Cittadinanza europea e diritto di eleggibilità dei cittadini “mobili” dell’Unione: le sentenze della Corte di giustizia nelle cause C-808/21 e C-814-21

  1. Il 24 novembre 2024 la Corte di giustizia si è pronunciata con due sentenze gemelle nelle cause C-808/21 e C-814/21 su due azioni d’infrazione promosse dalla Commissione nei confronti di Repubblica Ceca e Polonia, al fine di accertare la compatibilità con l’art. 22 TFUE di una normativa nazionale che riserva ai soli cittadini dello Stato membro – e non ai cittadini UE in esso residenti – il diritto a divenire membro di un partito politico.
    Secondo la Commissione, invero, la preclusione ai cosiddetti “cittadini mobili” dell’Unione di divenire membri di un partito politico nello Stato membro in cui risiedono limiterebbe la possibilità per gli stessi di essere eletti alle elezioni comunali o al Parlamento europeo, venendosi a creare, così, una disparità di trattamento rispetto ai cittadini cechi e polacchi.
    La Corte, interpretando l’art. 22 alla luce degli articoli 20 e 21 TFUE, dell’articolo 10 TUE nonché dell’articolo 12 della Carta, ha ritenuto che esso «esige che, affinché i cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro senza averne la cittadinanza possano esercitare in maniera effettiva il loro diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo in tale Stato membro, essi godano di un pari accesso ai mezzi di cui dispongono i cittadini di detto Stato membro ai fini dell’esercizio effettivo di tali diritti» (C-814/21, § 66). Pertanto, considerato che «la qualità di membro di un partito politico contribuisce sostanzialmente all’esercizio effettivo del diritto all’eleggibilità, quale conferito dall’articolo 22 TFUE», i cittadini mobili dell’Unione, al fine di vedere garantito il proprio diritto di voto e di eleggibilità nello Stato in cui risiedono, devono poter divenire membri di un partito politico nazionale, anche se di altro Stato membro.
    Le sentenze in commento presentano diversi elementi di rilevanza, sia sotto il profilo della definizione dei diritti politici ed elettorali dei cittadini mobili dell’Unione sia, da un punto di vista sistemico, per l’utilizzo che la Corte fa dell’art. 10 TUE per dare applicazione pratica al valore della democrazia scolpito nell’articolo 2 TUE.
  1. Quanto alla definizione del contenuto dei diritti politici ed elettorali, l’Avvocato generale nelle conclusioni relative alle due cause in esame interpretava l’art. 22 TFUE tenendo conto dei due pilastri su cui lo stesso si fonda, ovvero cittadinanza europea e democrazia rappresentativa. Sottolineava, in particolar modo, l’esistenza di un legame tra diritti elettorali e cittadinanza rinvenibile nel diritto primario sin dal Trattato di Maastricht e cristallizzatosi con il Trattato di Lisbona, nonché una loro stretta correlazione con i principi democratici di cui all’art. 10 TUE, quale espressione di una effettiva rappresentatività dei cittadini mobili dell’Unione (Conclusioni dell’Avvocato generale De La Tour, causa C-808/21, §§ 66-74).
    La stessa Corte, nello stabilire la portata dell’art. 22 TFUE, ne effettua una lettura combinata con l’art. 20 TFUE, ricollegando il diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo allo status di cittadino dell’Unione.
    Parallelamente, anticipando un passaggio che approfondirà successivamente, identifica una relazione tra l’art. 22 TFUE e l’art. 10 TUE, riconoscendo i diritti elettorali quali manifestazioni del principio della democrazia rappresentativa, direttamente riconducibile al valore della democrazia su cui l’Unione si fonda, ai sensi dell’art. 2 TUE.
    Venendo, poi, al ruolo dei partiti politici, la Corte non manca di richiamare l’art. 12 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione, posto a garanzia del diritto alla libertà di associazione a tutti i livelli, quale fondamento di una società democratica e pluralista. È proprio dal ruolo fondamentale dei partiti politici nell’espressione della volontà dei cittadini dell’Unione che deriverebbe, a parere della Corte, l’importanza della qualità di membro di un partito politico quale contributo sostanziale all’effettivo esercizio del diritto di eleggibilità stabilito dall’art. 22 TFUE.
    Se, dunque, l’obiettivo dell’art. 22 TFUE è quello di garantire ai cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro – pur senza averne la cittadinanza – la partecipazione al processo elettorale democratico di tale Stato membro, oltre che una parità di trattamento tra i cittadini dell’Unione, secondo la Corte, esso esigerebbe che, «affinché i cittadini dell’Unione residenti in uno Stato membro senza averne la cittadinanza possano esercitare in maniera effettiva il loro diritto di voto e di eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo in tale Stato membro, essi godano di pari accesso ai mezzi di cui dispongono i cittadini di detto Stato membro ai fini dell’esercizio effettivo di tali diritti» (C-808/21, § 127).
  1. Quanto, poi, all’esistenza di una disparità di trattamento dei cittadini mobili dell’Unione rispetto ai cittadini della Repubblica ceca e della Polonia, come anticipato dall’Avvocato generale nelle sue conclusioni, il problema si riduce al fatto che mentre i cittadini nazionali godono di due vie d’accesso all’elettorato passivo, sia come membri di un partito politico, sia come candidati indipendenti, i cittadini mobili possono presentarsi unicamente come candidati indipendenti. Tale disparità di trattamento, a parere della Corte, rientrerebbe tra quelle vietate dall’art. 22 TFUE.
  2. La Corte si è poi pronunciata sulla relazione tra il diritto di voto ed eleggibilità conferito dall’art. 22 TFUE ai cittadini mobili dell’Unione e il diritto degli Stati membri a preservare la propria identità nazionale. Repubblica ceca e Polonia, infatti, hanno addotto quale giustificazione alla previsione restrittiva proprio la protezione del sistema politico e costituzionale nazionale, considerando i partiti una piattaforma chiave per l’attività politica a livello nazionale.
    Indubbiamente, appare significativo che, proprio in relazione ad una interpretazione restrittiva del concetto di identità nazionale da parte di Repubblica Ceca e Polonia, la Corte abbia scelto di richiamare un valore fondante dell’Unione europea quale il principio democratico, sancito dall’art. 2 TUE, sottolineandone innanzitutto la portata vincolante e, in secondo luogo, individuandone un precipitato di concreta ed immediata applicazione nell’art. 10 TUE.
    Alla luce di tale lettura combinata, la Corte conclude che non si possa ritenere che «il fatto di consentire che tali cittadini dell’Unione diventino membri di un partito o di un movimento politico nel loro Stato membro di residenza al fine di attuare pienamente i principi di democrazia e di parità di trattamento pregiudichi l’identità nazionale di tale Stato membro”. Al contrario, garantendo ai cittadini mobili il diritto di voto ed eleggibilità alle elezioni comunali e del Parlamento europeo alle stesse condizioni dei cittadini dello Stato membro, “l’art. 22 traduce i principi della democrazia e della parità di trattamento dei cittadini dell’Unione, principi che sono insiti nell’identità e nei valori comuni dell’Unione» (C-808/21, §§ 162-163).
    Tale passaggio, fornendo un’interpretazione sistemica dell’art. 22 TFUE in relazione agli artt. 10 e 2 TUE, parrebbe voler richiamare, fra le righe, quanto già avvenuto per il valore della rule of law in relazione all’art. 19 TUE nel caso Associação Sindical dos Juízes Portugueses, applicando il medesimo schema ad un altro pilastro del diritto eurounitario: la democrazia. L’uso strumentale dell’art. 2 TUE da parte della Corte, invero, sembrerebbe volere aprire una strada all’applicazione del principio democratico mediante l’art. 10 TUE, definendo degli standard democratici minimi che gli Stati devono necessariamente soddisfare per essere membri dell’Unione europea.
    Le sentenze in commento rappresentano solo la prima pietra di un percorso verso una piena e completa “giustiziabilità” del principio democratico che, ad oggi, presenta diverse questioni aperte. Tra queste spiccano indubbiamente la definizione delle obbligazioni positive che graverebbero sugli Stati ai sensi dell’art. 10 TUE al fine di dare concreta espressione al valore della democrazia sancito dall’art. 2 TUE, nonché l’individuazione, a livello nazionale, delle istituzioni di riferimento per la loro concreta implementazione.
  1. Da ultimo, il tema del riconoscimento dei diritti elettorali dei cosiddetti “cittadini mobili”, così come interpretato dalla Corte di giustizia, apre a riflessioni in relazione ai diritti elettorali dei cittadini extra-UE residenti stabilmente in uno Stato membro. Se, infatti, diversi Stati UE, come Irlanda, Svezia, Danimarca, Paesi Bassi, Lussemburgo e Belgio, riconoscono tale diritto come separato dal concetto di cittadinanza e, dunque, correlato a quello di residenza stabile, altri Stati, come l’Italia, continuano a ritenere l’esercizio di tali diritti esclusivamente derivante dallo status civitatis. Per quanto riguarda l’ordinamento italiano, invero, il baluardo interno che si frapporrebbe, secondo alcuni, ad una estensione del voto amministrativo agli stranieri stabilmente residenti sarebbe da individuarsi nell’art. 48 della Costituzione, secondo il quale «sono elettori tutti i cittadini […] che hanno raggiunto la maggiore età». Tale disposizione è stata sinora oggetto di una interpretazione formalistica secondo cui solamente i cittadini italiani sarebbero titolari del diritto di voto. Eppure, una simile lettura non è stata d’ostacolo al riconoscimento, in attuazione degli artt. 39 e 40 della Carta di Nizza e dell’art. 10 TUE, del diritto di voto amministrativo locale ai cittadini UE, non italiani, residenti nel nostro Paese.
  2. Sin dal Programma di Tampere del 1999, l’Unione ha dichiarato l’intenzione di adottare una politica di progressiva equiparazione tra cittadini comunitari e cittadini di paesi terzi, ponendo il principio di equo trattamento come uno dei pilastri della politica migratoria. In tema di estensione del suffragio ai cittadini extra-UE, l’Unione ha riconosciuto l’importanza della cittadinanza civile quale veicolo per la creazione di un senso di appartenenza e di comunità, incentivando l’apertura nei confronti degli stranieri del diritto di voto nelle elezioni locali ed europee (risoluzione del Parlamento europeo su immigrazione, integrazione e occupazione del gennaio 2004, § 33). A conferma di questa intenzione di progressivo riavvicinamento era stata ipotizzata anche l’istituzione di una cittadinanza civica che, tuttavia, non trovando un effettivo riscontro nelle politiche dei singoli Stati membri, non è stata più portata avanti.
    Invero, come dimostrano gli esempi di Repubblica ceca e Polonia qui in analisi, l’atteggiamento di alcuni Stati membri, volto a preservare l’identità nazionale anche in relazione a diritti acquisiti e consolidati come quelli dei cittadini mobili dell’Unione, è ben lontano da una possibile apertura del concetto di cittadinanza ai cittadini di paesi terzi, ancorché stabilmente residenti nell’Unione.