L’impatto della introduzione delle unioni civili e delle convivenze di fatto sugli obblighi assunti dall’Italia in ambito europeo

1. Introduzione

In seguito all’adozione della legge n. 76/2016 recante la “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” (meglio nota come “legge Cirinnà”), approvata dal Parlamento l’11 maggio 2016 (in Gazz. Uff., 20 maggio 2016 n. 118), è possibile tracciare alcune prime riflessioni sull’impatto di tale fondamentale novità legislativa sull’attuazione, da parte dell’Italia, degli obblighi scaturenti da norme “di origine” europea, previste sia dalla CEDU e dalla Carta dei diritti fondamentali in materia di tutela dei diritti umani (rispettivamente all’art. 8 e agli articoli 7 e 9), sia da fonti derivate di diritto dell’UE in tema di libera circolazione delle persone e di discriminazione.

Con l’approvazione della c.d. legge Cirinnà il nostro Paese si è infatti finalmente adeguato alla scelta, compiuta già da tempo da molti Stati europei, di garantire una specifica tutela giuridica da un lato alle coppie omosessuali, che, come tali, non possono accedere al matrimonio, dall’altro a quelle non sposate. Le prime infatti potranno, a partire dalla entrata in vigore della legge, costituire una unione civile, assumendo con ciò diritti e doveri reciproci, per lo più equiparabili a quelli che discendono dal legame coniugale (art. 1, commi 1 e 11); alle seconde invece è data la possibilità di stabilire, a prescindere dal sesso dei loro componenti e da qualunque legame di parentela, accordi di convivenza, suscettibili di produrre alcune più circoscritte conseguenze giuridiche (art. 1, comma 36 ss.). Le differenze tra le due fattispecie introdotte nel nostro ordinamento con la legge n. 76/2016, che si giustificano alla luce della possibilità, per le coppie eterosessuali, di accedere al matrimonio, sono significative e riguardano anzitutto la natura giuridica della relazione che ne è l’oggetto. Mentre le unioni civili, che si costituiscono tramite dichiarazione resa di fronte all’ufficiale di stato civile ed alla presenza di due testimoni (art. 1, comma 2), sono idonee a fare sorgere in capo ai soggetti che le compongono uno status personale nuovo, debitamente certificato nei pubblici registri, gli accordi di convivenza hanno carattere meramente obbligatorio, essendo suscettibili di generare diritti e doveri in capo alle parti, senza però, a nostro avviso, conferire loro un particolare statuto giuridico.

Di tale distinzione, che certamente assume una significativa rilevanza ad esempio nel contesto delle norme di diritto internazionale privato (come bene illustrato nel post di Livio Scaffidi Runchella, Osservazioni a prima lettura sulla legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nella prospettiva internazionalprivatistica, SidiBlog, 16 maggio 2016), si terrà quindi conto nelle riflessioni che seguono, le quali riguarderanno principalmente le unioni civili, dato il maggiore impatto che esse hanno ai fini del nostro ragionamento. Da un lato infatti si tratterà di stabile se, con l’approvazione della legge Cirinnà, l’Italia si è finalmente conformata agli obblighi che discendono dall’art. 8 CEDU e che, come recentemente ribadito alla sentenza Oliari, con cui il nostro Stato è stato condannato per violazione della norma, comportano, tra l’altro, di garantire il riconoscimento e la tutela giuridica alle unioni civili tra persone del medesimo sesso (Corte EDU, Oliari e a. c. Italia, ricorsi riuniti n. 18766/11 e n. 36030/11, sentenza del 21 luglio 2015 su cui si veda il post di Ilaria Anrò). Dall’altro lato, si cercherà di delineare, seppure sinteticamente, il quadro degli effetti che l’approvazione della nuova legge produce sulla interpretazione delle nome di diritto dell’UE in materia di libera circolazione e di quelle, su cui peraltro esiste una significativa giurisprudenza della Corte di giustizia ‒ dal cui esame non si potrà pertanto prescindere ‒ riguardanti il divieto di porre in essere comportamenti che abbiano l’effetto di produrre discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale.

2. La compatibilità della nuova legge con gli obblighi assunti dall’Italia in materia di tutela della vita familiare.

Tra le questioni che l’approvazione della legge Cirinnà anzitutto solleva vi è quella della sua compatibilità con l’art. 8 CEDU, che sancisce il diritto di ogni individuo al rispetto per la vita propria privata e familiare e, soprattutto, con la più recente lettura della norma ad opera della Corte EDU. A partire dal caso Shalk and Kopf, questa ha infatti stabilito che, in considerazione della mutata attitudine sociale verso le coppie del medesimo sesso, cui è seguito, in molti Stati europei, il riconoscimento giuridico dei loro diritti, e, a livello di diritto dell’UE, la tendenza a una maggiore flessibilità nel definire il concetto di “familiare”, sarebbe del tutto «artificial to maintain the view that, in contrast to a different-sex couple, a same-sex couple cannot enjoy “family life” for the purposes of Article 8. Consequently, the relationship of the applicants, a cohabiting same-sex couple living in a stable de facto partnership, falls within the notion of “family life”, just as the relationship of a different-sex couple in the same situation would» (Corte EDU, Schalk e Kopf c. Austria, ricorso n. 30141/04, sentenza del 24 giugno 2010, par. 94; lo stesso principio viene quasi letteralmente ripreso nel caso Pajić c. Croazia, ricorso n. 68453/13, sentenza del 23 febbraio 2016, par. 64). Proprio sulla base di tale interpretazione della nozione di vita familiare, nonché dell’affermazione secondo cui dall’art. 8 CEDU discenderebbero obblighi non solo di carattere negativo, ma anche di natura positiva, consistenti nella previsione di «a legal framework allowing them to have their relationship recognised and protected under domestic law» (Oliari cit., par. 164), l’Italia è stata condannata dalla Corte per la mancanza di uno specifico istituto giuridico volto a tutelare le coppie del medesimo sesso, senza che tale scelta potesse giustificarsi sulla base del margine di apprezzamento concesso allo Stato sulla base dell’art. 8, par. 2.

Se da un lato la legge in esame è certamente conforme al risultato indicato dalla Corte nello specifico contesto richiamato, si pongono tuttavia almeno due ordini di problemi che essa lascia insoluti: 1) quello del riconoscimento giuridico dei matrimoni omosessuali contratti all’estero, con riferimento ai quali la legge espressamente prevede che essi in Italia possono soltanto produrre gli effetti delle unioni civili (art. 1, comma 28, lett. b); 2) quello dell’efficacia dei rapporti di filiazione adottiva stabiliti a favore di genitori del medesimo sesso, considerato che il punto su cui permangono le più significative differenze tra il matrimonio e l’unione civile e che, nei lavori parlamentari, è stato il maggiormente controverso e dibattuto, è la mancata previsione della possibilità per i componenti di una unione civile di avere accesso alla adozione, anche solo nella forma non piena della c.d. step-child adoption (ossia l’adozione del figlio del partner). Con riferimento al primo punto, già da tempo la Corte EDU si è espressa nel senso di ritenere che la conversione del matrimonio in una unione civile da cui discendono diritti equiparabili, ma non identici, a quelli previsti a favore dei coniugi, in vista della tutela della famiglia matrimoniale, può rappresentare un corretto esercizio del margine di apprezzamento concesso allo Stato in tale ambito (Corte EDU, Hämäläinen c. Finlandia [GC], ricorso n. 37359/09, sentenza del 16 luglio 2014, par. 62). D’altro canto, è la stessa CEDU a mantenere distinto il diritto alla vita familiare da quello al matrimonio, tutelato dall’art. 12 CEDU, che tuttavia non contiene, secondo l’interpretazione della Corte, alcun obbligo per lo Stato di estenderne l’applicazione alle coppie omosessuali (Corte EDU, Shalk and Kopf, cit., par. 63; Oliari, cit.). Quanto al secondo aspetto, sebbene la giurisprudenza italiana sia da tempo orientata nel senso di garantire comunque, pur in assenza di espressa previsione normativa, il riconoscimento delle step-child adoptions pronunciate all’estero (si veda da ultimo Corte di Appello di Milano, 16 ottobre 2015), possibilità questa che non viene né prevista, ma neppure negata dalla legge n. 76/2016, le incertezze che ancora caratterizzano la materia potrebbero essere all’origine di ulteriori ricorsi davanti alla Corte EDU per ottenere, da un lato, la completa equiparazione tra i diritti garantiti ai membri delle unioni civili e quelli dei coniugi, sulla base dell’art. 14 CEDU, dall’altro, il pieno riconoscimento degli status parentali acquisiti all’estero.

3. Gli effetti della introduzione in Italia delle unioni civili sull’applicazione delle direttive dell’UE in materia di libera circolazione delle persone.

Il secondo aspetto che merita di essere considerato riguarda l’impatto della legge n. 76/2016 sull’applicazione di alcune norme dell’UE, la cui interpretazione in qualche modo risente delle scelte operate dallo Stato nell’ambito del diritto di famiglia, materia che, come noto, rientra nella competenza esclusiva del legislatore nazionale. Con riguardo a tale profilo, rilevano, come si è accennato, alcune norme in tema di ricongiungimento familiare, nonché quelle che pongono il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale (infra, par. 4).

Quanto alle prime, esse sono essenzialmente contenute nella direttiva 2004/38/CE(del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004), relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri e nella direttiva 2003/86/CE (del Consiglio, del 22 settembre 2003), riguardante il diritto al ricongiungimento familiare per i cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro. Entrambi questi atti prevedono, rispettivamente all’art. 3, par. 2, lett. b)e all’art. 4, par. 3 che, nel concetto di “familiare”, ai fini del godimento dei diritti in esse previsti possano essere inclusi anche i partner, che, seppure non legati al cittadino dell’UE o al soggetto regolarmente soggiornante in uno Stato membro, da una relazione coniugale, abbiano tuttavia costituito con questi una unione affettiva stabile e duratura. Mentre la direttiva 2004/38 richiede che l’esistenza di tale relazione debba essere debitamente provata, senza null’altro specificare, criteri decisamente più rigorosi sono previsti dalla 2003/86, secondo cui la richiesta di soggiorno ai fini del ricongiungimento familiare deve essere supportata da documenti attestanti la registrazione della partnership o, nei casi in cui questa non sia possibile, da ogni altro documento rilevante ai fini della prova della stabilità del legame affettivo. In entrambi i casi è comunque concessa allo Stato di destinazione un’ampia discrezionalità per quanto riguarda la scelta di equiparare i componenti delle famiglie “non tradizionali” ai coniugi, ai fini del godimento dei diritti connessi alla libera circolazione (a questo riguardo va ricordato che la direttiva 2004/38, cit. prevede espressamente, all’art. 2 par. 2 lett. b, l’inclusione del partner registrato nel concetto di familiare, qualora nel Paese ospitante sia prevista la possibilità di costituire una unione civile, con effetti equiparabili a quelli discendenti dal matrimonio).

Per quanto riguarda l’Italia, poiché l’equiparazione, seppure non piena, dei membri delle unioni civili ai coniugi è ora espressamente prevista dalla legge Cirinnà, in via generale, fatte salve le differenze ivi espressamente stabilite (art. 1, comma 20), ciò dovrebbe tradursi in una maggiore apertura verso la concessione del ricongiungimento familiare a partner dello stesso sesso, con il conseguente definitivo superamento dell’atteggiamento di chiusura espresso finora dalla Cassazione (Cass., 17 marzo 2009, n. 6441, secondo cui: «In tema di diritto dello straniero al ricongiungimento familiare, il cittadino extracomunitario legato ad un cittadino italiano ivi dimorante da un’unione di fatto debitamente attestata nel paese d’origine del richiedente, non può essere qualificato come “familiare” …»). Va peraltro ricordato che tale indirizzo restrittivo è stato già ampiamente criticato da una parte della giurisprudenza di merito, che ha invece ritenuto di dovere interpretare le direttive in senso conforme all’art. 8 CEDU e alla sua più recente lettura evolutiva (Trib. Pescara, 15 gennaio 2013; Trib. Reggio Emilia, 13 febbraio 2012; nel senso di questa seconda soluzione milita peraltro anche la recente giurisprudenza della Corte EDU, Pajic, cit.), riconoscendo quindi anche ai partner del medesimo sesso, legati da una stabile relazione affettiva, il diritto ad ottenere il ricongiungimento familiare.

4. Unioni civili e obblighi di non discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale.

Significativo è infine l’impatto che la legge Cirinnà potrà esercitare sull’applicazione delle norme interne in materia di lavoro e di occupazione, alla luce della direttiva 2000/78/CE (del Consiglio, del 27 novembre 2000), che stabilisce un quadro generale per la rimozione ‒ in tali ambiti ‒ di qualunque discriminazione, ivi comprese quelle basate sull’orientamento sessuale.

Con riguardo alla sua interpretazione, la Corte di giustizia dell’UE, pronunciandosi su alcuni rinvii pregiudiziali operati dalle corti interne, proprio nell’ambito di casi riguardanti la materia qui considerata, ha espresso alcuni fondamentali principi. Essa ha, infatti, stabilito che il fatto di non concedere al partner registrato del medesimo sesso benefici analoghi a quelli riservati al coniuge, sul presupposto che un determinato trattamento è collegato all’avere contratto un matrimonio, in alcuni Paesi – come il nostro ‒ accessibile alle sole coppie eterosessuali, può integrare una ipotesi di discriminazione diretta, ai sensi dell’art. 2, par. 2, lett. a) della direttiva 2000/78, cit. (e non quindi quella diversa della discriminazione indiretta, di cui all’art. 2, par. 2, lett. b), eventualmente giustificabile laddove necessaria al perseguimento di finalità legittime dello Stato). A tale fine è, infatti, sufficiente, secondo l’analisi fornita dalla Corte, che le situazioni poste a confronto, quella dei coniugi eterosessuali e quella dei partner del medesimo sesso che abbiano costituito tra di loro una unione civile, siano equiparabili, non in astratto, ma sotto il profilo dello specifico diritto di cui si tratta («..l’esistenza di una discriminazione diretta, ai sensi della citata direttiva, presuppone, in primo luogo, che le situazioni messe a confronto siano paragonabili. …l’esame di tale carattere paragonabile deve essere condotto non in maniera globale e astratta, bensì in modo specifico e concreto in riferimento alla prestazione di cui trattasi. … Pertanto, il raffronto tra le situazioni deve essere fondato su un’analisi incentrata sui diritti e sugli obblighi dei coniugi e dei partner dell’unione civile registrata, quali risultanti dalle disposizioni nazionali applicabili e che appaiono pertinenti alla luce della finalità e dei presupposti di concessione della prestazione controversa nella causa principale, e non deve consistere nel verificare se il diritto nazionale abbia operato un’equiparazione generale e completa, sotto il profilo giuridico, dell’unione civile registrata rispetto al matrimonio»: Corte di giustizia, sentenza del 10 maggio 2011, causa C-147/08, Jürgen Römer c. Freie und Hansestadt Hamburg, paragrafi 41-43. Nel medesimo senso la sentenza del 1° aprile 2008, causa C-276/06, Tadao Maruko c. Versorgungsanstalt der deutschen Bühnen, paragrafi 67-73, nonché, più recentemente la sentenza del 12 dicembre 2013, causa C-267/12, Frédéric Hay c. Crédit agricole mutuel de Charente-Maritime et des Deux-Sèvres).

Considerato che la legge Cirinnà dispone la parificazione, con riferimento ai rapporti patrimoniali tra i membri della coppia e all’applicazione dei contratti collettivi, dei diritti conseguenti all’avere instaurato una unione civile e di quelli derivanti dall’essere sposati (art. 1, commi 13 e 20), l’adempimento della direttiva 2000/78 comporterà che sia attuata, in materia di lavoro e di occupazione (ivi inclusi i regimi previdenziali), una piena equiparazione di trattamento tra partner e coniugi. Ne consegue la necessità, per i soggetti sia pubblici che privati, di conformare i contratti e i rapporti di lavoro alle esigenze imposte dall’entrata in vigore della normativa in commento.

5. Considerazioni conclusive: l’impatto delle unioni civili sulla “nozione europea” di famiglia.

L’esame, seppur sommario, dell’impatto che l’approvazione della legge Cirinnà avrà sull’adempimento e sull’applicazione da parte dell’Italia di alcune norme europee, che in qualche modo incidono sui diritti derivanti dall’appartenenza a un nucleo di tipo familiare, dimostra inequivocabilmente l’importanza che l’introduzione delle unioni civili riveste anche nell’ambito qui considerato.

Sebbene le norme prese in esame riguardino, almeno per quanto concerne la legislazione dell’UE, specifici diritti, dei quali, l’introduzione della legge comporta l’estensione ai partner registrati, ci si potrebbe legittimamente domandare se il fatto che anche l’Italia si sia finalmente adeguata alla necessità di tutelare giuridicamente le coppie omosessuali, riconoscendo ad esse diritti in larga misura analoghi a quelli previsti per i coniugi, incida, a livello più generale, sulla evoluzione stessa della “nozione europea” di famiglia. Sotto questo profilo, per quanto l’introduzione di modelli di relazione affettiva eterogenei e distinti dal matrimonio abbia certamente portato a un graduale ripensamento del concetto di famiglia come unione coniugale tra soggetti di sesso diverso, il fenomeno cui si è finora per lo più assistito è tuttavia quello dell’estensione ai partner registrati di diritti e obblighi tradizionalmente spettanti ai coniugi; ad eccezione di pochissimi casi, riguardanti un numero esiguo di Stati europei, non si è quindi ancora veramente arrivati all’affermazione di un nuovo, ma unitario, concetto di famiglia, idoneo a comprendere nel suo ambito sia il modello basato sul matrimonio, sia modelli differenti. Il caso italiano si inserisce senz’altro in tale tendenza: già dal primissimo comma, la legge Cirinnà enuncia, con molta chiarezza, che l’unione civile è una formazione sociale costituzionalmente tutelata dall’art. 2 Cost., formalmente diversa quindi dalla famiglia che, tutelata dall’art. 29, resta, ai fini legislativi e almeno sulla carta, soltanto quella fondata sul matrimonio. Tant’è che, come si è detto, nel quadro della integrazione europea, non è tuttora possibile, in Italia, così come in altri Paesi che hanno effettuato le stesse scelte normative, ottenere il riconoscimento pieno dei diritti derivanti da un matrimonio omosessuale contratto all’estero, dovendosi necessariamente operare la c.d. downgrade recognition (v. supra, par. 2, nonché L. Scaffidi Runchella, cit.).


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