Ancora lontani dalla effettiva applicazione della legge sull’aborto? Il Comitato europeo dei diritti sociali “bacchetta” di nuovo l’Italia

1. Oggetto del reclamo

In data 11 Aprile 2016, il Comitato Europeo dei diritti sociali (“CEDS”) ha reso note le motivazioni in base alle quali, il 12 Ottobre 2015, ha adottato una decisione di accertamento della violazione di alcuni diritti contemplati dalla Carta sociale Europea (la “Carta”) da parte dell’Italia con riferimento all’applicazione della legge in tema di interruzione volontaria di gravidanza (legge 194/1978). Il Comitato si è pronunciato a seguito di un reclamo (n.91/2013) presentato dalla Confederazione Generale Italiana del Lavoro (“CGIL”) secondo cui, a seguito del sempre più elevato numero di medici, anestesisti e personale sanitario che, in forza dell’art. 9 della l.194/1978, avendo sollevato obiezione di coscienza è esonerato dalle procedure abortive, il servizio sanitario italiano non garantirebbe, nel suo complesso, il diritto alla salute delle donne richiedenti interruzione di gravidanza, ai sensi dell’art. 11 della Carta. Più nel dettaglio, la CGIL ha sostenuto che, indipendentemente dal diritto individuale dei medici obiettori di astenersi da tali pratiche, le autorità pubbliche ed il legislatore non avrebbero provveduto, nonostante fossero obbligati in tal senso, ad un’adeguata implementazione dell’art. 9 comma 4 l.194/1978, secondo cui: “Gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti in ogni caso ad assicurare […] l’effettuazione degli interventi di interruzione della gravidanza”, così impedendo, di fatto, un effettivo accesso, da parte di tutte le donne, alle procedure abortive in strutture sanitarie pubbliche. Il reclamo aveva quindi la precipua finalità di chiedere che venisse data attuazione al citato articolo della legge italiana onde garantire l’effettiva erogazione dei servizi di interruzione di gravidanza. Si noti, tuttavia, che il reclamo della CGIL è stato fondato, oltre che sul diritto alla salute delle donne (art. 11 Carta), anche sul diritto del personale non obiettore a condizioni di lavoro non discriminatorie (artt. 1, 2, 3, 26 della Carta anche in combinato disposto con la clausola E, relativa al principio di non discriminazione). Infatti, la ricorrente ha lamentato che i medici non obiettori sarebbero sfavoriti, rispetto ai colleghi, in termini di carico di lavoro (considerata appunto l’esiguità del loro numero), opportunità di avanzamento in carriera, dignità rispetto alle loro scelte, condizioni di salute e sicurezza.

2. Accesso all’aborto e diritto alla salute della gestante

Con il primo motivo di reclamo, la CGIL ha lamentato violazione dell’art. 11 della Carta, la quale impegna gli Stati ad assicurare “l’effettivo esercizio del diritto alla protezione della salute”. A riguardo, il Comitato ha rilevato, sulla base degli elementi prodotti dalla ricorrente, che vi sono molteplici fattori ostativi rispetto a un effettivo e libero accesso delle donne alle pratiche interruttive di gravidanza, in particolare per coloro che si trovano svantaggiate da un punto di vista economico o, comunque, ubicate in aree meno attrezzate quanto a personale sanitario addetto. Il Comitato ha, infatti, osservato, accogliendo sostanzialmente i rilievi della CGIL: (i) che vi è stato un recente e costante calo degli ospedali e delle case di cura ove l’aborto è praticato, (ii) che in molti ospedali, pur essendovi un reparto di ginecologia, tutti i ginecologi sono obiettori, oppure uno solo non lo è, (iii) che vi è un’evidente sproporzione tra le tante richieste di interruzione della gravidanza e l’esiguo numero di medici non obiettori disponibili (con il rischio di creare estese zone geografiche dove il servizio medico dell’aborto non è disponibile), (iv) che i tempi di attesa per accedere a tale servizio sono troppo lunghi, (v) che l’interruzione di gravidanza rischia di essere differita o sospesa in alcune strutture ogniqualvolta il medico incaricato sia ammalato, in vacanza o prossimo alla pensione, (vi) che si registrano casi in cui il personale medico obiettore si rifiuta di fornire le cure necessarie alla degente prima o dopo l’aborto [§ 118 – § 174]. Tali presentati fatti sembrano quindi minare la sicurezza della gestante che, alla luce di tali difficoltà nell’accedere a un servizio che dovrebbe essere garantito, a norma di legge, dallo Stato, potrebbe scegliere di abortire clandestinamente, rischiando così di incorrere in gravi pericoli per la propria integrità fisica. Si ricordi, a riguardo, che una delle ragioni che ha portato all’introduzione della l.194/1978 è stata proprio la volontà di contrastare il fenomeno dei c.d. “cucchiai d’oro”, ossia di quei medici che praticavano gli aborti, in dispregio dei divieti di legge (l’aborto costituiva allora fattispecie di reato) in cliniche private e a carissimo prezzo, facendo della salute della donna un lusso per pochi. Nel panorama antecedente l’introduzione della l.194/78, il fenomeno degli aborti clandestini costituiva infatti una vera e propria piaga sociale: si stimavano più di 250.000 interruzioni di gravidanza annue “all’ombra” con un numero altrettanto alto di donne che incorrevano in complicanze post operatorie, dovute al fatto che gli interventi clandestini avvenivano spesso in condizioni ambientali inidonee e igienicamente precarie. Il Comitato ha quindi rilevato che, ad oggi, in Italia, pur a molti anni dalla legalizzazione dell’aborto, sembra palesarsi un’oggettiva e tendenziale difficoltà – per lo meno in diverse realtà – all’accesso a tale pratica (nei limiti di legge), nonostante sia prevista ex lege la necessaria e indiscriminata evasione di tutte le richieste di interruzione di gravidanza [§190 lettera a) – § 208]. In conclusione, il fatto che una donna gestante possa, allo stato attuale, incorrere nei predetti rischi per la sua salute a causa della sua difficoltà ad accedere all’aborto integra, ad avviso del Comitato, violazione del diritto alla protezione della salute ex art. 11 della Carta [§193].

3. La triplice discriminazione nell’accesso alle pratiche interruttive di gravidanza

Anche il secondo motivo di ricorso, incentrato sull’art. E della Carta Sociale (“Il godimento dei diritti riconosciuti nella presente Carta deve essere garantito senza qualsiasi distinzione basata in particolare sulla razza, il colore della pelle, il sesso, la lingua, la religione, le opinioni politiche o ogni altra opinione […]”) è stato accolto dal Comitato, il quale ha riscontrato una doppia ingiustificata discriminazione in capo alle donne che richiedano di interrompere la gravidanza in Italia [§205]. In primis, la situazione di svantaggio, di natura socio economica e territoriale, riguarda quelle donne che, trovandosi in luoghi dove è particolarmente elevato il numero di medici obiettori di coscienza, non possono accedere, in condizione di parità con le altre, ai servizi previsti dalla l. 194/1978. In tali contesti, particolarmente svantaggiate sono le gestanti che, non essendo dotate di rilevanti mezzi economici, hanno possibilità di mobilità molto ridotte rispetto a quelle che, invece, possono comunque permettersi di abortire in zone d’Italia, o anche altri Stati, molto più strutturati in tale ambito [§209]. In secundis, le gestanti che vogliono esercitare i diritti garantiti dalla legge sono evidentemente svantaggiate rispetto alla generalità delle persone che accedono a generiche prestazioni sanitarie, dato che l’interruzione di gravidanza può, per le suesposte ragioni, divenire un servizio sanitario meno accessibile degli altri [§211]. Si può infine ravvisare anche una situazione di svantaggio legata alla mera appartenenza al genere sessuale femminile, posto che lo stato di gravidanza riguarda evidentemente non tanto gli uomini, quanto le donne e i loro corpi. Ne deriva pertanto che l’accesso delle gestanti al diritto di interrompere la gravidanza viene a dipendere da condizioni soggettive, non essendo egualmente garantito a tutte le donne, senza che tale disparità di trattamento trovi fondamento in particolari e giustificate ragioni di interesse pubblico [§210]. Tale diversità di trattamento, come ben sottolineato dal Comitato, viene allora ad assumere i connotati di vera e propria discriminazione, in violazione del combinato disposto di cui agli art. 11 ed E della Carta [§213].

4. I profili giuslavoristici del reclamo CGIL

I successivi motivi di reclamo della CGIL, solo in parte accolti dal Comitato (vedi infra), riguardano, invece, profili prettamente giuslavoristici, legati alle particolari condizioni di lavoro discriminatorie sofferte dal personale non obiettore. Premessa comune a tutti i ricorsi è che tali medici sono un numero decisamente esiguo rispetto alla totalità dei ginecologi operanti presso strutture ospedaliere pubbliche. A riguardo, la CGIL evidenzia, attraverso un suo dettagliato report del 2011, come la percentuale totale di ginecologi obiettori sia particolarmente elevata, specialmente nelle zone del Sud Italia: l’85.2% in Basilicata, l’83.9% in Campania, l’82.9% in Molise, l’81.7% in Sicilia [§99]. La CGIL ha quindi chiesto, con tal ricorsi, una modifica legislativa atta a garantire, da una parte, maggiori garanzie per i servizi di interruzione di gravidanza alle donne che li richiedano e, dall’altra, condizioni di lavoro non discriminatorie per i medici addetti a tali interventi.

 5. Discriminazioni tra medici obiettori e non

In primis, la ricorrente lamenta che l’insufficiente numero di addetti alle interruzioni di gravidanza non può che avere dei riflessi in termini di eccessivo carico di lavoro in capo a questi; infatti, come messo in evidenza anche dalla Libera Associazione Italiana Ginecologi per Applicazione legge 194 (“LAIGA”), attraverso una sua pubblicazione (“Notes on the application of the Act No. 194/1978 in Italy”), capita spesso che i ginecologi non obiettori, presenti in numero insufficiente, debbano svolgere anche compiti per i quali dovrebbero invece essere preposti gli anestesisti e gli infermieri, con un conseguente aumento sia di responsabilità che di stress. Inoltre, proprio in forza del già più volte citato art.9 comma 4, l.194/1978 (espunto per la parte inerente: “[…] La regione ne controlla e garantisce l’attuazione (dei servizi di interruzione di gravidanza) anche attraverso la mobilità del personale”) tali ginecologi sono spesso costretti a spostarsi, ai fini dei loro interventi, in strutture diverse da quelle di loro appartenenza, divenendo, in alcuni casi, quasi dei lavoratori pendolari [§221]. Infine, da diverse testimonianze prodotte dalla ricorrente, emerge come i medici non obiettori siano discriminati in termini di progressione di carriera, prospettive retributive e trattamento rispetto agli altri colleghi, tanto da essere fortemente incentivati alla opportunistica decisione di non effettuare più alcun tipo di aborto (circostanza che andrebbe a rendere ancor più difficoltoso il diritto delle gestanti ad accedere ai loro diritti garantiti dalla legge) [§223]. Si noti, da ultimo, che tale personale addetto, essendo obbligato ad eseguire, nella prassi, sempre il solo intervento interruttivo di gravidanza, non ha nemmeno la possibilità di maturare diverse competenze professionali per le quali pur è stato formato. Pertanto, dai molteplici e circostanziati elementi di prova presentati, il Comitato ha ritenuto integrata una non giustificata disparità di trattamento tra personale obiettore e non, tale da costituire discriminazione, in violazione dell’articolo 1 comma 2 della Carta, secondo cui: “Per garantire l’effettivo esercizio del diritto al lavoro, le parti s’impegnano a tutelare in modo efficace il diritto del lavoratore di guadagnarsi la vita con un lavoro liberamente intrapreso [§246].”

6. Dignità sul lavoro e medici non obiettori

In secundis, la ricorrente ha fornito evidenza di una situazione di vera e propria pressione morale, subita dai medici non obiettori, da parte dei colleghi, al fine di isolarli e di spingerli a sospendere il loro prestato servizio di interruzione di gravidanza. Da diverse testimonianze, in particolare quella del Dott. Scassellati (Ginecologo dell’Ospedale San Camillo), emerge come, sempre più, i pochi medici che effettuano aborti siano sottoposti a continuo attacco che, in molte circostanze, assume gli aspetti di vero e proprio mobbing. Inoltre, sempre secondo le prodotte testimonianze, tali medici, il cui numero è costantemente in discesa, sono continuamente chiamati a giustificare il loro operato nonostante questo rappresenti fondamento della tutela nell’esercizio, da parte delle donne, di un diritto sancito e garantito ex l.194/1978 [§ 295]. A riguardo, il Comitato, preso atto che lo Stato italiano non ha adempiuto all’obbligo di prendere misure che potessero contrastare fenomeni di pressioni morali sul luogo di lavoro da parte di categorie esposte, ha ritenuto violato l’art. 26 comma 2 della Carta, secondo cui: “Per assicurare l’effettivo esercizio del diritto di tutti i lavoratori alla protezione della loro dignità sul lavoro, le parti s’impegnano, in consultazione con le organizzazioni di datori di lavoro e di lavoratori a promuovere la pubblicizzazione, l’informazione e la prevenzione in materia di atti condannabili o esplicitamente ostili o offensivi ripetutamente diretti contro ogni salariato sul luogo di lavoro o in connessione con il lavoro, e ad adottare ogni adeguata misura per tutelare i lavoratori contro tali comportamenti [§298].

7. Le censure non accolte

Quanto alle ulteriori censure, la CGIL ha lamentato che i medici non obiettori sono costretti a condizioni di lavoro inique, contrarie alla loro salute e sicurezza e parificabili a lavori forzati, in violazione, rispettivamente, dell’art. 2 comma 1 (“per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad eque condizioni di lavoro, le parti s’impegnano a fissare una durata ragionevole per il lavoro giornaliero e settimanale […]”), dell’art. 3 (“per garantire l’effettivo esercizio del diritto alla sicurezza ed all’igiene sul lavoro, le parti s’impegnano, […] a definire, attuare e riesaminare periodicamente una politica nazionale coerente in materia di sicurezza, di salute dei lavoratori e dell’ambiente di lavoro”) e del già citato art. 1 comma 2 della Carta. A riguardo, la ricorrente ha ritenuto che l’eccessivo carico di lavoro pendente sui pochi medici che praticano l’interruzione di gravidanza comporti la costrizione di questi ad operare in orari e con modalità non ragionevoli, senza adeguati periodi di riposo e, quindi, con un pericolo per la loro integrità fisica e mentale. Tuttavia il Comitato ha ritenuto, all’unanimità, che tali censure, supportate dalla CGIL prevalentemente a mezzo di testimonianze di persone sul campo, non fossero corroborate da sufficienti elementi probatori, arrivando quindi ad escluderne la rilevanza [§250 – §264 – §281].

 8. Conclusioni

Ad avviso dello scrivente, la decisione del Comitato ha una portata notevole, mettendo in luce più di un profilo meritevole di riflessione. Su tutti ha preminenza il fatto che, troppo spesso, nel nostro Paese, le leggi adottate si connotino per una scarsa effettività, anche a causa della mancata valutazione di alcuni aspetti sociali (nel caso in esame la tendenza ad una generale contrarietà alle pratiche abortive) che, invece, dovrebbero essere maggiormente tenuti in considerazione dal legislatore. Infatti, sancire un diritto che poi rimane solo astrattamente sulla carta, come può essere per l’interruzione di gravidanza, equivale a non affermarlo affatto. In particolare, sorprende che a quasi quarant’anni dall’adozione della l.194/1978, oggetto di ampio dibattito sociale tra mondo cattolico e non, nonché di ben due quesiti referendari nel 1981 (uno proposto dal Partito Radicale che mirava a rendere più libero ancora il ricorso all’aborto, l’altro, di segno opposto, dal Movimento per la Vita atto a restringerne i casi di liceità) non sia ancora garantita a tutte le donne la concreta possibilità di interrompere la gravidanza, nonostante ciò si ponga in stretta correlazione con la tutela del loro diritto alla salute (art. 32 Cost).

Pare inoltre opportuno segnalare che, sempre recentemente, in data 10 Settembre 2013, [il riferimento è alla decisione sul reclamo n. 87/2012 – caso International Planned Parenthood Federation – European Network (IPPF EN) versus Italy] il Comitato era giunto alle medesime conclusioni, quanto ai rilievi sull’accesso all’interruzione di gravidanza e alla tutela della salute della donna, di quelle analizzate in questa sede. In conclusione, non si può allora che sperare che il legislatore colga questi input del Consiglio d’Europa, posto che le decisioni del Comitato, diversamente dalle sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (“CEDU”), scontano ancora un deficit di effettività. Infatti, mentre per la le decisioni della CEDU è stato messo in piedi un sistema giurisdizionale che nel tempo ha dato ottima prova di sé, la Carta prevede, nella Parte IV (art.21-19) e nel Protocollo Addizionale del 1995, un meccanismo alquanto debole di controllo, tanto che le conseguenze previste in caso di violazione della Carta non vanno oltre raccomandazioni e risoluzioni indirizzate allo Stato inadempiente.


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