertava il perdurare dell’inerzia dell’amministrazione comunale; ii) conseguentemente imponeva di dare integrale esecuzione alla seconda proposta della Pizzarotti; iii) affermava la necessità, per il commissario ad acta – appositamente incaricato – di attivare le procedure occorrenti per l’esecuzione della sentenza.

Il commissario, però, disattendendo il disposto del Consiglio di Stato, poneva in essere tutte le attività necessarie per addivenire all’adozione, in data 23 aprile 2012, di una “variante urbanistica” al piano regolatore del Comune, relativa proprio ai terreni interessati dalla costruzione della cittadella giudiziaria oggetto dell’originario bando, impedendo, di fatto, l’adempimento dell’obbligo di prendere in locazione gli immobili oggetto dei lavori di Pizzarotti. Detta società si rivolgeva nuovamente  al Consiglio di Stato per violazione del principio dell’intangibilità del giudicato ex art. 2909 cod. civ. italiano (cfr. punto 25).

In tale contesto, il giudice del rinvio ha deciso di sospendere il giudizio dinanzi ad esso pendente, per sottoporre due questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia.

  1. Con la prima questione, il giudice a quo chiede alla Corte di giustizia «se lo stipulando contratto di locazione di cosa futura, anche sotto la forma ultima suggerita di atto di impegno a locare equivalga ad un appalto di lavori, sia pure con alcuni elementi caratteristici del contratto di locazione e, quindi, non possa essere ricompreso fra i contratti esclusi dalla disciplina di evidenza pubblica secondo l’art. 16 [della direttiva 2004/18]».

Preliminarmente all’esame nel merito della questione, il giudice di Lussemburgo chiarisce che la qualificazione di un’opera come appalto pubblico non rientra nella competenze nazionali, bensì è demandata al diritto dell’Unione (cfr. punto 40). Successivamente, riformulando la prima questione in funzione delle disposizioni del diritto dell’Unione applicabili ratione temporis alla controversia principale – e dunque richiamando le direttive 93/37 e 92/50, in luogo della direttiva 2004/18 erroneamente invocata dal giudice rimettente (direttive che si ritengono rilevanti nella specie perché contengono previsioni corrispondenti a quelle di cui all’art. 1,par. 2, lett. a) e b) e all’art. 16, lett. a) della direttiva 2004/18, rispettivamente dedicate a determinare la nozione di “appalto pubblico di lavori” e l’ambito di applicabilità della relativa disciplina) -, la Corte di giustizia ritiene che l’art. 1, lettera a), della direttiva 93/37 debba essere interpretato nel senso che un contratto che abbia per oggetto principale la realizzazione di un’opera che risponda alle esigenze formulate dall’amministrazione aggiudicatrice costituisce un appalto pubblico di lavori e non rientra, pertanto, nell’esclusione di cui all’articolo 1, lettera a), iii) della direttiva 92/50, anche quando comporti un impegno a locare l’opera di cui trattasi (cfr. punto 52).

Nel caso di specie, poiché lo stipulando contratto tra Comune e impresa riguardava la realizzazione di un’opera, seppure affiancata da un impegno a locare, la Corte ritiene di essere in presenza di un’aggiudicazione di appalti. Con la conseguenza che avrebbe dovuto trovare applicazione la direttiva 93/37. Ciò in particolare in ragione: i) dell’“oggetto principale del contratto” (cfr. punto 41) e ii) della presenza, nel corpo della proposta della Pizzarotti, di un progetto dettagliato finalizzato alla realizzazione dell’opera conformemente «alle esigenze specificatamente formulate dall’amministrazione aggiudicatrice» (cfr. punti 43-48).

Estesa in tal modo la disciplina degli appalti pubblici anche agli atti di impegni a locare immobili di prossima costruzione, la Corte di giustizia passa ad esaminare la seconda questione pregiudiziale, con cui le si richiede, sostanzialmente, se possa essere ritenuto inefficace il giudicato eventualmente formatosi su una decisione del giudice nazionale che abbia condotto ad una situazione contrastante con la normativa dell’Unione europea in materia di appalti pubblici di lavori – nel caso di specie, le decisioni rese del Consiglio di Stato imponevano in capo al Comune l’obbligo di stipulare con la Pizzarotti un contratto di “locazione” anziché “d’appalto”, dando così adito ad una situazione contrastante tra le stesse e la normativa comunitaria in tema di appalti pubblici (per una chiara ricostruzione della vicenda sul punto cfr. conclusioni dell’ avvocato generale Wahl presentate il 15 maggio 2014, spec. punto 89).

Premette innanzitutto la Corte che, stante l’assenza di normativa in materia, le modalità di attuazione del principio di intangibilità del giudicato rientrano nell’autonomia procedurale degli Stati membri pur nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività (secondo la giurisprudenza classica della Corte, che viene richiamata al punto 54). Avendo il giudice a quo specificato altresì che, a determinate condizioni, avrebbe potuto completare il disposto originario attraverso l’esecuzione di successive decisioni di attuazione (si tratta del c.d. “giudicato a formazione progressiva” ad appannaggio del giudice amministrativo italiano), la Corte prosegue quindi affermando l’onere in capo al giudice rimettente di dover preferire, tra le modalità di revisione della propria decisione coperta da giudicato, quella che, nel rispetto dei principi di equivalenza ed effettività, garantisca l’osservanza della normativa dell’Unione in materia di appalti di pubblici lavori (cfr. punto 56). Ciò solo se tale giudice ritenga sussistenti i presupposti per la revisione del provvedimento rilevante nella specie.

Infatti, precisa il giudice di Lussemburgo, il diritto dell’Unione «non impone a un giudice nazionale di disapplicare le norme procedurali interne che attribuiscono forza di giudicato a una pronuncia giurisdizionale, neanche quando ciò permetterebbe di porre rimedio a una situazione nazionale contrastante con detto diritto» (cfr. punto 59); ciò in quanto «il diritto dell’Unione non esige che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto offerta dalla Corte [di giustizia] posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, quest’ultimo ritorni necessariamente su tale decisione» (cfr. punto 60).

  1. Alla luce dei ragionamenti svolti, la Corte afferma, pertanto, il principio dell’intangibilità del giudicato interno, ad eccezione della sola ipotesi in cui le norme procedurali nazionali permettano all’organo giurisdizionale nazionale, per ripristinare la conformità della situazione interna alla normativa dell’Unione (cfr. punto 62), di poter intervenire sulla cosa giudicata, modificandola o integrandola (cfr. punto 64). In tal caso, infatti, il giudice nazionale di ultima istanza – che abbia statuito senza che prima fosse adita in via pregiudiziale la Corte di giustizia – deve completare la cosa giudicata costituita dalla decisione che ha condotto a una situazione contrastante con la normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici di lavori oppure ritornare su tale decisione, per tener conto dell’interpretazione di tale normativa offerta successivamente dal giudice lussemburghese.
  2. Concentrando in particolare la riflessione sul secondo quesito, non può non notarsi come la Corte – che si allinea alla soluzione espressa dall’avvocato generale Wahl – esplicitando e completando il ragionamento sotteso alle precedenti pronunce rese sui rapporti tra giudicato nazionale e diritto dell’Unione europea (cfr. la sentenza Lucchini, causa C-119/05 e la sentenza Fallimento Olimpiclub, causa C-2/08), circoscrive nettamente la cedevolezza del giudicato rispetto al diritto dell’Unione europea (cfr. punto 58), sancendo un principio che prima facie può apparire in contrasto con i propri precedenti, ma che, a ben vedere, rispetto a questi si pone in rapporto di specificazione.

Per evitare ogni fraintendimento rispetto alla sentenza Lucchini, la Corte di giustizia ha, infatti, precisato che quanto affermato in tale pronuncia riguardava «una situazione del tutto particolare, in cui erano in questione principi che disciplinano la ripartizione delle competenze tra gli Stati membri e l’Unione europea in materia di aiuti di Stato», dove valutazione della compatibilità dell’aiuto di stato con norme dell’Unione è rimessa alla competenza esclusiva della Commissione, essendo i giudici nazionali investiti unicamente del potere di valutarne la legalità. Solo alla luce di tali “estreme” peculiarità del caso di specie la Corte ha affermato – in quella circostanza – la primauté del diritto dell’Unione sui giudicati nazionali statuendo – come si ricorderà – «che il diritto dell’Unione osta all’applicazione di una disposizione nazionale, come l’articolo 2909 del codice civile italiano, che mira a consacrare il principio dell’intangibilità del giudicato, nei limiti in cui la sua applicazione impedirebbe il recupero di un aiuto di Stato concesso in violazione del diritto dell’Unione e dichiarato incompatibile con il mercato comune da una decisione della Commissione europea divenuta definitiva» (cfr. punto 61).

Ad una soluzione sostanzialmente analoga, la Corte di giustizia è giunta nel 2009, con la pronuncia relativa al caso Fallimento Olimpiclub, dove era stata chiamata a pronunciarsi nuovamente sulla compatibilità con il diritto comunitario dell’art. 2909 c.c. italiano, sebbene in una controversia relativa non ad una materia di competenza esclusiva, bensì di competenza concorrente. Anche in questo caso la Corte, pur formulando premesse conformi all’odierna pronuncia (cfr. punti 22 e 23 della sentenza), arriva a “sacrificare” il principio della certezza del diritto in favore del principio di effettività del diritto comunitario – sancendo la cedevolezza dell’autorità di cosa giudicata ogni qualvolta si presenti come condizione ostativa alla corretta applicazione da parte del giudice nazionale di una disposizione comunitaria-, unicamente a fronte delle peculiarità del caso di specie (in breve: il giudice del rinvio chiedeva se il diritto comunitario può rappresentare condizione ostativa all’applicazione  dell’art. 2909 del codice civile, in una controversia vertente sull’IVA afferente ad un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una sentenza definitiva, nel caso in cui la detta norma impedisca all’organo giudicante di prendere in considerazione le norme di diritto comunitario in materia di pratiche abusive legate alla medesima imposta).

Le “specificità del caso concreto” che hanno aperto la strada alle pronunce dirompenti rese nelle due predette occasioni, tuttavia, non si sono ripresentate nel caso in esame. Tale “assenza” ha quindi permesso alla Corte di giustizia di evitare un ulteriore scardinamento del principio dell’autorità di cosa giudicata, giungendo ad una soluzione che, si ritiene, potrà essere maggiormente condivisa dai processualcivilisti italiani (e non solo).

Agevolato dalle peculiarità della controversia principale e dalla formulazione del quesito pregiudiziale, il giudice di Lussemburgo ha elaborato una pronuncia caratterizzata da un maggior grado di generalità ed astrattezza, svolgendo il ruolo nomofilattico che gli è proprio, di custode e garante della corretta interpretazione del diritto –a riprova dell’importanza della veste del rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. Nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr. punto 58 della sentenza) si ricorda e riafferma l’importanza dell’autorità di cosa giudicata quale principio regolatore dei rapporti tra giudicato nazionale e diritto dell’Unione, in favore del quale risolvere il bilanciamento tra i diversi principi in “conflitto” – primato, certezza del diritto dell’Unione, da un lato, e certezza del diritto nazionale e buona amministrazione della giustizia, dall’altro lato.

Gli unici temperamenti a tale soluzione consistono,  quindi, i) nelle c.d. “peculiarità del caso di specie”, ovvero delle condizioni di manifesta violazione del diritto dell’Unione; ii) nel ritenersi, il giudice del rinvio investito del potere, conformemente alla disciplina procedurale nazionale, di completare la cosa giudicata contrastante con disposizioni comunitarie, ovvero di ritornare su di essa alla luce della pronuncia del giudice di Lussemburgo che dovesse successivamente essere resa. Senza che ciò possa rappresentare un obbligo per il giudice nazionale, a meno che già non sia previsto dalla normativa nazionale, in considerazione del fatto che, in virtù della richiamata autonomia procedurale degli Stati membri, non vi è nessuna previsione di diritto dell’Unione che imponga un siffatto obbligo al giudice nazionale.

Sia consentito, infine, ricordare come il ragionamento oggetto della pronuncia in commento non sia, a ben vedere, nuovo. Analoga impostazione logico-giuridica, infatti, è già stata avallata dalla Corte con riguardo ai rapporti tra le decisioni delle autorità amministrative nazionali divenute definitive e il diritto dell’Unione. Poiché la certezza del diritto rientra «tra i principi generali riconosciuti nell’ordinamento comunitario», che «non esige che un organo amministrativo sia, in linea di principio, obbligato a riesaminare una decisione amministrativa che ha acquisito tale carattere definitivo», anche di questa categoria di atti il giudice di Lussemburgo ha sancito la “tangibilità” solo in presenza di determinate e ben precise condizioni –in linea con quelle enucleate/individuate nella pronuncia in esame -, ovvero: i) che il giudice nazionale disponga, secondo il diritto nazionale, del potere di tornare sulla decisione nonostante l’intervenuta definitività della stessa; ii) che la decisione in questione sia diventata definitiva in seguito ad una sentenza di un giudice nazionale che statuisce in ultima istanza; iii) che tale sentenza, alla luce della giurisprudenza della Corte successiva alla medesima, risulti fondata su un’interpretazione errata del diritto comunitario adottata senza che la Corte di giustizia fosse stata adita a titolo pregiudiziale  (cfr. Kühne & Heitz, causa C-453/00, punti 24-27; Kempter, causa C-2/06, punti 36-39).


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