Da Strasburgo una condanna e un chiaro messaggio sul trattamento dei migranti: rispettare i diritti umani anche in situazioni di emergenza

Con sentenza del primo settembre 2015 – Khlaifia e altri c. Italia (ric. n. 16483/12) – la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per l’illegittima privazione della libertà di alcuni cittadini tunisini, per la loro detenzione in condizioni degradanti sull’Isola di Lampedusa e per l’espulsione collettiva degli stessi, in aperta violazione delle garanzie procedurali prescritte dalla CEDU.

 I fatti risalgono alla “Primavera Araba” del 2011 e al massiccio afflusso di migranti provenienti dalla Tunisia. Nel caso di specie i ricorrenti venivano privati della libertà personale in violazione delle forme di legge, posti nel Centro di Soccorso e Prima Accoglienza (CSPA) di Lampedusa – già versante in una critica situazione di sovraffollamento – infine espulsi senza possibilità di esperire alcun rimedio contro i provvedimenti emessi nei loro confronti.

Diverse le violazioni della CEDU accertate in capo all’Italia, a partire da quella dell’articolo 5 (diritto alla libertà): i migranti sono stati privati della libertà in modo arbitrario, in particolare non essendo stati informati dei motivi del provvedimento (art. 5 § 2) e non avendo avuto alcun modo di contestarne la legittimità tramite l’accesso a vie legali (art. 5 § 4).

In particolare è interessante notare come la Corte abbia rigettato le argomentazioni del Governo italiano per cui non si sarebbe avuta alcuna detenzione (e così nessuna privazione della libertà) in quanto i migranti furono posti in un Centro di Soccorso e Prima Accoglienza, vale a dire in una struttura che secondo l’ordinamento italiano è deputata alla ricezione e all’assistenza e non, appunto, alla detenzione. I migranti, insomma, sarebbero stati soccorsi e accolti, non imprigionati.

 Ma il discrimine tra accoglienza e detenzione, spiega la Corte, non può dipendere solo da un’astratta qualificazione giuridica. A nulla infatti rileva il nomen dato alla struttura dal diritto interno:che si tratti di CIE o di CSPA, è l’analisi della situazione concreta in cui il migrante si viene a trovare l’elemento determinante per accertare la violazione dei suoi diritti. Sicché la permanenza nella struttura di Lampedusa, per le caratteristiche fattuali assunte nel caso di specie (trattenimento prolungato, impossibilità di comunicare con l’esterno, mancanza di libertà di movimento, sorveglianza costante di polizia e forze dell’ordine) è assimilabile de facto a detenzione, integrando una violazione dell’art. 5 CEDU poiché la privazione della libertà fu posta in essere arbitrariamente e fuori dalle condizioni di legge.

 Quanto poi alle condizioni di detenzione nel CSPA di Lampedusa, la Corte, peraltro richiamando più volte anche la nota sentenza Torreggiani sulle carceri italiane, accerta la violazione dell’articolo 3 (divieto di trattamenti inumani e degradanti). Infatti, pur riconoscendo la situazione di emergenza dovuta all’eccezionale ondata migratoria di quel periodo e il conseguente sovraffollamento e le gravi difficoltà logistiche delle strutture di Lampedusa, la Corte afferma che simili fattori non possono comunque esonerare uno Stato dall’obbligo di garantire condizioni di detenzione compatibili con la dignità umana.

 Nonostante la situazione emergenziale quindi, una condanna “senza attenuanti” del sistema italiano di accoglienza dei migranti, la cui inadeguatezza e “le carenze sistemiche” erano del resto già state denunciate, seppur indirettamente, nel 2014 con la sentenza Tarakhel c. Svizzera (29217/12). L’art. 3 infatti, ribadisce con forza la Corte, rappresenta un elemento primordiale della stessa CEDU, uno dei valori fondamentali delle società democratiche che hanno formato lo stesso Consiglio d’Europa e non tollera mai nessuna deroga od eccezione.

Quanto, infine, all’espulsione dei ricorrenti, l’Italia è stata condannata (ancora una volta, dopo le sentenze Hirsii Jamaa [27765/09] e Sharifi [16643/09]) per la violazione dell’articolo 4, Protocollo 4 (divieto di espulsioni collettive di stranieri), avendo proceduto senza considerare la posizione individuale dei migranti e non avendo offerto loro nessun mezzo di tutela (art. 4, Prot. 4, combinato con l’art. 13, diritto a un ricorso effettivo).

 In conclusione, si tratta di una sentenza significativa che, seppur riferita a fatti del 2011, porta con sé indicazioni e insegnamenti di scottante attualità e che, soprattutto, manda un messaggio importante all’Italia e all’Europa: l’emergenza migratoria non può giustificare un sacrifico dei diritti fondamentali della persona umana.


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