L’Accordo e l’allargamento dell’Unione

L’accordo tra l’Unione europea e il Regno Unito (d’ora innanzi, Accordo UE – Regno Unito) è destinato a durare nel tempo, benché sia denunciabile da entrambe le parti senza condizioni né termini (art. FINPROV.8: l’accordo cessa di produrre effetti un anno dopo la data della notifica della denuncia). Il suo ambito spaziale comprende il territorio del Regno Unito e i territori in cui si applicano il TUE, il TFUE e il TCEEA, alle condizioni in essi indicati (art. FINPROV.1). Ne consegue che ogni modifica del territorio del Regno Unito o dell’Unione si riflette automaticamente sull’ambito di applicazione dell’Accordo UE-Regno Unito. Per quanto riguarda l’Unione, una modifica del territorio può derivare dal recesso di uno Stato membro, dall’adesione di altri Stati, da una modifica degli art. 349 e 355 TFUE che definiscono l’ambito di applicazione ratione loci del diritto dell’Unione. Nelle righe che seguono saranno svolte alcune considerazioni sull’effetto dell’adesione all’Unione di nuovi Stati sull’Accordo UE-Regno Unito.

L’adesione all’Unione comporta l’applicazione dell’intero acquis al nuovo membro, a decorrere dalla data dell’allargamento, salve le deroghe previste dall’atto di adesione stesso. Gli accordi conclusi dall’Unione con i paesi terzi sono ricompresi nell’acquis e di conseguenza il nuovo membro sarà vincolato ad essi (si v. da ultimo, l’art. 6, co. 1, dell’atto di adesione della Croazia. Disposizioni analoghe si ritrovano in tutti gli atti di adesione, a partire da quello di Danimarca, Irlanda e Regno Unito. Disposizioni ulteriori sono invece dedicate agli accordi misti, che in questa sede non rilevano). Per l’altra parte contraente, l’estensione del territorio dell’Unione, conseguente all’allargamento, è da intendersi come una questione di mobilità delle frontiere dei trattati.

In alcuni degli accordi più recenti negoziati dall’Unione con i paesi terzi è presente un articolo intitolato Future adesioni all’Unione (art. 49 dell’Accordo di partenariato strategico tra l’Unione europea e i suoi Stati membri, da una parte, e il Giappone, dall’altra, Tokyo 17.7.2018, in GUUE L 216 del 24.8.2018; art. 23.7 dell’Accordo tra l’Unione europea e il Giappone per un partenariato economico, Tokyo 17.7.2018, in GUUE L 330 del 27.12.2018, art. 16.19 dell’Accordo di libero scambio tra l’Unione europea e la Repubblica di Singapore, Bruxelles, 19.10.2018, in GUUE L 294 del 14.11.2019). Anche l’Accordo UE-Regno Unito contiene una disposizione con questo titolo, l’art. FINPROV.10, ma dal contenuto più articolato. La questione merita qualche riflessione perché, a differenza di altri paesi terzi che non appartengono al continente europeo, il Regno Unito non solo è un ex membro dell’Unione, ma alcune delle sue nazioni costitutive manifestano istanze indipendentiste (la Scozia, innanzitutto, ma anche l’Irlanda del Nord, della cui riunificazione con l’Irlanda si ricomincia a parlare), che, se realizzate potrebbero portare a nuove domande di adesione all’Unione.

L’art. FINPROV.10 presenta alcune analogie con gli omologhi articoli degli altri accordi dell’Unione, ma anche importanti differenze. Il Regno Unito andrà informato di ogni nuova domanda di adesione; durante i negoziati di adesione (anche quelli già in corso), l’Unione fornirà a richiesta ogni informazione su questioni disciplinate dall’accordo; il consiglio di partenariato esaminerà gli effetti dell’adesione sull’accordo; se necessario, le parti potranno modificare l’accordo, e il consiglio di partenariato potrà adottare con decisione adeguamenti all’accordo o disposizioni transitorie. Fin qui, la parte comune, più articolata rispetto agli altri accordi, ma equivalente nella sostanza. La peculiarità riguarda invece la previsione secondo la quale una disposizione dell’Accordo UE-Regno Unito, l’art. VSTV.1, Visti per soggiorni di breve durata, non si applicherà al nuovo membro dell’Unione, a meno che le parti decidano in sede di consiglio di partenariato di applicarlo tout court o secondo disposizioni transitorie, alla cui scadenza le parti dovranno decidere se applicarlo in modo definitivo o non applicarlo affatto.

L’art. VSTV.1 non riguarda la disciplina sostanziale relativa all’ammissione al territorio delle parti contraenti, ma prende atto che le parti, al momento dell’entrata in vigore dell’accordo, prevedono ciascuna l’esenzione dall’obbligo di visto per i soggiorni di breve durata a favore dei cittadini dell’altra (per quanto riguarda l’Unione, si v. il Regolamento (UE) 2019/592). Regola invece due aspetti importanti: 1) fa obbligo a ciascuna parte di notificare all’altra con dovuto anticipo l’intenzione di imporre il visto ai cittadini dell’altra parte e 2) stabilisce che il Regno Unito non può richiedere selettivamente il visto ai cittadini di uno o più Stati membri, perché l’obbligo di visto che dovesse prevedere per i cittadini di uno Stato membro si estenderà ai cittadini di tutti gli Stati membri. Dal punto di vista dell’Unione, questa previsione può essere letta come una conferma del carattere unitario della sua proiezione esterna e un modo per prevenire problemi concreti analoghi a quelli che deve fronteggiare con gli Stati Uniti, che chiedono il visto ai cittadini di alcuni degli Stati membri soltanto. Se in base al reg. 2018/1806, la Commissione interviene presso lo Stato terzo che non assicura la reciprocità e se non ottiene il ripristino dell’esenzione dai visti può adottare misure di ritorsione nella forma della sospensione dell’esenzione per i cittadini dello Stato in questione, il contenzioso con gli Stati Uniti dimostra che questa disciplina non è molto efficace (si v. da ultimo, la Comunicazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Bilancio della situazione di non reciprocità nel settore della politica dei visti, COM/2020/119). Data la sproporzione numerica dei cittadini del Regno Unito e dei cittadini dell’Unione (che invece non sussiste nei rapporti tra UE e USA), la decisione del Regno Unito di reintrodurre i visti potrebbe avere un effetto controproducente, perché potrebbe finire per danneggiare gli interessi economici del paese. D’altra parte, se il Regno Unito persistesse nella decisione di colpire solo i cittadini di uno Stato membro, violerebbe l’Accordo UE-Regno Unito, dando così all’Unione ulteriori argomenti per rendere più efficace il suo intervento.

Escludere l’estensione automatica dell’art. VSTV.1 ai nuovi Stati membri dell’Unione sottintende la volontà di non modificare l’equilibrio esistente al momento della conclusione dell’Accordo UE-Regno Unito, e di considerare a parte la situazione di ogni nuovo Stato aderente. Per il Regno Unito, “to take back control” in materia di immigrazione è stata una parola d’ordine ripetuta con insistenza. È vero che l’accordo non riguarda la circolazione delle persone, ma l’esenzione dell’obbligo di visto per soggiorni di breve periodo consente l’ingresso legale nel paese a persone che potrebbero non attenersi ai limiti temporali del visto e aggirare le disposizioni nazionali in materia di immigrazione. Tra i paesi che beneficiano dell’esenzione dall’obbligo di visto nell’Unione e i cui cittadini, a detta di alcuni Stati membri, tra i quali il Regno Unito prima del recesso, abusano di questo vantaggio, per chiedere protezione internazionale o per rendersi irreperibili, sono annoverati i paesi balcanici candidati all’adesione (v. veda l’ultima relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio, Terza relazione nell’ambito del meccanismo di sospensione dei visti, COM/2020/325). Lasciare al Regno Unito la scelta di reintrodurre l’obbligo di visto per i cittadini dei soli Stati di nuova adesione (soluzione alla quale si può arrivare se le parti nulla decidono oppure se il consiglio di partenariato non decide a favore dell’applicazione della disposizione alla fine del periodo transitorio da esso stesso stabilito) comporta una rottura di quella unità che l’Unione cerca di promuovere e introduce una differenziazione tra cittadini dell’Unione a seconda dello Stato membro di origine, che finora l’Unione è riuscita a evitare sia nell’accordo di recesso, sia appunto nell’accordo sulle future relazioni.

È quindi il timore dell’immigrazione, non già quello delle istanze indipendentiste, che sembra aver giustificato la redazione dell’art. FINPROV.10 appena esaminato. Esigenze analoghe non sono invece presenti negli altri Stati con cui l’Unione ha concluso un accordo che contiene l’articolo sulle future adesioni: il Vietnam è elencato tra i paesi i cui cittadini hanno bisogno di visto; i cittadini di Giappone e Singapore sono invece esenti dall’obbligo di visto, ma la lontananza geografica e i costi di viaggio rendono il rischio immigrazione poco significativo


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