Via libera per gli abogados? I dubbi del giudice nazionale sono infondati, non c’è abuso secondo la Corte di giustizia

  1. Il 17 luglio 2014, con l’attesa sentenza Torresi (cause riunite C-58/13 e C-59/13), la Corte di giustizia, riunita in Grande Sezione, ha definito la nota vicenda degli abogados, già oggetto negli ultimi anni di varie pronunce a livello nazionale, che avevano lasciato in eredità un quadro alquanto confuso sull’applicabilità alla “via spagnola” del divieto di abuso di diritto, principio elaborato a livello comunitario. Come è noto, la questione, che ha visto contrapposti, da un lato, il Consiglio nazionale forense (parere 25.6.2009 n. 17 e inter alia sentenza 22.9.2012 n. 126) e i Consigli dell’ordine degli avvocati, e, dall’altro lato, la Corte di Cassazione (S.U. sentenza 22.12.2011 n. 28340) e l’AGCM (seppure sotto il solo profilo della concorrenza, delibera 23.4.2013) ha portato il CNF a sospendere il giudizio sull’istanza di iscrizione nella sezione degli avvocati stabiliti degli abogados Torresi al Consiglio dell’Ordine di Macerata.

Il Consiglio  nazionale, richiamandosi proprio alla teoria dell’abuso, ha domandato ai giudici di Lussemburgo, se le competenti autorità di uno Stato membro potessero rifiutare, a motivo di un abuso del diritto, l’iscrizione nell’albo degli avvocati stabiliti di cittadini di tale Stato membro che, dopo aver conseguito una laurea all’interno di quest’ultimo, si siano recati in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato e abbiano in seguito fatto ritorno al primo Stato membro per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui è stata acquisita la qualifica professionale, avvalendosi della direttiva 98/5/CE. Inoltre il giudice nazionale ha interrogato la Corte circa la validità dell’art. 3 della direttiva 98/5/CE sotto il profilo della violazione dell’art. 4, par. 2 TUE, dal momento che siffatta norma di diritto derivato avrebbe consentito di aggirare una normativa, parte integrante dell’identità nazionale italiana, ossia l’art. 33, comma 5 Cost., che subordina l’accesso alla professione di avvocato al superamento di un esame di Stato, qualificato dal CNF come un principio fondamentale, a tutela degli utenti delle attività professionali e della corretta amministrazione della giustizia.

Tale quesito pregiudiziale, come si vedrà, è stato rapidamente risolto dalla Corte di giustizia in termini negativi. Del pari, nel fornire la propria interpretazione sulla questione dell’abuso, la Corte ha stabilito che “non può costituire una pratica abusiva il fatto che il cittadino di uno Stato membro si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato a seguito del superamento di esami universitari (corsivo aggiunto) e faccia ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica professionale è stata acquisita”.

  1. La questione dell’abuso, centrale e determinante in ottica nazionale, è stata messa in secondo piano, già nella fase di trattazione orale, da un’insidiosa questione preliminare: a suscitare un maggiore interesse nella Grande Sezione, infatti, è stata l’asserita irricevibilità del rinvio, eccezione sollevata nelle difese scritte dai signori Torresi, i quali sostenevano che il Consiglio nazionale forense, in ragione della sua composizione (avvocati eletti da ciascun Consiglio dell’ordine locale, compreso quello che è parte nel procedimento principale) e delle funzioni meramente amministrative esercitate in materia di gestione degli albi, non rientrasse nella nozione di “organo giurisdizionale” così come elaborata dal diritto dell’Unione.

La Corte, riferendosi esplicitamente in più punti alle indicazioni fornite in udienza dal governo italiano, riconosce la propria competenza, in primis evidenziando una serie di elementi atti a permetterle di operare un distinguishing rispetto all’“ingombrante” precedente Wilson (C‑506/04), giudizio vertente anch’esso sull’interpretazione della direttiva 98/5, in cui era stata esclusa la sussistenza di una tutela giurisdizionale effettiva di fronte al Conseil disciplinaire et administratif lussemburghese, proprio perché composto da avvocati che avrebbero potuto avere interesse, quali diretti potenziali concorrenti, ad escludere dall’esercizio della professione un avvocato non lussemburghese che ivi intendesse stabilirsi. In particolare, a giudizio della Corte, segnano l’indipendenza del Consiglio nazionale quelle disposizioni della legge nazionale che prevedono l’incompatibilità della carica di consigliere nazionale con quella di membro di un Consiglio dell’ordine degli avvocati locale; la soggezione alle garanzie previste dalla Costituzione in materia di indipendenza e di imparzialità dei giudici; l’esercizio delle funzioni in piena autonomia, senza vincoli di subordinazione nei confronti di alcuno e senza ricevere ordini o istruzioni da alcuna fonte; l’applicabilità delle disposizioni del codice di procedura civile in materia di astensione e ricusazione. Assumono del pari rilievo quelle disposizioni ai sensi delle quali il CNF non è parte nel procedimento d’impugnazione delle proprie decisioni dinanzi alla Corte di cassazione e il consigliere proveniente dal COA interessato dalla domanda di iscrizione non può far parte del collegio giudicante del CNF.

La Corte, in secondo luogo, afferma che il procedimento sospeso è destinato a risolversi in una decisione di carattere giurisdizionale, posto che il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi sul merito della decisione tacita del Consiglio dell’ordine, nella misura in cui essa respinge la domanda di iscrizione dell’interessato, e che siffatto procedimento, in cui le parti sono chiamate ad esporre i loro argomenti per iscritto e oralmente, durante un’udienza pubblica, con l’assistenza di un avvocato e alla presenza del pubblico ministero, si conclude con una decisione che presenta sia la forma sia la denominazione sia il contenuto di una sentenza pronunciata in nome del popolo italiano. Si noti che la Corte, a differenza dell’Avvocato generale Nils Wahl, non si riferisce al proprio precedente Gebhard (C-55/94), in cui aveva già ammesso, senza pronunciarsi espressamente sul punto, una domanda di pronuncia pregiudiziale su questioni sollevate dal CNF, né mette l’accento sul fatto che il ragionamento elaborato nella sentenza Wilson fosse applicato ad un altro contesto normativo, non avendo la Corte in qual caso dichiarato inammissibile una domanda di pronuncia pregiudiziale, ma soltanto risposto a questioni sulla compatibilità della pertinente legge lussemburghese con l’art. 9 della direttiva 98/5. In ogni caso viene fugato ogni dubbio che il CNF possa essere considerato un “non-giudice”, scongiurando una rivoluzione copernicana che avrebbe coinvolto anche le numerose giurisdizioni professionali composte da rappresentanti delle professioni o dei gruppi sociali ed economici, presenti in tutti gli Stati membri, soluzione che, come rilevato dall’A.g., “sarebbe in effetti preoccupante”.

  1. Passando ad esaminare le questioni di merito, quanto alle circostanze in fatto, non occorre dilungarsi, sia perché non è dato riscontrare nella vicenda degli abogados Torresi alcun elemento di specificità atto a distinguerla dal paradigma classico del laureato italiano che consegue in Spagna il titolo di abogado per poi esercitare in Italia la professione, sia e soprattutto a motivo della formulazione estremamente generica della domanda pregiudiziale da parte del CNF che tralascia di riferirsi a situazioni concrete e ben delimitate, cosicché, del pari, il ragionamento dei giudici europei non pare influenzato da elementi fattuali peculiari. Basti qui ricordare che, al fine di conseguire la licencia en derecho, i Torresi, come del resto tutti gli aspiranti abogados, avevano dovuto superare una decina di esami integrativi, così come previsto dalla normativa spagnola. Una qualche integrazione risultava, pertanto, presente. Non era, invece, in vigore all’epoca della vicenda, la ley 34/2006, che ha introdotto a partire dal 30 ottobre 2013 anche in Spagna, per conseguire il titolo di avvocato, l’obbligo di frequenza di un master, lo svolgimento di un periodo di tirocinio ed il superamento di un esame.

Con riguardo alla prima questione, la Corte, come l’Avvocato generale, in pochi punti, si limita ad applicare (invero in maniera lineare) i propri precedenti. I giudici di Lussemburgo, giunti alla conclusione preliminare, sulla scorta di Wilson, che “i cittadini di uno Stato membro quali i sigg. Torresi, che presentano all’autorità competente di tale Stato membro il loro certificato di iscrizione presso l’autorità competente di un altro Stato membro, soddisfano, in linea di principio, tutti i requisiti necessari per essere iscritti”, ricordano, come di consueto, che, secondo giurisprudenza costante, i singoli non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme dell’Unione, ma, tuttavia, nel caso di specie escludono la sussistenza dell’elemento oggettivo (nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa dell’Unione, l’obiettivo perseguito da tale normativa non è stato raggiunto) e soggettivo (sussiste una volontà di ottenere un vantaggio indebito derivante dalla normativa dell’Unione mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento) del comportamento abusivo.

Più nel dettaglio, quanto all’elemento oggettivo, viene osservato come “il fatto che un cittadino di uno Stato membro che ha conseguito una laurea in tale Stato si rechi in un altro Stato membro al fine di acquisirvi la qualifica professionale di avvocato e faccia in seguito ritorno nello Stato membro di cui è cittadino per esercitarvi la professione di avvocato, con il titolo professionale ottenuto nello Stato membro in cui tale qualifica è stata acquisita, costituisce uno dei casi in cui l’obiettivo della direttiva 98/5 [facilitare l’esercizio permanente della professione di avvocato in uno Stato membro diverso da quello nel quale è stata acquisita la qualifica professionale] è conseguito e non può costituire, di per sé, un abuso del diritto di stabilimento risultante dall’articolo 3 della direttiva 98/5 (corsivo aggiunto)”.

Con riferimento, invece, all’elemento soggettivo, i giudici ribadiscono quanto già affermato nella pronuncia Commissione c. Spagna (C‑286/06): “il fatto che il cittadino di uno Stato membro abbia scelto di acquisire un titolo professionale in un altro Stato membro, diverso da quello in cui risiede, allo scopo di beneficiare di una normativa più favorevole non consente, di per sé di concludere nel senso della sussistenza di un abuso del diritto”, né una siffatta constatazione “può essere inficiata dal fatto che la presentazione di una domanda di iscrizione all’albo degli avvocati stabiliti presso l’autorità competente dello Stato membro ospitante ha avuto luogo poco tempo dopo il conseguimento del titolo professionale nello Stato membro di origine (corsivo aggiunto)”, giacché l’iscrizione non è subordinata alla condizione che venga svolto un periodo di pratica come avvocato nello Stato d’origine.

I giudici di Lussemburgo, negando in maniera categorica l’abuso, sembrano chiudere le porte ad uno spazio di controllo da parte delle competenti autorità nazionali cas par cas. Si discostano così dalla posizione dell’Avvocato generale, il quale aveva ammesso una residua possibilità di indagine più approfondita da parte delle autorità dello Stato ospitante (eventualmente in collaborazione con le autorità dello Stato d’origine) sulla possibile esistenza di condotte abusive, in alcuni casi specifici, che diano adito ad un legittimo sospetto di condotte fraudolente, giungendo alla conclusione che “qualora le autorità dello Stato membro ospitante raccolgano prove inequivocabili del fatto che il richiedente ha ottenuto il titolo professionale nello Stato membro di origine con mezzi fraudolenti o illegali (ad esempio, contraffazione, corruzione o dichiarazioni false), esse potrebbero rifiutare l’iscrizione a causa di un abuso del diritto”.

Quanto al secondo quesito, la Corte rileva brevemente che, come riconosciuto in udienza dal governo italiano (il riferimento frequente alla fase di trattazione orale è certamente da sottolineare), l’art. 3 della direttiva 98/5 non può incidere sulle strutture fondamentali, politiche e costituzionali né sulle funzioni essenziali dello Stato d’origine ex art. 4, par. 2, TUE, in quanto la domanda di iscrizione all’albo degli avvocati stabiliti, presentata ai sensi dello stesso art. 3, non è tale da consentire di eludere l’applicazione della legislazione dello Stato ospitante relativa all’accesso alla professione di avvocato.

 Se le indicazioni da trarre dalla pronuncia in esame risultano fin troppo chiare, è necessario da ultimo riflettere sulle sue conseguenze nel panorama nazionale. Davvero non è mai dato rinvenire un abuso di diritto nella vicenda degli abogados? In via generale il cittadino UE è libero di beneficiare della normativa più favorevole di un altro Stato membro per acquisire il titolo di avvocato, né rileva al riguardo il breve lasso di tempo intercorso tra il conseguimento del titolo professionale nello Stato d’origine e la domanda di iscrizione nello Stato ospitante. Partendo proprio dagli spunti forniti dall’Avvocato generale, occorre tuttavia domandarsi se possano sussistere una serie di ipotesi specifiche che presentano alcuni indici di anomalia, un certo quid pluris, che permetterebbe un superamento della prassi generale analizzata dalla pronuncia Torresi, che “di per sé” (espressione utilizzata ai punti 49 e 50 della sentenza) non costituisce abuso, ed un conseguente potere di controllo dell’autorità nazionale. Per comprendere l’effettiva portata di tale inciso, a titolo meramente esemplificativo, si potrebbe pensare al caso del soggiorno inesistente in Spagna del cittadino italiano che, affidandosi ad alcune organizzazioni commerciali italiane, svolga gli esami universitari integrativi richiesti in un’unica giornata a Roma, pratica abusiva, poiché, in tal caso, mancherebbe in toto l’elemento di integrazione nel territorio dello Stato ospitante che viene richiesto dalla Corte al punto 52 (si tratterebbe certamente della situazione di fatto che più si avvicina al caso Cavallera, in cui si era verificata una mera circolazione del diploma e non del diplomato, cui aveva fatto riferimento, in modo non del tutto pertinente, il CNF); il caso dell’abogado che non conosca minimamente la lingua spagnola e che, quindi, palesemente, abbia realizzato una costruzione artificiale con la chiara intenzione (elemento soggettivo) di non integrarsi nel sistema spagnolo e di non fare uso del titolo acquisito in maniera fisiologica al di fuori dell’Italia (si noti che i signori Torresi, al contrario, nelle loro difese, sostenevano di svolgere un’attività anche in Spagna); e, infine, il caso di coloro che abbiano acquisito il titolo di abogado senza superare l’esame di abilitazione previsto ormai in Spagna dopo l’entrata in vigore della ley 34/2006, avvalendosi dell’ausilio di ordini di avvocati spagnoli “accondiscendenti”, richiamati all’ordine dalla circolare 7.3.2013 n. 35 del Consejo General de la Abogacia Espanola, titolo ottenuto con mezzi fraudolenti.

Insomma, si tratta certamente di una questione che meriterebbe un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte, questa volta su casi specifici, domandando del pari con quali modalità, in concreto, l’autorità nazionale possa effettuare i controlli, posto che la direttiva richiede solamente la presentazione del certificato.

La questione, invero, riveste un’importanza cruciale anche su di un piano di teoria generale: sembra, infatti, acquistare terreno il dubbio che il divieto di abuso di diritto, nel suo significato di elusione della normativa nazionale, si riduca, in verità, ad una “formula vuota” davanti alle libertà fondamentali.


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