Brexit, MAE e il cielo d’Irlanda: le conclusioni dell’avvocato generale Szpunar nella causa R O

I. Introduzione: Brexit e mandato d’arresto europeo

Nel White Paper sul futuro delle relazioni tra Regno Unito e Unione europea (UE), il governo britannico ha sottolineato come, nel corso del tempo, l’UE abbia sviluppato una serie di strumenti attraverso i quali far fronte alle sfide poste dalla criminalità transnazionale, soprattutto di matrice terroristica. Tali strumenti favoriscono interventi di natura preventiva che garantiscono la sicurezza dei consociati ed è per tale motivo che il Regno Unito aspira a mantenere la propria partecipazione in essi, soprattutto per quel che riguarda lo scambio di informazioni quanto ai viaggi di passeggeri di voli aerei (direttiva (UE) 2016/681), i meccanismi di allerta di forze di polizia e di frontiera (regolamento (CE) 1987/2006), il sistema di informazione sui casellari giudiziari (decisione 2009/316/GAI), DNA, dati dattiloscopici e dati di immatricolazione veicoli (decisione 2008/615/GAI), le agenzie Europol (da ultimo, regolamento (UE) 2016/794) e Eurojust (istituito con decisione 2002/187/GAI, ma con riferimento al quale è ormai prossima la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di un nuovo regolamento). Tra le questioni di maggiori rilievo, vi è anche quella relativa al mandato d’arresto europeo (decisione quadro 2002/584/GAI). Stando ai dati forniti dal Governo di Sua Maestà nella suddetta pubblicazione, dal 2009 in poi, attraverso l’emissione di MAE, le forze di polizia britanniche hanno arrestato più di dodicimila persone e per ogni persona arrestata sulla base di un mandato emesso dal Regno Unito, otto persone sono state arrestate nel Regno Unito a partire da mandati emessi in altri Stati membri. I meccanismi di estradizione in vigore con Stati terzi hanno dato prova di non essere altrettanto efficienti, perciò il Governo ha interesse a raggiungere un accordo che permetta di mantenere l’accesso a questo meccanismo di cooperazione.

Da parte dell’Unione, non pare esservi la volontà di accogliere tale richiesta. Infatti, dall’articolo 58, paragrafo 1, lettera b) della versione più recente della bozza di accordo di recesso, risulta che l’UE mira a ottenere che la decisione quadro sul MAE continui ad applicarsi, dopo la Brexit, soltanto con riferimento ai casi di soggetti arrestati anteriormente alla conclusione del periodo di transizione. Anche in recenti dichiarazioni, il capo negoziatore della Commissione, Michel Barnier, ha escluso che uno Stato possa essere parte del MAE dopo l’uscita dall’UE, mentre ha ammesso la possibilità di arrivare alla conclusione di uno specifico accordo di estradizione tra l’UE e il Regno Unito.

II. Le questioni pregiudiziali sollevate dai giudici irlandesi e le conclusioni dell’avvocato Generale Szpunar

È in tale contesto che si collocano le domande di pronuncia pregiudiziale proposte dalla Corte Suprema (su cui v. Cristina Sáenz Pérez) e dall’Alta Corte d’Irlanda al fine di stabilire se sia possibile rifiutare la consegna alle autorità britanniche di due destinatari di MAE (rispettivamente, esecutivo e processuale) in ragione della Brexit. Propriamente, i giudici irlandesi intendono comprendere se il fatto che parte delle pene (nel secondo caso, eventualmente inflitte) verrà scontata successivamente all’uscita del Regno Unito dall’UE possa assumere un qualche rilievo al fine della mancata esecuzione del MAE in ragione della tutela dei diritti fondamentali dei soggetti da consegnare, soprattutto per quanto attiene al divieto di trattamenti inumani o degradanti.

Con riferimento alle questioni riferite da parte della Corte Suprema, ad oggi si registra solamente un’ordinanza con la quale la Corte di giustizia ha escluso l’applicazione delle regole relative al procedimento accelerato, non essendo dimostrata la sussistenza di circostanze eccezionali relative al caso concreto che giustifichino il ricorso a tale procedura (causa C-191/18, KN).

Invece, per quel che riguarda le questioni sollevate dall’Alta Corte, l’avvocato generale (AG) Szpunar ha presentato le proprie conclusioni il 7 agosto 2018. Secondo l’AG, deve essere respinta la tesi, pure sostenuta dalla difesa del soggetto destinatario del MAE, secondo la quale la notifica di recesso ai sensi dell’articolo 50 del Trattato sull’Unione europea (TUE) costituirebbe una circostanza eccezionale tale da erodere fatalmente il principio della fiducia reciproca. Infatti, per quanto la scelta di abbandonare l’Unione possa costituire un’eccezione rispetto alla storia e ai fini del processo di integrazione europea, si tratta in ogni caso di una possibilità espressamente contemplata dal TUE che, ove venisse accolta una diversa interpretazione, verrebbe privata di ogni effetto utile (punti 50-54).

Ulteriormente, è da considerare come la decisione di recedere dall’UE non implichi la rinuncia allo Stato di diritto e alla tutela dei diritti fondamentali. Pertanto, le autorità giudiziarie dello Stato di esecuzione possono presumere che lo Stato emittente rispetterà il contenuto essenziale della decisione quadro anche a seguito dell’uscita dall’Unione, a meno che non sussistano elementi concreti idonei a dimostrare il contrario, il che permetterà di non eseguire il MAE (punti 65 e 70).

Sotto questo punto di vista, non assume rilievo neppure il fatto che, successivamente alla Brexit, la Corte di giustizia non sarà più competente a pronunciarsi in relazione a situazioni del genere. Infatti, ai sensi dell’articolo 10, paragrafi 1 e 3, del protocollo n. 36 sulle disposizioni transitorie allegato ai Trattati, come già accadeva nel sistema del terzo pilastro, per i primi cinque anni successivi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la Corte di giustizia non ha potuto esercitare alcuna competenza pregiudiziale in relazione alla cooperazione giudiziaria in materia penale e alla cooperazione di polizia (sul tema, si vedano i contributi di Thérèse Blanchet e di Valsamis Mitsilegas). Pertanto, se questioni come quella in oggetto fossero state sollevate durante il menzionato periodo transitorio, anche in quell’ipotesi la Corte di giustizia non si sarebbe potuta pronunciare, senza che ciò potesse portare a ritenere che fosse in atto una negazione dello Stato di diritto (punti 74-76).

In ragione di tali argomentazioni, a opinione dell’AG, la notifica di recesso non influisce sulla valutazione giuridica che deve essere svolta dalle autorità giudiziarie irlandesi quanto all’esecuzione di un MAE.

III. Una vittoria inutile in vista del post-Brexit scenario

Il ragionamento svolto dall’AG appare difficilmente contestabile, fondato com’è sull’assunto che, fino al 29 marzo 2019, il Regno Unito continuerà a essere uno Stato membro dell’Unione europea. Pertanto, i diritti e gli obblighi derivanti dalla partecipazione al processo di integrazione europea troveranno sicuramente applicazione nei suoi confronti fino a quella data, sic et simpliciter.

Tuttavia, vi sono ragioni per ritenere che quanto affermato dall’AG – ove confermato dalla Corte di giustizia – rappresenterà, dal punto di vista del Regno Unito, una vittoria per la quale vi sarà poco da rallegrarsi, dato che il suo effetto, allo stato attuale delle cose, sarà soltanto quello di ritardare l’inevitabile. Infatti, considerate le posizioni del Governo britannico e della Commissione di cui si è detto supra e la distanza che le contraddistingue, è da escludere che, dopo la Brexit, il Regno Unito potrà continuare a beneficiare del meccanismo di cooperazione di cui alla decisione quadro sul MAE. Come detto, la conclusione di un accordo ad hoc è già stata avanzata come ipotesi, ma non appare di pronta realizzazione. Rimane la possibilità di un ritorno alla Convenzione europea di estradizione del 1957, conclusa nell’ambito del Consiglio d’Europa e ratificata – tra gli altri – da tutti gli Stati membri dell’UE, la quale, tuttavia, delinea una procedura di consegna di natura politica, e non giudiziaria, con la conseguente perdita del carattere di automatismo proprio del MAE (v. J. R. Spencer, EU criminal law, in C. Barnard, S. Peers (eds.), European Union Law, Oxford, 2017, p. 761 ss.). Il che rappresenta, senza dubbio, un arretramento rispetto alla situazione esistente.

Vi è, però, anche altro da considerare. Nelle recenti sentenze Petruhin (causa C-182/15)e Pisciotti (causa C-191/16), la Corte di giustizia si è confrontata con i casi di cittadini europei destinatari di richieste di estradizione da parte di Stati terzi e tratti in arresto in uno Stato membro diverso da quello di cittadinanza. Tali casi rientrano nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, dato l’esercizio della libertà di circolazione da parte degli estradandi. Ne consegue che le previsioni della Carta dei diritti fondamentali trovano validamente applicazione (causa C-617/10, Åkerberg Fransson). Alla luce di ciò, spetta all’autorità giudiziaria dello Stato richiesto verificare la sussistenza di rischi quanto alla protezione dei diritti fondamentali (nei due casi richiamati, il divieto di trattamenti inumani o degradanti) nello Stato terzo, fondando la propria valutazione su elementi oggettivi, attendibili e debitamente aggiornati, coerentemente all’insegnamento della sentenza Aranyosi e Căldăraru (cause riunite C-404/15 e C-659/15 PPU).

Deriva da tale orientamento che l’analisi quanto alla tutela dei diritti fondamentali negli Stati terzi debba essere condotta sulla base degli standard propri dell’Unione europea – segnatamente, la Carta dei diritti fondamentali – e che, pertanto, gli Stati terzi saranno tenuti a conformarsi a tali standard, ove intendano ottenere la consegna dei destinatari della richiesta di estradizione.

Ciò implica che, divenuto Stato terzo, il Regno Unito non potrà non continuare ad adeguarsi ai parametri dell’Unione in materia di diritti e, soprattutto, all’interpretazione che la Corte di giustizia vorrà fornire al riguardo, con un evidente effetto paradossale quanto alla ragione principale che ha condotto alla scelta di uscire dall’UE: ossia, il recupero dell’asseritamente perduta sovranità nazionale, mediante sottrazione al sindacato giurisdizionale della Corte.


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