Espulsione dello straniero e rischio di trattamenti contrari all’art. 3 CEDU: la posizione del richiedente asilo esige un esame rigoroso e completo di tutti gli elementi.

Con le sentenze A.A. c. Francia (18039/11) e A.F. c. Francia (80086/13) pronunciate il 15 gennaio, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso di due cittadini del Sudan contro una decisione di espulsione da parte delle autorità francesi. A giudizio della Corte, l’esecuzione della misura di allontanamento verso il Paese d’origine – vista la grave situazione generale ivi presente e viste, in particolare, le circostanze e le implicazioni individuali dei due soggetti interessati – comporterebbe un serio rischio per gli stessi di incorrere nella tortura o in trattamenti inumani e degradanti proibiti dall’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU).

Le due sentenze della Corte irrompono sulla scena in un momento particolarmente delicato per la Francia sul versante dell’immigrazione e delle relative politiche. In un clima di sicurezza rafforzata e massima allerta contro il terrorismo, e ancora profondamente scossa dai terribili eventi di inizio anno e, in particolare, dall’attentato alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi, la Francia si trova a fare i conti con una non facile gestione del fenomeno dell’immigrazione. La crescente diffusione e il rafforzamento di un sentimento di avversione, se non anche di aperta ostilità, nei confronti degli immigrati, alimentato in particolare da alcuni schieramenti politici, le tensioni sociali nelle periferie, le questioni razziali e religiose, i problemi di integrazione degli immigrati delle ultime generazioni, le difficoltà e le inefficienze del sistema di gestione e accoglienza di migranti e richiedenti asilo sono solo alcuni degli elementi che testimoniano una fase delicata e complessa nella quale, tra l’altro, si sta cercando di attuare un percorso di riforma della disciplina relativa al diritto d’asilo francese.

 Le vicende all’esame della Corte

I casi sottoposti ai giudici di Strasburgo coinvolgono due cittadini originari del Sudan, precisamente della regione del Darfur e appartenenti entrambi a etnie non arabe, giunti in Francia in fuga dal proprio Paese dopo aver subito gravi e ripetute violenze da parte delle forze del regime al governo e da movimenti di combattenti musulmani filogovernativi.

Giova infatti ricordare, come peraltro fa la Corte nelle due sentenze, che la situazione generale in Sudan in riferimento ai diritti umani, come ben evidenziano rapporti e documenti di varie fonti internazionali, risulta estremamente seria e drammatica. Ciò è particolarmente vero per la regione del Darfur, in cui a tensioni di tipo militare e politico per il controllo delle preziose risorse petrolifere si sommano aspri e sanguinosi conflitti interni di tipo etnico e religioso.

Alla generale situazione di pericolosa instabilità del Paese di origine, nota poi la Corte, si aggiungono fattori di rischio individuali e specificamente riferibili ai due ricorrenti: l’appartenenza a tribù non arabe e il supposto legame con movimenti ribelli e di opposizione al regime che governa il Sudan.

Quanto al primo ricorrente, A.A., a causa dell’attività di opposizione al regime svolta da un suo fratello, alla quale tuttavia egli mai aveva preso parte attivamente, era più volte sospettato – e per questo ripetutamente imprigionato e torturato – di avere un legame con il Movimento per la Giustizia e l’Uguaglianza (JEM), gruppo organizzato di ribelli attivo in particolare nella regione del Darfur.

Il secondo ricorrente, A.F., studente universitario nella capitale sudanese, veniva più volte arrestato, posto in detenzione e torturato per via delle sue idee e della sua partecipazione ad alcune manifestazioni e a gruppi di discussione critici verso il regime di governo.

Entrambi i ricorrenti, costretti alla fuga dai continui atti persecutori del regime, raggiungevano così la Francia nel 2010. Quindi procedevano a fare domanda d’asilo, a sostegno della quale allegavano documentazione rilevante tra cui certificati medici che stabilivano la compatibilità di ferite e cicatrici presenti sul proprio corpo con gli atti di tortura e violenza che essi avevano affermato di aver subito in Sudan.

In entrambi i casi l’Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA) rigettava le richieste di protezione in quanto la ricostruzione dei fatti fornita dai richiedenti asilo risultava essere lacunosa, confusa e poco credibile a causa di diverse imprecisioni e incoerenze. La domanda veniva così portata davanti alla Corte nazionale del diritto d’asilo (CNDA), che in seconda istanza confermava la decisione di rigetto. Il ricorrente A.F., peraltro, tentando in seguito di proporre un’ulteriore domanda d’asilo sotto falsa identità, veniva arrestato e posto in detenzione amministrativa.

Fatti destinatari di un provvedimento di allontanamento dalla Francia, i ricorrenti, al fine di evitarne l’esecuzione, si rivolgevano ai giudici di Strasburgo per la concessione di una misura provvisoria ai sensi dell’art. 39 del regolamento della Corte, la quale indicava la sospensione dell’esecuzione del provvedimento in pendenza del processo dinnanzi alla stessa.

La decisione della Corte: la tutela dell’art. 3 CEDU

Le sentenze in commento risultano degne di particolare attenzione in quanto con esse la Corte, ponendosi sulla scia di una propria solida ed ormai pacifica giurisprudenza in tema di applicabilità dell’art. 3 CEDU alla materia delle espulsioni degli stranieri, rafforza la protezione del soggetto destinatario del provvedimento di allontanamento, rendendo effettiva la tutela dei suoi diritti fondamentali in particolare per il tramite di un’interpretazione rigorosa in tema di onere della prova quanto al rischio di trattamenti contrari all’art. 3.

La Corte infatti, come si vedrà meglio in seguito, con approccio pragmatico valorizza gli aspetti sostanziali e concreti nella prova della sussistenza di rischi derivanti dall’espulsione: se, sulla base di molteplici ed attendibili elementi, vi sono fondate ragioni per ritenere che sussistano – o non vi sono sufficienti garanzie per escludere – rischi di incorrere nei trattamenti vietati dall’art. 3 CEDU, lo Stato non può validamente giustificare il proprio provvedimento di allontanamento dello straniero.

Riprendendo così una propria linea interpretativa, sviluppata in modo emblematico nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia (27765/09), la Corte considera che, ove l’allegazione circa il rischio grave di trattamenti inumani o degradanti appaia adeguatamente sorretta, vista la portata inderogabile ed assoluta del divieto di tortura, il governo dello Stato coinvolto si troverà di fronte a una sorta di “scacco matto” contro cui le proprie argomentazioni difficilmente potranno apparire provviste di efficacia.

Ciò è particolarmente vero quando alle testimonianze e al racconto dei ricorrenti si associa la voce di diverse ed attendibili fonti quali organismi internazionali o enti attivi nella difesa dei diritti umani. Ancora una volta infatti, la Corte, confermando un proprio modus operandi già adottato in casi simili[si vedano gli altri casi espressamente richiamati dalla Corte, tra cui M.S.S. c. Belgio e Grecia (30696/09) e più di recente A.A. c. Svizzera (58802/12)], attribuisce grande peso all’attività di tali operatori del settore che, con i propri rapporti, indagini e studi, giocano ormai un ruolo sempre più determinante in favore della protezione dei richiedenti asilo.

Prima di sviluppare il proprio percorso argomentativo sul concetto chiave dell’onere probatorio, i giudici di Strasburgo richiamano però il fondamento della tutela accordata allo straniero sulla base dell’art. 3 della CEDU. In questo senso la Corte, nell’accogliere i ricorsi, ribadisce una propria consolidata giurisprudenza in tema di espulsione di stranieri, principio di non refoulement e, appunto, divieto di tortura. Sebbene, infatti, la CEDU non contenga disposizioni che tutelano direttamente ed esplicitamente lo straniero contro provvedimenti di espulsione (ad eccezione dell’art. 4 del Protocollo 4 che vieta le espulsioni collettive di stranieri ), una tale forma di protezione è stata garantita per via giurisprudenziale trovando il suo fondamento proprio nell’art. 3.

Anzi, a ben vedere, il percorso giurisprudenziale svolto sull’art. 3 rappresenta uno degli esempi più significativi dell’opera di “interpretazione dinamica” svolta dalla Corte sul testo della Convenzione, del processo di evoluzione e potenziamento dei suoi contenuti e dell’attuazione, per riprendere proprio le parole del preambolo della CEDU, di quello “sviluppo dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” necessario per mantenere vivo e al passo con i tempi questo strumento di protezione dei diritti fondamentali nato 65 anni fa.

E’ a partire dagli anni ’90 che la Corte sviluppa tale processo evolutivo, dando vita di “rimbalzo” a una tutela dello straniero fondata sull’art. 3 e sul principio di non refoulement. Senza contestare il diritto dello Stato di gestire e controllare l’ingresso, il soggiorno e l’allontanamento di soggetti stranieri sul proprio territorio, l’espulsione di uno straniero da verso un altro Stato può dar luogo alla responsabilità dello Stato autore del provvedimento di allontanamento qualora sussistano fondati motivi per ritenere che il soggetto in questione, se effettivamente espulso, sarebbe esposto al rischio di subire trattamenti contrari all’art. 3 nel Paese di destinazione.

In altri termini, uno Stato viola l’art. 3 se il suo atto (di estradizione, espulsione, respingimento) costituisce un elemento rilevante nella catena di eventi che portano il soggetto interessato a subire (il rischio di) condotte che integrino tortura o trattamenti inumani o degradanti nel Paese di destinazione. In questo modo lo Stato, procedendo all’espulsione dello straniero, si renderebbe complice, per così dire, della violazione (seppur indiretta) dell’art. 3 della CEDU.

Nelle sentenze in commento, richiamando la propria giurisprudenza sul punto, la Corte ribadisce tale assunto, sottolineando il carattere assoluto e inderogabile dell’art. 3, la cui protezione contro la tortura rappresenta un valore fondamentale e irrinunciabile di una società democratica.

In particolare: il profilo dell’onere della prova

Ciò premesso, la Corte dirige la sua attenzione e il suo ragionamento sul profilo dell’onere della prova e sulla sua ripartizione. Infatti, l’elemento cardine su cui si basa la tutela accordata dall’art. 3 è quello del rischio: chi invoca la protezione dell’art. 3 dovrà dimostrare di essere esposto a un rischio oggettivo, realistico e personale, di poter subire i trattamenti che tale norma proibisce. Pertanto, grava anzitutto sul ricorrente l’onere di provare in modo efficace la sussistenza del rischio di trattamenti contrari all’art. 3, spetterà poi al governo dello Stato coinvolto valutare gli elementi di prova forniti, eventualmente chiedendo chiarimenti e spiegazioni ulteriori che il soggetto sarà altrettanto tenuto a fornire.

Non è un caso, quindi, se gli argomenti portati in causa dal governo francese insistono proprio su questo punto: le autorità nazionali non hanno ritenuto di concedere la protezione ai due cittadini sudanesi in quanto, a loro giudizio, gli elementi forniti dagli stessi a sostegno delle proprie pretese risultavano inadeguati e insufficienti sul piano probatorio. In particolare, l’esposizione dei fatti, soprattutto se se ne confronta la versione fornita tra prima e seconda istanza, presenta incongruenze, difformità e imprecisioni sulla cronologia degli eventi che vanno a minare la credibilità complessiva del richiedente e quindi, inevitabilmente, ad incidere negativamente sull’esito della sua domanda di asilo.

Di fronte a simili argomentazioni, la Corte, premesso che ad essa non spetta, di norma, sostituire il proprio apprezzamento sui fatti di causa a quello delle giurisdizioni nazionali, quest’ultime essendo più vicine agli stessi e più idonee a fornirne una valutazione, detta alcune ulteriori e importanti precisazioni in tema di onere della prova.

Innanzitutto, se è vero che il ricorrente ha prima di tutto l’onere e l’interesse di fornire un impianto probatorio quanto più possibile solido e convincente, altrettanto vero, sottolinea la Corte, è che lo Stato ha il dovere di analizzare le prove con cura e di dissipare eventuali dubbi servendosi di tutte le circostanze e di tutti gli elementi a sua conoscenza al momento dell’espulsione. Il rischio di trattamenti contrari all’art. 3, infatti, va valutato con riferimento a un momento preciso, e l’analisi sulla credibilità e la plausibilità dello stesso, proprio perché è in gioco un principio di sommo valore come il divieto della tortura, va effettuata da parte dello Stato in modo rigoroso e attento, anche richiedendo, se del caso, di attivarsi in modo autonomo per ottenere chiarimenti e informazioni più approfondite.

E’ sulla base di questi generali e rilevanti principi in tema di onere della prova che la Corte conclude nel senso che, sebbene la ricostruzione dei fatti fornita dai ricorrenti presenti, effettivamente, elementi di incongruenza e imprecisione, questi sono riferibili ad aspetti non essenziali della vicenda e tali quindi da non minarne complessivamente la credibilità. In particolare, la Corte osserva che l’incertezza o l’inesattezza nel riportare la cronologia dei fatti non costituisce un’incoerenza grave, essendo la descrizione degli avvenimenti principali sempre stata costante e attendibile. Insomma alcuni errori o leggere incongruenze nei dettagli, o comunque in elementi non essenziali dei fatti, non possono automaticamente portare a concludere per la non autenticità del racconto reso dal richiedente asilo. Ciò a maggior ragione, aggiunge la Corte, nel caso di procedure prioritarie e accelerate che lasciano poco tempo al richiedente asilo per preparare gli elementi a sostegno della sua domanda, che spesso viene peraltro esaminata in modo eccessivamente frettoloso e sbrigativo.

A quest’ultimo proposito poi la Corte nota anche la problematica del difetto di motivazione nelle decisioni delle autorità francesi competenti a giudicare sulle domande d’asilo. Se infatti queste hanno riscontrato degli elementi di confusione e incongruenza nella ricostruzione dei fatti, circostanza idonea a sollevare legittimamente qualche perplessità sulla credibilità del richiedente asilo, hanno però mancato nel motivare adeguatamente le ragioni fondanti di tali dubbi.

Infine, a nulla vale, a giudizio della Corte, il richiamo del governo francese al fatto che, nel caso del ricorrente A.F., questi abbia tentato di introdurre fraudolentemente un’altra domanda d’asilo sotto falsa identità. Ciò non discredita il ricorrente e la sua posizione, anzi, osserva la Corte, il fatto che egli con questo secondo “tentativo” si riferisca agli stessi fattori di rischio invocati con la prima domanda d’asilo, non fa che confermare e rinforzare la credibilità della sua versione e finisce quindi, paradossalmente, con il giocare in suo favore.

In conclusione, con le sentenze in commento la Corte di Strasburgo reitera il concetto per cui le garanzie contenute nell’art. 3 CEDU, alla luce in particolare dell’interpretazione datane per via giurisprudenziale, hanno carattere assoluto, e la medesima disposizione assicura una protezione ampia, che va garantita indipendentemente dalla nazionalità o dalla situazione irregolare del soggetto coinvolto. Protezione che, proprio per il valore dei diritti in gioco, esige inoltre che nei confronti di chi la invoca si esegua un esame attento, scrupoloso e onesto.

In definitiva dunque la Corte ci dice che, soprattutto nel momento attuale in cui mai come oggi la pressione migratoria verso l’Unione europea ha raggiunto livelli di tale entità e in diversi Stati sentimenti di razzismo e xenofobia vanno diffondendosi o consolidandosi in modo allarmante, accogliere e tutelare chi è perseguitato è un dovere giuridico inderogabile. E la Corte, in occasione di queste due sentenze, lo ricorda fermamente soprattutto a un Paese come la Francia che, in tema di asilo e accoglienza, vanta una solida e antica tradizione giuridica e di pensiero, posto che già nella Costituzione francese del 1793 si proclamava che “Il popolo francese è l’amico e l’alleato naturale dei popoli liberi” e che “Esso dà asilo agli stranieri banditi dalla loro patria per la causa della libertà”.

Si tratta dunque di un principio di civiltà giuridica ben consolidato e di antica tradizione ma, si sa, repetita iuvant

Francesco Gatta


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