Le conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa c.d. Taricco bis stentano a trovare un’auspicabile soluzione di compromesso: verso un conflitto tra le Corti?

  1. 1. Dopo un’udienza di discussione molto partecipata, durata quasi quattro ore (su cui v. M. Aranci), il 18 luglio scorso sono state depositate le conclusioni dell’avvocato generale Bot nella causa c.d. Taricco bis (C-42/17, M.A.S. e M.B.), originata – lo si ricorda – dal rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale italiana (su cui v. in questa Rivista, C. Amalfitano, L. Daniele,nonché A. Bernardi, C. Cupelli (a cura di), Il caso Taricco e il dialogo tra le Corti. L’ordinanza 24/2017 della Corte costituzionale, Jovene, Napoli, 2017), investita a sua volta dalla Corte di Cassazione e dalla Corte d’Appello di Milano di alcuni dubbi di legittimità costituzionale, in particolare circa la compatibilità della soluzione fornita dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco(su cui v. i numerosi contributi comparsi su Diritto Penale Contemporaneo)con il principio di legalità in materia penale previsto dalla nostra Costituzione.

2. L’avvocato generale – lo si anticipa – riafferma in toto la sussistenza di un obbligo in capo al giudice nazionale di disapplicare il regime sull’allungamento massimo dei termini di prescrizione vigente in Italia, ritenendo solamente necessaria, rispetto alla soluzione fornita in Taricco, una definizione più precisa dei criteri che giustificano questo obbligo. Ciò che qui interessa maggiormente è però il ragionamento, per molti versi criticabile, posto a fondamento di una così netta presa di posizione. L’avvocato generale, infatti, partendo da una singolare equiparazione de facto della prescrizione italiana al diverso istituto della decadenza, si spinge fino a forgiare una nozione autonoma di interruzione della prescrizione nel diritto UE.

Più nel dettaglio, le conclusioni cominciano con il rilevare che le disposizioni del nostro codice penale poiché, da un lato, limitano i casi in cui la decorrenza della prescrizione può essere interrotta, e, dall’altro lato, prevedono, al verificarsi di un atto interruttivo, unicamente un prolungamento del termine iniziale, e per una sola volta, fisserebbero in realtà quello che l’avvocato generale chiama un «délai préfix», vale a dire un termine di decadenza (si noti che il termine è espresso in lingua francese anche nella versione italiana delle conclusioni: ciò può essere dovuto al fatto che l’avvocato generale ha inteso fare riferimento ad una nozione propria dell’ordinamento giuridico d’oltralpe).

Tanto osservato, l’avvocato generale afferma, in un passaggio sibillino, che «tale nozione [quella italiana, assimilata al délai préfix] è dunque incompatibile con la nozione stessa di prescrizione» (punto 79).

L’avvocato generale precisa sul punto che il regime della prescrizione italiano, cosìcome congegnato, non consente, in definitiva, al giudice nazionale, nonostante tutti gli sforzi dallo stesso compiuti, di applicare agli atti commessi la normale sanzione che questi meritano. Proprio per tale ragione il regime in questione risulta in contrasto con il principio di effettività del diritto UE, sul quale si fonda, in particolare, l’art. 325 TFUE (punto 83). Il regime di prescrizione italiano, poi, in quanto assimilabile nella sostanza ad un termine di decadenza, produrrebbe «l’effetto perverso» (punto 93) di attribuire un diritto all’impunità, in contrasto con il principio del termine ragionevole di cui all’art. 6 CEDU, che invece impone che la durata del procedimento sia proporzionata alla complessità oggettiva della causa, alla rilevanza della controversia nonché al comportamento delle parti e delle autorità competenti.

Il sistema italiano, d’altra parte, non sarebbe il solo a risultare inadeguato sotto questo profilo. Nell’analizzare il testo della proposta di direttiva PIF, l’avvocato generale si duole infatti della «previsione di un sistema di prescrizione che ricalca il regime procedurale in discussione nella presente causa, i cui effetti sono identici a quelli generati dal combinato disposto dell’articolo 160, ultimo comma, e dell’articolo 161, secondo comma, del codice penale […] soggetto alle stesse censure, in quanto esso comporta in realtà gli stessi rischi» (punto 96), trattandosi di un sistema che stabilisce anch’esso un termine massimo e assoluto del procedimento.

Al contrario, secondo l’avvocato generale, sarebbe legittimo prevedere un termine che inizi a decorrere dal giorno della commissione del reato, mentre il procedimento penale, una volta avviato, dovrebbe svolgersi sino alla sua conclusione, con l’unico limite del rispetto del principio del termine ragionevole, quale definito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (punto 98). Ecco allora che, a partire da siffatta considerazione, l’avvocato generale conia un “idealtipo” di interruzione della prescrizione, assegnandogli l’etichetta di nozione autonoma del diritto UE, tale per cui «ogni atto diretto al perseguimento del reato nonché ogni atto che ne costituisce la necessaria prosecuzione interrompe il termine di prescrizione; tale atto fa quindi decorrere un nuovo termine, identico al termine iniziale, mentre il termine di prescrizione già decorso viene cancellato» (punto 101).

L’avvocato generale, tuttavia, nel suggerire alla Corte di giustizia di adottare nella sostanza la nozione francese di prescrizione, propone una soluzione che, se accolta, non farebbe che aggravare l’attrito con la Corte Costituzionale, che già evidenziava nel rinvio una violazione del principio di legalità e di separazione dei poteri.

  1.  3. Non risulta affatto scontato, d’altra parte, che, per garantire l’effettività della sanzione, debba pervenirsi all’eliminazione de facto dell’istituto della prescrizione una volta avviato il procedimento. Tanto è dimostrato dallo stesso progetto di direttiva citato dall’avvocato generale, che, nel frattempo, è stata adottata. A tal proposito, si noti che la direttiva PIF, alla data in cui si scrive già pubblicata in GUUE, con specifico riferimento ai termini di prescrizione, impone agli Stati membri di fissare per l’intervento di indagini, azione penale, processo e decisione giudiziaria un periodo di prescrizione di almeno cinque anni dal momento in cui è stato commesso un reato punibile con una pena massima di almeno quattro anni di reclusione; è prevista tuttavia una deroga, tale per cui può essere fissato un termine di prescrizione più breve di cinque anni, comunque non inferiore a tre anni, a condizione che gli Stati membri prevedano che tale termine possa essere interrotto o sospeso in caso di determinati atti (art. 12, parr. 2 e 3).

Rispetto alla proposta originaria, è scomparsa invece la previsione che «Gli Stati membri assicurano che il termine di prescrizione sia interrotto e ricominci a decorrere da qualunque atto di un’autorità nazionale competente, compreso in particolare l’inizio effettivo dell’indagine o dell’azione penale, almeno fino a dieci anni a partire dal momento in cui il reato è stato commesso» (art. 12, par. 2 della proposta).

Come si vede, quindi, la direttiva lascia liberi gli Stati membri di adottare un termine di prescrizione più breve laddove siano previsti degli atti interruttivi non meglio specificati, con ciò ammettendo a contrario la non necessità di un’interruzione, fermo restando, ça va sans dire, che lo Stato deve adottare anche su questo fronte le misure necessarie per contrastare efficacemente i reati che vengono in rilievo.

Questione che deve essere tenuta distinta è poi quella sollevata qualche punto più avanti in merito all’opportunità di un’armonizzazione delle norme sulla prescrizione, per garantire una tutela degli interessi finanziari dell’Unione equivalente e uniforme in tutti gli Stati membri ed evitare fenomeni di forum shopping, elemento impiegato dall’avvocato generale per ribadire ancora una volta la legittimità dell’obbligo di disapplicazione imposto al giudice nazionale sulla base dell’art. 325, parr. 1 e 2, TFUE.

  1. 4. É sul versante dei criteri che il giudice nazionale è chiamato ad utilizzare per stabilire quando procedere alla disapplicazione, invece, che l’avvocato generale ritiene di dover precisare la pronuncia Taricco della Corte di giustizia, che, come è noto, ha fatto riferimento a due parametri: quello della gravità della violazione degli interessi finanziari dell’Unione e quello del «numero considerevole di casi» in cui sia impedito «di infliggere sanzioni effettive e dissuasive».

Sul punto, l’avvocato generale, nel concordare con la nostra Corte costituzionale sul fatto che si tratti di criteri vaghi e generici, che rischiano di «introdurre un elemento di soggettività nella valutazione richiesta» (punto 112), propone che l’obbligo di disapplicazione «sia fondato esclusivamente sulla natura del reato, e che spetti al legislatore dell’Unione definire detta natura» (punto 116), escludendo invece la necessità di una valutazione della sistematicità legata al numero considerevole di casi, trattandosi effettivamente di un’operazione delicata per il giudice nazionale investito della controversia. Prendendo a prestito la definizione di reati gravi lesivi degli interessi finanziari dell’Unione, contenuta nella proposta di direttiva PIF, l’avvocato generale Bot arriva dunque alla conclusione che possono ritenersi gravi «tutti i reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di EUR 10 milioni» (punto 117; v. anche art. 2, par. 2, direttiva PIF), soglia peraltro diversa da quella stabilita dalla Convenzione PIF (cinquantamila euro), che resterà in vigore fino al 5 luglio 2019 ex art. 16 direttiva PIF.

L’avvocato generale risolve così in pochi passaggi la questione posta dalla Corte costituzionale riguardo all’assenza di una base legale sufficientemente determinata, cercando in questo caso una soluzione di compromesso, tesa a salvaguardare il principio di certezza del diritto. L’effetto ultimo di una tale operazione, consistente nell’abolizione totale di uno dei due criteri fissati dalla Corte di giustizia, parrebbe quello di ampliare il novero di ipotesi in cui il regime della prescrizione andrebbe disapplicato. Si può però ipotizzare che nella pratica la soglia di 10 milioni di euro (ben superiore rispetto a quella di cinquantamila euro) possa risultare difficile da raggiungere, per cui si perverrebbe ad una sostanziale vanificazione dell’obbligo di disapplicazione imposto nella pronuncia Taricco.

  1. 5. Chiarito che l’art. 325 TFUE impone al giudice nazionale di disapplicare un regime della prescrizione che sostanzialmente determina l’impunità degli imputati, l’avvocato generale si sofferma sugli effetti nel tempo di siffatto obbligo, richiamando a tal proposito quella giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte europea dei diritti dell’uomo che qualifica le norme sulla prescrizione come «leggi processuali». In particolare, l’avvocato generale Bot ricorda quanto statuito nella sentenza Taricco, vale a dire che l’articolo 49 della Carta non vieterebbe al giudice nazionale di applicare ad un procedimento in corso un termine di prescrizione più lungo di quello previsto nel momento in cui il reato è stato commesso, giacché l’articolo in questione comprende unicamente la definizione dei reati, nonché il livello delle pene ad essi applicabili e non anche la determinazione dei termini di prescrizione. Si tratta del resto, osserva l’avvocato generale, di una valutazione in linea con la giurisprudenza della Corte EDU relativa alla portata del principio di legalità dei reati e delle pene sancito dall’art. 7 CEDU, che – come già accennato – ha qualificato in svariate pronunce le norme sulla prescrizione come «leggi processuali». Al riguardo, l’avvocato generale non fa che allinearsi ai precedenti, senza preoccuparsi, quando cita la sentenza Coëme c. Belgio (punto 128), di delineare le differenze che sussistono tra l’ordinamento belga e quello italiano in materia di prescrizione.

Singolare appare poi la scelta di richiamare la sentenza Previti c. Italia (punti 133-134). Quest’ultima infatti aveva ad oggetto il regime transitorio stabilito dalla legge ex Cirielli, indubbiamente da qualificarsi come legge processuale, e, ad ogni modo, verteva sull’applicabilità del principio di retroattività in bonam partem, derogabile anche secondo la nostra Corte costituzionale, purché venga rispettato il canone della ragionevolezza, e da tenere ben distinto, già a partire dal referente costituzionale, dal principio di irretroattività in malam partem, al contrario assolutamente inderogabile.

L’avvocato generale risolve comunque la questione nel senso che, alla luce degli elementi esposti, nulla osta a che il giudice nazionale disapplichi le disposizioni di cui all’articolo 160, ultimo comma, e all’articolo 161, secondo comma, del codice penale, anche nell’ambito dei procedimenti in corso.

Così concludendo, l’avvocato generale non fa che riaffermare quanto già statuito nella sentenza Taricco, senza dare una risposta soddisfacente ai rilievi formulati dalla nostra Corte Costituzionale. Quest’ultima, infatti, ben consapevole della qualificazione fornita a livello sovranazionale dell’istituto della prescrizione, chiedeva alla Corte di giustizia non solo un’interpretazione delle norme appartenenti all’ordinamento dell’Unione, quale l’art. 49 CDFUE, ma anche del principio di legalità in materia penale come definito dall’ordinamento italiano (v. M. Aranci, Ritorno a Lussemburgo).

  1. 6. Il Giudice delle leggi, infatti, nell’ordinanza di rimessione ha ben evidenziato che l’ordinamento interno offre agli imputati una protezione ulteriore rispetto a quella sancita dall’art. 49 CDFUE e dall’art. 7 CEDU, traendone la conseguenza che nel caso di specie, rispetto al dictum della Corte di giustizia, debba prevalere, ai sensi dell’art. 53 CDFUE, la tutela di un diritto fondamentale, tenuto anche conto dell’assenza di una normativa armonizzata, elemento, questo, di differenziazione rispetto alla celebre sentenza Melloni.

Anche sotto questo profilo l’avvocato generale è fermo nell’escludere che possa essere accolta l’interpretazione prospettata dal giudice remittente dell’art. 53 CDFUE. Ciò in quanto siffatta interpretazione andrebbe a violare «una caratteristica essenziale dell’ordinamento giuridico dell’Unione, ossia il principio del primato del diritto dell’Unione» (punto 156).

Benché, stando ad una distinzione suggerita dallo stesso avvocato Bot nella causa Melloni, il caso in specie rientri tra quelli in cui il livello di protezione che deve essere accordato ad un diritto fondamentale in sede di attuazione di un’azione dell’Unione non è stato oggetto di una definizione comune, il margine di discrezionalità più ampio accordato allo Stato membro nello stabilire il livello di protezione dei diritti fondamentali che esso intende garantire all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale trova comunque un limite nella corretta attuazione del diritto dell’Unione e nella lesione di altri diritti fondamentali protetti in forza del diritto dell’Unione (punto 162). In altri termini, il livello di tutela più elevato alla persona sottoposta a procedimento penale quando è in discussione l’applicazione delle norme sulla prescrizione deve in ogni caso garantire il primato e l’effettività del diritto dell’Unione. Al contrario, l’applicazione del livello di tutela di cui all’art. 25, par. 2, della Costituzione italiana, secondo l’avvocato generale, comprometterebbe sia il primato del diritto dell’Unione, visto che consentirebbe di ostacolare l’attuazione di un obbligo stabilito dalla Corte di giustizia, sia l’effettività del diritto dell’Unione, «in quanto i reati di cui trattasi, che ledono gli interessi finanziari di quest’ultima, non potranno essere oggetto di una condanna definitiva tenuto conto del termine di prescrizione assoluto, e resteranno quindi impuniti» (punto 167).

  1. 7. Viene escluso, infine, che l’art. 4, par. 2, TUE, e il rispetto dell’identità nazionale che lo stesso sancisce, possano venire in rilievo nel caso di specie. Ciò in quanto, secondo l’avvocato generale ( che – destando qualche perplessità – cita a tal proposito la posizione espressa dal Governo italiano nella causa Gauweiler e non nell’udienza della presente causa), il principio di legalità dei reati e delle pene non rientrerebbe tra i principi «supremi» o «fondamentali» dell’ordinamento costituzionale italiano. Le conclusioni, tuttavia, oltre ad adottare un’interpretazione eccessivamente letterale laddove puntualizzano che solo gli artt. 1-12 Cost. sono qualificati espressamente come fondamentali dalla nostra Carta, non sembrano tenere minimamente conto che l’interlocutore della Corte di giustizia non è un qualsiasi giudice comune ma la Corte costituzionale stessa, cui spetta in definitiva stabilire quali principi sono da considerare fondamentali per l’ordinamento italiano e, di conseguenza, all’occorrenza «controlimiti», secondo una configurazione necessariamente autonoma.
  2. 8. Invero, come lo stesso avvocato generale osserva in apertura, la Corte costituzionale ha illustrato in modo assai chiaro che, nel caso in cui la Corte di giustizia dovesse mantenere la propria interpretazione dell’art. 325 TFUE in termini identici a quelli formulati nella sentenza Taricco, essa potrebbe allora dichiarare la legge nazionale di ratifica e di esecuzione del Trattato di Lisbona – nei limiti in cui essa ratifica e dà esecuzione all’articolo 325 TFUE – contraria ai principi supremi del suo ordinamento costituzionale, giacché risulterebbe violato un diritto fondamentale degli individui, fissato dall’art. 25, comma 2, Cost.  Diritto fondamentale peraltro richiamato anche dalla Corte di giustizia nella sentenza del 2015, laddove demanda al giudice nazionale di «assicurarsi che i diritti fondamentali degli interessati siano rispettati» (cfr. punto 53).

In attesa del pronunciamento della Corte di giustizia, tenuto conto della posta in gioco – il rischio di un conflitto interordinamentale – le conclusioni sollevano non poche perplessità (in senso critico, v. anche M. Bassini, O. Pollicino), non rinvenendosi alcuno spunto nelle osservazioni dell’avvocato generaleche possa essere utile alla Corte per raggiungere quell’auspicabile soluzione di compromesso, anche non perfettamente rispondente alle richieste della Corte costituzionale, che tenga conto delle specificità del nostro ordinamento.

Il filo conduttore delle conclusioni si desume dalle considerazioni preliminari, in cui si fa presente, senza peraltro analizzare la recente riforma Orlando del giugno 2017, che la questione dell’incidenza delle norme in materia di prescrizione previste nel codice penale sull’effettività dei procedimenti penali è già stata oggetto di numerose relazioni e raccomandazioni rivolte alla Repubblica italiana, nelle quali venivano censurate le regole e i metodi di calcolo applicabili alla prescrizione e, in particolare, l’esistenza di un termine di prescrizione assoluto. Ed invero l’atteggiamento dell’avvocato generale ricorda un po’ quello della Commissione nell’ambito di una procedura d’infrazione nei confronti dello Stato italiano, laddove ritiene che, di fronte ad un regime della prescrizione vigente in Italia, che ostacola notevolmente – e questo è indubbio – l’efficacia del regime sanzionatorio delle frodi IVA (e non solo), debba prevalere l’effettività del diritto dell’Unione ad ogni costo, anche impiegando una nozione autonoma di interruzione della prescrizione, che in buona sostanza elimina la prescrizione stessa una volta avviato il procedimento. Così ragionando, però, l’avvocato generale, salvo che per quanto attiene alle precisazioni svolte riguardo ai criteri per procedere alla disapplicazione, non prende davvero posizione sugli (altrettanto) indubbi problemi che la sentenza Taricco comporta per il nostro sistema.


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