Libertà di stabilimento e restrizioni alle trasformazioni internazionali “in uscita”: il caso Polbud

  1. 1. Premessa. La libertà di stabilimento nel diritto e nella giurisprudenza dell’Unione europea.

Come noto, i Trattati istitutivi pongono tra gli obiettivi dell’integrazione europea la realizzazione di un mercato interno nel quale sia «assicurata la libera circolazione delle merci, delle persone, dei servizi e dei capitali» (art. 26 TFUE).

Per ciò che attiene l’iniziativa economica privata e la circolazione dei capitali, in particolare, l’affermazione di tale mercato unico richiede il pieno riconoscimento della cosiddetta libertà di stabilimento, comunemente intesa come il diritto di trasferirsi in uno Stato membro diverso da quello di origine, al fine di esercitarvi una qualsiasi forma di attività economica, di natura non subordinata, alle stesse condizioni normative stabilite dal Paese di destinazione per i propri cittadini.

Tale nozione è delineata dall’art. 49, par. 2, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), in virtù del quale la libertà di stabilimento «importa l’accesso alle attività autonome e al loro esercizio, nonché la costituzione e la gestione di imprese e in particolare di società ai sensi dell’articolo 54, secondo comma, alle condizioni definite dalla legislazione del paese di stabilimento nei confronti dei propri cittadini».

Il principio in parola trova pacificamente applicazione non solo nei confronti dei cittadini europei, ma anche delle società commerciali che, se costituite conformemente alla legislazione di uno Stato membro, vengono equiparate ai primi, diventando così fondamentali centri d’imputazione delle libertà sancite dal diritto europeo delle società e, in particolare, di questa sorta di «libertà di circolazione intracomunitaria dell’impresa e dell’iniziativa economica privata» (v. E. Pederzini, La libertà di stabilimento delle società europee nell’interpretazione evolutiva della Corte di Giustizia. Armonizzazione e concorrenza tra ordinamenti nazionali, in Aa. Vv., Percorsi di diritto societario europeo, Torino, 2016).

Per espressa previsione dei Trattati, peraltro, detta libertà – che si declina, da un lato, nella facoltà di trasferire il centro dell’attività economica in un Paese diverso da quello di origine e, dall’altro, nella possibilità di aprire, nel territorio di uno diverso Stato europeo, filiali, agenzie o succursali di altro genere – può essere soggetta a limitazioni da parte delle normative nazionali, a condizione che, comunque, dette politiche restrittive siano «giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica» (art. 52 TFUE).

L’effettiva portata della libertà di stabilimento e l’ammissibilità delle relative limitazioni hanno costituito l’oggetto di una corposa giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea (CGUE) che, sin dalla fine degli anni ‘80, ne ha offerto una lettura evolutiva, elaborando alcuni principi fondamentali.

La giurisprudenza della CGUE si è concentrata, in particolar modo, sulla situazione di vantaggio enucleata nell’art. 49 TFUE, da cui deriva in primo luogo la facoltà di optare, tra le diverse leges societatis contenute nelle legislazioni nazionali europee, quella ai sensi della quale organizzare la propria impresa collettiva.

A tale proposito, meritano di essere innanzitutto ricordate le note pronunce della CGUE nei casi Daily Mail and General Trust, Cartesio, Inspire Art, Überseering e Centros, tutte caratterizzate dal tentativo di ampliare la portata operativa della libertà di stabilimento e, contestualmente, di elaborare un’interpretazione restrittiva in merito alla facoltà degli Stati membri di scoraggiarne l’esercizio, sottoposta dalla CGUE alle condizioni individuate nel 1995 con la nota sentenza Gebhard (i.e. la natura non discriminatoria delle misure, i motivi imperativi di interesse pubblico, l’idoneità a garantire il raggiungimento dell’obbiettivo perseguito e la proporzionalità rispetto allo scopo da perseguire).

Siffatti temi, peraltro, si intrecciano indissolubilmente con quello dell’abuso della libertà di stabilimento derivante dalla prassi, invalsa tra le persone fisiche e giuridiche europee, di costituire e finanziare società in Stati membri diversi da quello di provenienza al solo scopo di beneficiare di normative fiscali o leges societatis maggiormente favorevoli.

Il tema dell’abuso della libertà di stabilimento è già stato affrontato in passato dalla CGUE: nel già citato caso Centros, ad esempio, i giudici del Kirchberg hanno affermato, in merito al caso di una persona fisica che aveva costituito una società nello Stato le cui norme di diritto societario gli erano sembrate meno severe, nel senso che tale comportamento non possa «costituire di per sé un abuso del diritto di stabilimento» (pt. 26), atteso che «il diritto di costituire una società in conformità alla normativa di uno Stato membro […] è inerente all’esercizio, nell’ambito di un mercato unico, della libertà di stabilimento garantita dal Trattato» (pt. 27).

Detti principi sono stati poi sviluppati dalla CGUE con la sentenza Cadbury Schweppes, pronunciata in relazione a una società costituita in Irlanda da una holding inglese al fine di eludere l’applicazione delle più sfavorevoli disposizioni fiscali del Regno Unito. A tale riguardo, la CGUE aveva affermato che una società con sede in uno Stato dell’Unione europea non può essere privata «della possibilità di avvalersi delle disposizioni del Trattato solo perché ha inteso approfittare dei vantaggi fiscali offerti dalle norme in vigore in uno Stato membro diverso da quello in cui risiede» (pt. 36). La CGUE ha dunque concluso che «la circostanza che la società sia stata creata in uno Stato membro per fruire di una legislazione più vantaggiosa non costituisce per se stessa un abuso di tale libertà» (pt. 37): un principio di diritto che, infine, è stato ripreso nella pronuncia VALE del 2012, relativa ai limiti posti dallo Stato ungherese all’ingresso nel proprio ordinamento, mediante trasformazione internazionale, di una società costituita in Italia.

La CGUE si è da ultimo espressa sulla libertà di stabilimento in virtù di un rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte Suprema della Polonia (Sąd Najwyższy), avente ad oggetto talune norme del diritto polacco, in virtù delle quali il trasferimento all’estero della sede legale delle società costituite in Polonia viene subordinato al previo esperimento di una procedura di liquidazione.

Le riflessioni dei giudici della CGUE, anticipate da interessanti conclusioni dell’Avvocato generale (AG) Juliane Kokott, sono dunque confluite in una recente pronuncia (Corte di giustizia, Grande Sezione, sentenza del 25 ottobre 2017, Polbud-Wykonawstwo sp. z o.o., in liquidazione, causa C‐106/16) che viene seguitamente analizzata.

  1. 2. Il caso Polbud.

In data 30 settembre 2011, l’assemblea dei soci di Polbud-Wykonawstwo sp. z o.o., società a responsabilità limitata avente sede a Lack (Polonia), ha deliberato di trasferire la propria sede legale in Lussemburgo.

Nel maggio del 2013, a seguito dell’effettivo trasferimento, la Polbud ha depositato, in ottemperanza all’art. 270 del Codice delle società commerciali polacco (Kodeks spółek handlowych), un’istanza di cancellazione dal registro delle imprese, dichiarando incidentalmente di non aver provveduto alla liquidazione della società in ragione dell’avvenuto trasferimento della stessa in Lussemburgo, ove la Polbud, rinominata Consoil Geotechnik Sàrl, sarebbe esistita come società di diritto lussemburghese.

Avverso la decisione del giudice del registro – che ha rigettato la domanda di cancellazione della Polbud in virtù del mancato esperimento della procedura di liquidazione – la società ha dato avvio a un procedimento infine pervenuto al vaglio della Corte Suprema polacca che, nel rinvio pregiudiziale qui in esame, ha sottoposto alla CGUE la questione della compatibilità delle disposizioni di diritto polacco che «subordinano la cancellazione dal registro allo scioglimento della società in esito alla messa in liquidazione, qualora la società abbia formato oggetto, in un altro Stato membro, di ricostituzione sulla base di una delibera dei soci di continuazione della personalità giuridica» con gli artt. 49 e 54 TFUE.

Inoltre, il giudice a quo ha chiesto alla CGUE di esprimersi, subordinatamente all’eventuale risposta negativa alla prima questione, in merito ad altri due quesiti: il primo riguardante la conformità dell’obbligo di espletamento della procedura liquidatoria ai canoni del test Gebhard (nel senso, in particolare, che detto obbligo costituisca «una misura adeguata, necessaria e proporzionata a un interesse pubblico meritevole di tutela, qual è la tutela dei creditori, dei soci di minoranza e dei lavoratori della società migrante»), il secondo relativo alla possibilità di interpretare gli artt. 49 e 54 TFUE nel senso che eventuali restrizioni alla libertà di stabilimento possano riguardare società che trasferiscono «la propria sede sociale senza cambiare la sede dello stabilimento principale che rimane nello Stato di costituzione».

Con riferimento a tale ultima questione, peraltro, il giudice del rinvio ha puntualizzato nel proprio rinvio che, nel solco della giurisprudenza europea in materia di libertà di stabilimento, dovrebbe ritenersi ammissibile «verificare se l’intenzione di una società sia quella di stabilire un legame economico duraturo con lo Stato membro ospitante» e, in particolare, «se sia questo lo scopo per il quale essa sta trasferendo la sede legale, intesa come luogo dell’effettiva gestione e dell’effettivo esercizio dell’attività» (pt. 17).

  1. 3. Le conclusioni dell’Avvocato generale Kokott

Pur trovando un riscontro solo parziale nel decisum della Corte, le conclusioni dell’AG Juliane Kokott, presentate il 4 maggio 2017, offrono indubbiamente un primo interessante spunto sulla base del quale analizzare le problematiche giuridiche sollevate dal caso di specie.

L’AG ha ribaltato l’ordine dei quesiti posti dal giudice a quo, che sono stati così individuati: se al caso di specie «trovi applicazione la libertà di stabilimento (terza questione), se sussista una restrizione (prima questione) e se essa possa eventualmente essere giustificata (seconda questione)» (pt. 24).

Dopo aver inquadrato il caso tra quelle “trasformazioni transfrontaliere” in virtù delle quali una società trasferisce – allo scopo di trasformarsi in un’entità giuridica di uno Stato diverso da quello di costituzione –la propria sede sociale senza cambiare la sede effettiva, l’AG ha concentrato la propria attenzione sul primo dei tre quesiti e, in particolare, sulle condizioni d’esercizio della libertà di cui all’art. 49 TFUE.

A tale riguardo, l’iter argomentativo dell’AG presenta elementi di particolare interesse: pur annoverando le trasformazioni transfrontaliere tra le attività economiche il cui esercizio è tutelato dalla libertà di stabilimento, l’AG ha rilevato come queste debbano riflettere «un insediamento effettivo nello Stato membro ospitante e l’esercizio di un’attività economica reale» (pt. 35), in mancanza dei quali (nel caso in cui, ad esempio, una società aspiri unicamente a ottenere una modifica del diritto societario ad essa applicabile), sarebbe da escludersi ogni applicazione della libertà di stabilimento.

A sostegno di tale affermazione, l’AG ha riportato le pronunce rese dalla Corte nei casi Cadbury Schweppes e VALE, ove la CGUE aveva sostenuto – seppur con riferimento alla giustificazione di restrizioni da parte degli Stati, e non ai requisiti per la configurabilità della libertà di stabilimento – che la nozione di stabilimento presupporrebbe l’insediamento effettivo e l’esercizio un’attività economica reale, la quale sarebbe ravvisabile, secondo l’AG, anche alla presenza di un «mero intento di realizzare un tale stabilimento» (VALE, pt. 35).

Da ciò, l’AG ha inferito che la libertà di scegliere il luogo in cui svolgere la propria attività economica è riconosciuta dal diritto dell’Unione europea a condizione che si intenda realizzare un insediamento effettivo, finalizzato all’esercizio di un’attività economica reale, restando comunque impregiudicata«la facoltà dello Stato membro di cui trattasi di definire sia il criterio di collegamento richiesto ad una società affinché essa possa ritenersi costituita ai sensi del suo diritto nazionale, sia quello necessario per continuare a mantenere detto status» (pt. 43).

In definitiva, secondo l’AG, agli operatori economici europei – che pure beneficiano di un’astratta libertà di scegliere il luogo in cui svolgere la propria attività economica – non è, per ciò stesso, concesso di scegliere arbitrariamente il diritto ad essi applicabile, essendo tale scelta subordinata alle condizioni formulate dalla CGUE nei casi VALE e Cadbury Schweppes.

Una volta descritto il perimetro e le condizioni per l’applicazione della libertà di stabilimento, l’AG ha agevolmente affrontato le altre questioni pregiudiziali sollevate dal Sąd Najwyższy, ricordando, in particolare, che per giurisprudenza costante «vanno considerate come restrizioni alla libertà di stabilimento tutte le misure che ne vietano, ostacolano o scoraggiano l’esercizio» (pt. 45) a meno che queste siano finalizzate e adeguate a tutelare creditori, soci di minoranza o lavoratori della medesima società.

Di conseguenza, secondo l’AG dovranno essere ritenute restrittive tutte quelle misure previste dal diritto interno che subordinano la libertà di cui all’art. 49 TFUE alla previa messa in liquidazione della società e alla cancellazione dal registro delle imprese dello Stato di origine: «l’obbligo generale di espletare una procedura di liquidazione», ha rilevato l’AG, non costituirebbe «una misura adeguata per tutelare i creditori, i soci di minoranza e i lavoratori di una società costituita in base al diritto di uno Stato membro che si trasforma in una società conformemente al diritto di un altro Stato membro» (pt. 67).

  1. 4. I principi di diritto espressi dalla Corte di giustizia

In via preliminare, merita di essere segnalato che i giudici della Corte, pur seguendo il ribaltamento dell’ordine delle questioni pregiudiziali suggerito da Juliane Kokott, si sono implicitamente discostati dalla linea argomentativa adottata dall’AG in merito alla necessaria effettività dell’insediamento della società nello Stato di destinazione.

La CGUE non si è confrontata, infatti, con gli argomenti avanzati dall’AG, né ha spiegato quale relazione sussista con i precedenti nei casi VALE e Cadbury Schweppes (cfr. F. Mucciarelli, Trasformazioni internazionali di società dopo la sentenza Polbud: è davvero l’ultima parola?, in Le Società, 12/2017, p. 1331), per le quali la nozione di stabilimento implicherebbe, secondo la ricostruzione dell’AG, «l’esercizio effettivo di un’attività economica per una durata di tempo indeterminata, mercé l’insediamento in pianta stabile nello Stato membro ospitante» (Conclusioni, pt. 34).

Il rigetto della tesi dell’AG, invero, risulta implicitamente dal passaggio con cui i giudici del Kirchberg hanno motivato il mancato accoglimento delle ragioni del governo polacco (e di quello austriaco, intervenuto nel procedimento ai sensi dell’art. 96 del Regolamento di procedura della Corte), secondo il quale «la libertà di stabilimento non può essere invocata quando il trasferimento non è motivato dall’esercizio di un’attività economica effettiva attraverso l’insediamento in pianta stabile nello Stato membro ospitante» (pt. 30).

La CGUE, infatti, ha sostenuto l’erroneità dell’esclusione aprioristica dell’applicazione degli artt. 49 e 54 TFUE alla società che desideri trasformarsi in una società retta dalla lex societatis di un altro Stato membro, «quand’anche detta società svolga l’essenziale, se non il complesso, delle sue attività economiche» (pt. 38) nello Stato membro d’origine: al contrario, secondo la CGUE (che ha richiamato all’uopo le proprie sentenze Centros e Inspire Art), il trasferimento della sede sociale al solo fine di beneficiare di una lex societatis più vantaggiosa non può costituire ex se abuso del diritto di stabilimento.

Né, differentemente da quanto sostenuto dall’AG, parrebbe ostativo a tale conclusione il precedente reso dalla CGUE in VALE, dalla quale discenderebbe unicamente che «ogni Stato membro ha la facoltà di definire il criterio di collegamento richiesto perché una società possa ritenersi costituita secondo la legislazione nazionale dello stesso» (pt. 43).

La CGUE ha, dunque, affermato che dal diritto di stabilimento deriva, una volta accertato il rispetto del criterio di collegamento stabilito dallo Stato ospitante, una piena libertà di scelta della lex societatis, a prescindere da una valutazione circa la localizzazione spaziale delle attività economiche svolte dalle società interessate.

Chiarito tale aspetto, la Corte ha seguito l’iter logico-argomentativo dell’AG nell’affrontare le altre due questioni pregiudiziali, giungendo così alla conclusione che la normativa nazionale di cui al procedimento de quo, «richiedendo la liquidazione della società, […] è tale da ostacolare, se non addirittura impedire, la trasformazione transfrontaliera di una società» (pt. 51).

Le conseguenze derivanti dalle operazioni di liquidazione imposte dalla normativa polacca (tra i quali la conclusione degli affari correnti, la riscossione dei crediti e la realizzazione degli attivi, il soddisfacimento dei creditori o la costituzione di garanzie in loro favore, nonché la presentazione dei relativi bilanci consuntivi) sarebbero, infatti, talmente pervasive e destabilizzanti da disincentivare profondamente il trasferimento «in uscita» dall’ordinamento polacco, costituendo – in definitiva – una restrizione alla libertà di stabilimento.

Tale vulnus, secondo i giudici lussemburghesi, non può godere della giustificazione dei «motivi imperativi di interesse generale» elaborata dalla stessa CGUE nei casi Überseering, SEVIC Systems e National Grid Indus, atteso che, in mancanza di elementi di prova circa l’esistenza di un vulnus a creditori, soci di minoranza o dipendenti della società, non può essere adottata una «presunzione generale di esistenza di un abuso» (pt. 64) come quella sottesa alla normativa polacca, la quale risulta così sproporzionata e, dunque, in aperta violazione degli articoli 49 e 54 TFUE.

  1. 5. Conclusioni. Riflessioni sull’ordinamento italiano

È fuori di dubbio che i principi formulati dalla Corte nel caso in esamerientrino a pieno titolo nel percorso giurisprudenziale che ha plasmato l’interpretazione della libertà di stabilimento e i profili applicativi ad essa connessi.

Le considerazioni dei giudici della CGUE nel caso Polbud sembrano aver dato una risposta negativa all’interrogativo, lasciato aperto dalla precedente giurisprudenza, circa la possibilità di estendere la nozione «stabilimento» elaborata nella pronuncia VALE (che richiederebbe, si è visto, l’accertamento di un «insediamento effettivo» e l’esercizio di «un’attività economica reale» nello Stato di destinazione) a ogni ipotesi di trasferimento di sede legale all’estero.

Rigettando la lettura data dal governo austriaco, la Corte ha affermato che il trasferimento della sede legale è legittimo sia che si accompagni allo spostamento della sede effettiva, sia che la medesima permanga nell’ordinamento di origine: tale ultima ipotesi, infatti, non può «fondare una presunzione generale di frode, né giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato» (Polbud,pt. 63).

In conclusione, merita di essere segnalato il timore, espresso in dottrina, che detto principio venga assimilato con una certa fatica al di fuori della fattispecie assunta nel caso in esame, ovverosia l’obbligo di attuare una procedura di liquidazione imposto dalla normativa polacca (cfr. F. Garcimartín, Changes of Lex Societatis: A Quick Comment on the Polbud Case, in Oxford Business Law Blog, 5 luglio 2017).

Tale difficoltà deriverebbe dall’eterogeneità normativa tra gli Stati europei in materia di operazioni transfrontaliere e lex societatis, frutto della mancanza di una visione comune europea e della profonda incertezza giuridica in merito a principi fondamentali e ad aspetti applicativi connessi alla libertà di stabilimento (si veda, a tale riguardo, l’approfondito report del 2016 della Commissione europea).

Una situazione peculiare è proprio quella dell’ordinamento italiano, dove la mancanza di prescrizioni precise e vincolanti ha portato all’emersione di rilevanti divergenze in materia di cross-border reincorporations (cfr. Commissione Europea, Study on the law applicable to companies, 4 aprile 2017, p. 272), aggravata da una certa ritrosia del legislatore nel disciplinare tali questioni di grande delicatezza, in quanto legate al più ampio tema del controllo, da parte della sfera pubblica, dei comportamenti “in uscita” delle società con sede in Italia.

In mancanza di una disciplina espressa, pertanto, si può ragionevolmente ritenere che le considerazioni della Corte nel caso Polbud, pur rilevantissime sul versante dei principi di diritto, si disperderanno nell’attività interpretativa dei giudici italiani (ai quali, tra le altre cose, sarà preclusa ogni interpretazione restrittiva dell’art. 25 della legge n. 218/1995 sul diritto internazionale privato, in materia di legge applicabile alle società italiane) e, soprattutto, nella prassi dei molteplici ordini notarili e dei conservatori dei registri delle imprese locali, sulla cui sensibilità all’evolversi della giurisprudenza dell’Unione europea ci si permette, nondimeno, di esprimere qualche perplessità.


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