V.C.L. e A.N. c. Regno Unito: un’importante affermazione in merito alla non punibilità delle vittime di tratta

1. Con una pronuncia resa il 16 febbraio 2021 nel caso V.C.L. e A.N. c. Regno Unito, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha affermato alcuni principi di grande significato a favore delle vittime di tratta. Preliminarmente occorre ricordare che la tratta di esseri umani costituisce un odioso fenomeno e che vede le persone, spesso le più vulnerabili, assoggettate ad una situazione di sostanziale schiavitù a fini di sfruttamento di vario tipo (principalmente sessuale e lavorativo, ma anche con finalità di accattonaggio o di coinvolgimento in attività illegali, quale ad esempio il traffico di droga). Il contrasto alla tratta di persone è oggetto di alcuni strumenti internazionali recenti, a conferma della crescita del fenomeno e della maggiore sensibilità e attenzione verso di esso (si ricordano, in particolare, il Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per prevenire, reprimere e punire la tratta di persone, in particolare di donne e minori del 2000, c.d. Protocollo di Palermo, e a livello regionale europeo la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta contro la tratta degli esseri umani del 2005, c.d. Convenzione di Varsavia, ed asiatico la Convenzione ASEAN contro la tratta di persone, in particolare donne e minori del 2015). Nell’Unione europea l’art. 2, par. 1, della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, che ha sostituito la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI, individua gli elementi caratterizzanti la tratta di esseri umani ne «il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’alloggio o l’accoglienza di persone, compreso il passaggio o il trasferimento dell’autorità su queste persone, con la minaccia dell’uso o con l’uso stesso della forza o di altre forme di coercizione, con il rapimento, la frode, l’inganno, l’abuso di potere o della posizione di vulnerabilità o con l’offerta o l’accettazione di somme di denaro o di vantaggi per ottenere il consenso di una persona che ha autorità su un’altra, a fini di sfruttamento». Assente una base giuridica espressa nel TCE (come modificato dal Trattato di Amsterdam), la lotta contro la tratta degli esseri umani, specialmente donne e minori, ha ricevuto una posizione autonoma con il Trattato di Lisbona (art. 79, par. 1, lett. d) TFUE), che l’ha svincolata dal contrasto all’immigrazione e soggiorno irregolare (art. 63, par. 1, punto 3, lett. b) TCE), che aveva costituito la base giuridica per l’adozione di un precedente strumento normativo, la dir. 2004/81/CE riguardante il titolo di soggiorno da rilasciare ai cittadini di paesi terzi vittime della tratta di esseri umani o coinvolti in un’azione di favoreggiamento dell’immigrazione illegale che cooperino con le autorità competenti. Nell’ambito dell’Unione europea,  al quadro giuridico si affianca un complesso politico-operativo, con l’elaborazione di una strategia dell’Unione europea per l’eradicazione della tratta degli esseri umani dal 2012, la designazione di un coordinatore anti-tratta, l’istituzione di una rete informale di relatori nazionali o meccanismi equivalenti dell’Unione.

2. A ottobre la Commissione ha presentato la terza relazione sui progressi compiuti nella lotta contro la tratta di esseri umani, in cui, descrivendo i risultati delle misure adottate negli ultimi anni, ha evidenziato le recenti tendenze del fenomeno, incluse le particolari complessità emerse nel contesto dell’attuale pandemia. La relazione, integrata da un documento di lavoro della Commissione contenente informazioni dettagliate unitamente a uno studio sulla raccolta di dati sulla tratta di esseri umani nell’Unione, offre un’analisi approfondita dei dati statistici sull’attività giudiziaria in materia penale per gli anni 2017 e 2018, sottolineando le difficoltà poste da un fenomeno criminale in continua evoluzione. In particolare, emerge che quasi la metà delle vittime sono cittadini dell’UE (49%), e un terzo di queste (34%) sono state vittime di tratta all’interno del proprio Stato membro dell’UE. La grande maggioranza sono donne e ragazze (72%) e una vittima su quattro è minorenne (22%). Mentre lo sfruttamento sessuale rimane lo scopo predominante della tratta, viene posto in luce anche il crescente sfruttamento lavorativo. Il numero di procedimenti giudiziari e di condanne rimane basso rispetto al numero di vittime segnalate. Nel 2017/2018, sono state registrate 14.145 vittime nell’Unione europea (oltre a 12.123 nel Regno Unito), ma ci sono stati solo 6.163 procedimenti giudiziari e 2.426 condanne. L’attività criminale si verifica sempre più online poiché i trafficanti fanno un uso crescente di internet e dei social media per reclutare e sfruttare le vittime. La pandemia di coronavirus ha aggravato la vulnerabilità, causato ritardi nell’identificazione delle vittime e ostacolato l’accesso alla giustizia, all’assistenza e al sostegno.

3. A differenza della più recente Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, che alla tratta di esseri umani dedica una specifica disposizione, sancendone il divieto in termini assoluti (art. 5, par. 3), non si rinviene un riferimento espresso nell’ambito della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Così per la prima volta solo nel 2010, nel caso Rantsev c. Russia e Cipro, la Corte EDU riscontrò la violazione dell’art. 4 CEDU in relazione alla tratta (qualche anno prima, nel caso Siliadin c. Francia la Corte aveva affermato la sussistenza di obblighi positivi dello Stato in relazione al divieto di riduzione in servitù, specificando altresì che l’art. 4 consacra uno dei valori fondamentali delle società democratiche, al pari degli artt. 2 e 3 CEDU), aprendo la strada alla possibilità di constatare una violazione di un obbligo ai sensi della Convenzione rispetto a tale fenomeno. La vicenda aveva riguardato una cittadina russa, vittima di tratta a fini di sfruttamento sessuale, trovata morta a Cipro. In quella prima decisione, la Corte EDU aveva sancito non solo l’obbligo degli Stati di predisporre un quadro giuridico ed amministrativo che consenta di perseguire e condannare i trafficanti, ma anche di mettere in atto misure per combattere il traffico di esseri umani e proteggere le vittime. In considerazione di questi obblighi positivi, la Corte ritenne che Cipro avesse violato l’art. 4 della Convenzione, non avendo svolto un’adeguata indagine sul traffico della donna russa, sussistendo l’obbligo degli Stati di adottare “misure operative” non appena le autorità vengono a conoscenza del traffico di esseri umani, promuovendo una cooperazione efficace con gli altri Stati interessati dall’indagine. Nonostante l’evidente importanza di questa prima affermazione, in quella pronuncia la Corte non sviluppò un quadro di riferimento per i casi di tratta che considerasse tutti i tipi di sfruttamento a cui le vittime sono esposte, ma fu considerata solo l’ipotesi di sfruttamento sessuale.  La Corte ha, poi, riscontrato una violazione dell’art. 4 della Convenzione, in relazione alla tratta di esseri umani, in pochi altri casi soprattutto a partire dal 2016 (L.E. c. GreciaChowdury e altri c. GreciaT.I. e altri c. Grecia e la più recente pronuncia della Grande Camera nel caso S.M. c. Croazia, in cui in termini più ampi ha chiarito gli elementi che devono sussistere per qualificare un comportamento o una situazione come tratta di esseri umani ai sensi dell’art. 4, richiamando in proposito la succitata Convenzione di Varsavia e il Protocollo di Palermo, e riscontrando l’irrilevanza del carattere nazionale o transnazionale e della riconducibilità alla criminalità organizzata). Ma in nessuno di questi casi si era soffermata sulla posizione, anche giudiziaria, delle vittime, concentrandosi esclusivamente sulla responsabilità dello Stato.

4. L’importanza di questa pronuncia risiede, pertanto, proprio nella circostanza che per la prima volta viene affrontato dalla Corte EDU tale aspetto, giungendo ad affermare che l’incriminazione delle (potenziali) vittime di tratta, per i reati commessi in conseguenza del loro sfruttamento, in certe circostanze, può essere in contrasto con il dovere dello Stato di adottare misure operative per proteggerle, comportando pertanto una violazione dell’art. 4 della Convenzione (cfr. parr. 157-161). Secondo la Corte, in particolare, lo Stato viola l’obbligo di adottare le misure di protezione necessarie in favore delle vittime di tratta, laddove persegue penalmente una persona, pur in presenza di fondati motivi di ritenere che sia stata vittima di tratta. I ricorrenti (V.C.L. e A.N.) erano due giovani vietnamiti, giunti nel Regno Unito da adolescenti, nel 2009 (rispettivamente all’età di 15 e 17 anni) scoperti a lavorare come giardinieri in coltivazioni di cannabis e successivamente condannati per di reati di droga. Dopo la condanna, erano, però, stati riconosciuti come vittime della tratta dall’autorità competente. La Corte ha ritenuto che vi fosse stata una violazione dell’art. 4 CEDU, constatando che le autorità nazionali non avessero adottato misure adeguate per proteggere i ricorrenti (minorenni all’epoca dei fatti contestati), entrambi potenziali vittime della tratta e rilevando, in particolare, che nonostante i ricorrenti fossero stati scoperti in circostanze che indicavano la loro condizione di vittime, erano stati accusati di un reato, di cui si erano dichiarati colpevoli su consiglio dei loro avvocati, senza che il loro caso fosse prima valutato dall’autorità competente. E anche quando sono stati successivamente riconosciuti come vittime della tratta, il pubblico ministero, senza fornire ragioni adeguate per la decisione, si era opposto a tale valutazione e la Corte d’appello, basandosi sulle stesse ragioni inadeguate, aveva considerato giustificata la decisione di perseguire i ricorrenti. La Corte EDU ha ritenuto che ciò fosse contrario al dovere dello Stato, ai sensi dell’art. 4 CEDU di adottare, inizialmente, misure per proteggere le potenziali vittime della tratta e, in una fase successiva, le persone riconosciute come vittime della tratta. La Corte ha, inoltre, ritenuto che il procedimento nel suo complesso non fosse stato equo, constatando anche la violazione dell’articolo 6, par. 1 (diritto a un processo equo) della Convenzione.

5. Rispetto a questa conclusione, meritano attenzione le argomentazioni della Corte, che meglio definiscono gli obblighi incombenti in capo agli Stati, in relazione alla protezione delle vittime di tratta. La Corte ha puntualizzato che, non appena le autorità sono a conoscenza, o dovrebbero essere a conoscenza, di circostanze che danno luogo a un sospetto credibile che una persona accusata di aver commesso un reato possa essere stata vittima di tratta o di sfruttamento, questa situazione dovrebbe essere oggetto di pronta valutazione, condotta da persone formate e qualificate, sulla base dei criteri identificati nel Protocollo di Palermo e nella Convenzione di Varsavia (tenuto conto anche che la minaccia e/o coercizione non è richiesta quando l’individuo è un minore). Una valutazione qualificata che appare tanto più necessaria in considerazione della circostanza che lo status di vittima di tratta può influire sull’esistenza di prove sufficienti per l’azione penale e nei confronti di minori, in ragione della loro particolare vulnerabilità. Ogni successiva decisione del pubblico ministero dovrebbe tenerne conto: sebbene non vincolata, l’autorità requirente è tenuta ad illustrare in modo chiaro le ragioni del proprio eventuale disaccordo rispetto a tale valutazione qualificata, alla luce dei parametri contenuti nel Protocollo di Palermo e nella Convenzione del Consiglio d’Europa contro la tratta.

6. La pronuncia in questione si allinea, quindi, al quadro internazionale, che già indica l’opportunità di non incriminare le vittime di tratta (si vedano, tra gli altri, l’art. 26 Convenzione di Varsavia, l’art. 8, dir. 2011/36, l’art. 14, co. 7, Convenzione ASEAN) per eventuali atti illeciti commessi in connessione o come conseguenza della loro condizione (dall’utilizzo di documenti falsi per eludere le norme sull’immigrazione alla commissione di reati legati allo sfruttamento sessuale o lavorativo), rafforzando altresì l’emersione del principio di non incriminazione a livello internazionale. Le prassi e le legislazioni nazionali appaiono, infatti, eterogenee e in molti casi in contrasto con tale principio, come sottolineato nel suo Rapporto Conclusivo della Relatrice Speciale sulla tratta di esseri umani delle Nazioni Unite. Anche con riferimento alla legislazione italiana, il gruppo di esperti sulla lotta contro la tratta di esseri umani (GRETA) del Consiglio d’Europa ha esortato all’introduzione di una specifica norma attuativa dell’art. 26 della Convenzione di Varsavia, ritenendo insufficiente il ricorso alla scriminante prevista dall’art. 54 c.p. (stato di necessità).


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