La tutela del consumatore nell’ applicazione delle norme di concorrenza dell’Unione

1. In occasione di questo convegno celebrativo mi sono chiesto se e come sia cambiato in questi 60 anni il rapporto tra il consumatore e il diritto della concorrenza e lo spunto è venuto provando ad immaginare gli effetti che la direttiva 2014/104/UE (per un’analisi del testo della direttiva si rimanda al contributo pubblicato in Rivista di F. Rossi Dal Pozzo, La direttiva sul risarcimento del danno da illecito antitrust. Armonizzazione delle regole nazionali in tema di private enforcement o occasione mancata?, 11 dicembre 2014) in tema di private enforcement potrà avere negli ordinamenti nazionali, a partire dall’ordinamento italiano in cui è stata recentemente trasposta con il d.lgs. n. 3 dello scorso gennaio.

Queste mie breve riflessioni che seguiranno muovono da una constatazione: se da un lato le norme di rango primario, contenute oggi nella Sezione 1, Capo 1 del titolo VII del TFUE, hanno subito dal Trattato di Roma a quello di Lisbona ben poche modifiche, per lo più cosmetiche, dall’altro lato nel tempo è profondamente mutata la politica di concorrenza della Comunità, oggi dell’Unione, e questo lo si deve ancora una volta all’apporto creativo della Corte che ha sapientemente tracciato le direttrici di sviluppo della materia in considerazione dei diversi momenti storici, influenzando, di conseguenza, il legislatore.

2. La premessa, certamente banale, è che la concorrenza non è in rerum natura, ma è il diritto che seleziona il metodo di competizione più congeniale tenuto conto degli obiettivi che si intende di volta in volta perseguire. Così in principio la concorrenza è stata considerata funzionale alla realizzazione di un mercato comune perché idonea ad abbattere le barriere al commercio intracomunitario erette anche dai comportamenti delle imprese, spesso tollerati se non talvolta agevolati dagli Stati. È in un momento successivo, direi a partire dalla metà degli anni 70, che il diritto comunitario della concorrenza comincia a essere interpretato in chiave economica. Basti citare alcune note sentenze (United Brands, Metro, Continental Can) in cui la Corte ha fatto sempre più riferimento alla nozione di workable competition, concorrenza efficace. Per arrivare, poi, agli inizi di questo secolo ad affermare all’interno della disciplina antitrust un nuovo paradigma applicativo basato sull’impatto concreto delle condotte sul mercato, e, dunque, anche sulla misurazione della perdita di benessere dei consumatori.

Grazie a questo nuovo approccio, essenzialmente economico, il benessere dei consumatori è giunto a conquistare un’indubbia centralità; un diverso ruolo che si spiega con il minore rilievo dato, in ragione dei risultati già ottenuti, all’obiettivo dell’integrazione dei mercati e con l’esigenza di creare un maggiore consenso per le politiche comunitarie in generale e per quelle di concorrenza in particolare. Basti citare, in proposito, le parole pronunciate nel 2010 dall’allora commissario europeo per la concorrenza Almunia il quale, poco dopo essere stato nominato, affermava che la politica in materia di concorrenza altro non è se non “a tool at the service of consumers”. Una maggiore attenzione alle esigenze del consumatore che ha portato e tuttora porta a un sempre più frequente ricorso da parte delle autorità di concorrenza ai poteri che in senso lato rientrano nel campo della c.d. “moral suasion”. Un esempio per tutti: le indagini di settore, che (peraltro costituendo spesso il preludio ad azioni di public enforcement) consentono di condividere con gli operatori le impressioni sulle dinamiche concorrenziali, incoraggiandoli anche a modificare il proprio comportamento al fine di evitare l’avvio di procedimenti formali.

Nondimeno, la Corte, svolgendo un ruolo equilibratore, ha continuato a sostenere che la protezione dei consumatori avviene indirettamente attraverso il mantenimento di una struttura competitiva del mercato. Il ragionamento è di immediata comprensione con riferimento alla categoria degli abusi escludenti, ad esempio sotto forma di prezzi predatori, che, a prima vista, sembrano vantaggiosi per i consumatori, ma a lungo andare li danneggiano in quanto pregiudicano l’esistenza di una concorrenza effettiva.

Questa concezione pluridimensionale del diritto della concorrenza non è cambiata neppure con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona che pure ha relegato in un nuovo Protocollo (il n° 27) l’obiettivo di instaurare un mercato interno in cui la concorrenza non sia falsata. La Corte ha,infatti, escluso che tale innovazione abbia determinato conseguenze sostanziali per la politica antitrust dell’Unione, smentendo chi in questa revisione ad opera del Trattato di riforma aveva letto una sorta di declassamento della concorrenza che sarebbe passata da obiettivo fondamentale a mero strumento per la realizzazione del benessere sociale.

3. Al tempo stesso, la Corte superando l’impostazione classica di matrice esclusivamente pubblicistica già qualche anno prima aveva fatto entrare il diritto della concorrenza in una nuova dimensione, quella privata. Con le note sentenze Courage e Manfredi la Corte ha riconosciuto, in virtù dell’effetto diretto degli attuali artt. 101 e 102 del TFUE, un diritto ad essere risarcito per chiunque, consumatore incluso, venga danneggiato da una condotta anticoncorrenziale.

Un diritto che oggi si regge su tre norme dell’Unione di rango primario: l’art. 4, par. 3 del TUE, l’art. 47 della Carta che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo e ad un giudice imparziale, e l’art. 19 del TUE nella parte in cui si afferma che: «[g]li Stati membri stabiliscono i rimedi giurisdizionali necessari per assicurare una tutela giurisdizionale effettiva nei settori disciplinati dal diritto dell’Unione», dove l’ultima delle disposizioni richiamate funge da ideale cerniera fra le prime due. Con la conseguenza che tale diritto trova fondamento in due principi di rango “costituzionale”: quello della leale cooperazione e quello del rispetto dei diritti fondamentali.

Ma il diritto al risarcimento è, anche, considerato funzionale alla tutela degli interessi pubblici in virtù della sua natura deterrente. In quest’ottica, l’applicazione giudiziale delle norme antitrust, da un lato, consente il ristoro delle posizioni soggettive lese e, dall’altro lato, contribuisce in modo sostanziale al mantenimento di una concorrenza effettiva.

Insomma, la convinzione diffusa è che l’interesse dei consumatori ad essere risarciti per il danno patito e quello delle autorità pubbliche a reprimere le violazioni siano pienamente conciliabili.

4. Poi sono iniziati i dubbi quando ci si è resi conto che quegli interessi in realtà coincidono solo parzialmente e, per certi versi, possono perfino confliggere e così si è ritenuto indispensabile intervenire in via legislativa con la direttiva 2014/104/UE che, per l’appunto, rappresenta una normativa di completamento e coordinamento in quanto mira a «garantire un’efficace applicazione al contempo a livello privatistico e pubblicistico delle norme sulla concorrenza dell’Unione, intese come norme di “ordine pubblico” e, sia in parallelo, sia in autonomia, di quelle nazionali. Questo c.d. parallelismo delle violazioni, che determina il superamento del criterio della barriera unica, ha reso opportuna una modifica dell’art. 1 della nostra legge 287/90.

Nel perseguire l’obiettivo, la direttiva introduce una disciplina armonizzata di alcune, e sottolineo alcune, norme che regolano le azioni per il risarcimento del danno ai sensi del diritto nazionale.

Questo perché un’applicazione disomogenea di quelle medesime norme finisce, come è avvenuto in passato, per favorire o disincentivare l’impresa che decide di stabilirsi o di fornire beni o servizi in un determinato Stato, a seconda delle modalità e dell’intensità con cui il diritto al risarcimento del danno è lì riconosciuto e, dunque, incide negativamente non solo sulla concorrenza, ma anche sul corretto funzionamento del mercato interno. Di qui la necessità di una doppia base giuridica, l’art. 103 e l’art. 114 del TFUE.

E la direttiva dove armonizza lo fa in maniera decisamente ampia, profonda, prevedendo una disciplina a dir poco generosa per l’attore la cui figura, pare, leggendo tra le pieghe di alcune disposizioni, essere stata ritagliata su quella del consumatore, oggi vero protagonista del diritto della concorrenza, ieri semplice comparsa.

Mi riferisco alle disposizioni che mirano a correggere quella asimmetria informativa che naturalmente caratterizza i rapporti fra la parte lesa e l’impresa responsabile della condotta anticoncorrenziale. Basti pensare alle norme sulla divulgazione delle prove, sulla presunzione dell’esistenza del danno in presenza di cartelli, a quelle sul trasferimento del sovrapprezzo, a quelle sulla responsabilità solidale e a quelle sulla prescrizione.

Il tutto recependo in buona sostanza gli insegnamenti che vengono dalla giurisprudenza della Corte, dalle già menzionate Courage e Manfredi a Kone, solo per citare le più note. Anche se non mancano le scelte originali come quando si affronta il tema della interazione fra le azioni di risarcimento del danno e i programmi di clemenza di cui si dirà più avanti.

Una cosa è però certa. Proprio alla luce della giurisprudenza citata, se sino ad ora, trattando il tema del private enforcement delle norme sulla concorrenza, si è sempre e quasi solo fatto riferimento al principio dell’autonomia procedurale degli Stati nei limiti del rispetto dei criteri dell’equivalenza e dell’effettività, di questi criteri regolatori, che pure trovano espressa menzione nel testo della direttiva, all’articolo 4, a riprova del fatto che siamo comunque in presenza di una armonizzazione parziale delle regole, da adesso in avanti si parlerà un po’ meno.

5. Alla luce di queste premesse, sarebbero, a dire il vero, molti i profili che meriterebbero di essere approfonditi, ma, dato il poco tempo a disposizione, mi concentrerò in particolare su due aspetti che, a mio parere, presentano sin da subito alcune criticità.

Il primo dei profili prima evocati riguarda l’art. 9 della direttiva (art. 7 del decreto legislativo) che riconosce un valore giuridico vincolante alle decisioni adottate a livello decentrato. Tenuto conto che nell’Unione europea nella stragrande maggioranza dei casi, le azioni di risarcimento danni sono avviate a seguito di un accertamento positivo della violazione da parte delle autorità garanti nazionali (le c.d. azioni “follow on”).

In termini generali, appena ricordo che sulla base del c.d. “doppio binario”, le autorità garanti nazionali assieme alla Commissione assicurano, a livello pubblicistico, l’applicazione delle norme. Mentre i giudici nazionali svolgono un ruolo di pari importanza, garantendo l’applicazione delle regole di concorrenza a livello privatistico.

Bene, secondo il legislatore dell’Unione, per «evitare contraddizioni nell’applicazione degli articoli 101 e 102 TFUE» e «aumentare l’efficacia e l’efficienza procedurale delle azioni per il risarcimento del danno», occorre limitare il margine di discrezionalità di cui godono i giudici interni rispetto agli accertamenti effettuati dalle autorità garanti della concorrenza nazionali.

Con l’effetto così di elevare le decisioni di tali autorità, almeno quando accertano l’infrazione, al rango riconosciuto alle decisioni della Commissione sulla base di una applicazione estensiva del principio del primato.

Pur essendovi delle differenze. Basti ricordare che la giurisprudenza della Corte, prima, e, poi, il regolamento n. 1/2003 esplicitano l’obbligo dei giudici nazionali di astenersi da una decisione che sia in contrasto con quella anche solo “contemplata” dalla Commissione, obbligo che invece non sussiste in relazione ai provvedimenti delle autorità garanti nazionali. Inoltre, il giudice nazionale non è vincolato da un accertamento negativo da parte dell’autorità garante, mentre lo è nel caso la paternità dell’accertamento negativo spetti alla Commissione. Unico limite invalicabile posto dalla direttiva è che la violazione delle norme sulla concorrenza, per essere considerata inconfutabilmente accertata, sia contenuta in decisioni dell’autorità garante nazionale o del giudice del ricorso non più soggette a impugnazione e siano, dunque, definitive. In tal caso, l’autore della violazione non potrà offrire prova contraria circa la natura della violazione medesima e la sua portata materiale, personale, temporale, territoriale. Mentre la verifica del nesso di causalità e la quantificazione del danno restano di esclusiva competenza del giudice del risarcimento.

La direttiva segna, quindi, una precisa distinzione dei ruoli. Ciò nonostante, anche rispetto a questa soluzione, non sono mancate le critiche da parte di chi ritiene così compromessa l’indipendenza del potere giudiziario.

Critiche, almeno sotto questo profilo, non fondate. Come si legge anche nella relazione illustrativa che accompagnava lo schema di decreto legislativo di recepimento della direttiva: da un lato, le ridotte facoltà probatorie dei convenuti sono ritenute compatibili con i princìpi costituzionali in materia di diritti di difesa in quanto i destinatari del provvedimento possono comunque impugnarlo dinanzi al giudice amministrativo che, proprio per questo motivo, in linea con la giurisprudenza Menarini, gode di un sindacato giurisdizionale pieno; dall’altro lato, ferma restando l’incontestabilità del provvedimento amministrativo da parte dell’autore della violazione che non lo ha impugnato, il giudice del risarcimento non sarà comunque vincolato da quella decisione qualora la ritenga «irrimediabilmente» viziata.

Una puntualizzazione, che sembra quasi preconizzare una sorta di applicazione mediata della teoria dei controlimiti per contrasto con l’art. 101 della Costituzione che sancisce il principio di soggezione del giudice solo alla legge. In realtà sarebbe sufficiente fare un giusto richiamo all’art. 47 della Carta, trovandoci qui pacificamente nel campo di applicazione del diritto dell’Unione.

Quale, invece, il valore da attribuire alla decisione delle autorità garanti di altri Stati membri? Va detto che in un’ottica, certamente ambiziosa, ma non scevra da rischi per la tenuta del sistema complessivamente considerato, la proposta presentata dalla Commissione non prevedeva alcuna distinzione tra autorità nazionale e autorità di altri Stati membri.

Una soluzione, secondo la Commissione, comunque rispettosa della Carta dei diritti fondamentali poiché, a suo dire, «in tutta l’UE, le imprese godono di un livello comparabile di tutela dei diritti di difesa» e, argomento questo, a mio parere, più efficace, le decisioni adottate dalle autorità nazionali garanti della concorrenza restano soggette a controllo giurisdizionale.

Questa impostazione non è, tuttavia, prevalsa e il legislatore dell’Unione ha infine optato per un’armonizzazione minima limitandosi a imporre che le decisioni definitive di autorità garanti di un diverso Stato membro siano ammesse almeno a titolo di prova prima facie del fatto che è avvenuta una violazione del diritto della concorrenza.

La scelta di distinguere gli effetti degli accertamenti in base alla provenienza della decisione definitiva è il risultato di un compromesso raggiunto in seno al Consiglio. Una scelta, dunque, politica che ha voluto evitare ostacoli in sede di approvazione della proposta. E questo lo si comprende.

Non si è, invece, d’accordo con chi dubita della compatibilità con gli artt. 47 della Carta e 6 CEDU di una diversa scelta (come quella adottata in Germania, peraltro, fin dal 2005 o che potrà essere adottata da qualcuno dei paesi, tanti per la verità, che la direttiva ancora devono recepirla), per il solo fatto che esistono differenze a livello nazionale in tema di garanzie procedurali tali da far supporre che non vi sia un livello di tutela equivalente negli Stati membri.

Piuttosto, viene da chiedersi se questa prudenza sia una ragione sufficiente a derogare al principio di reciproca fiducia fra gli Stati membri e i rispettivi sistemi giuridici che è elemento imprescindibile per la realizzazione dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia.

Mi parrebbe logico pensare che il riconoscimento reciproco delle decisioni nazionali e la fiducia reciproca, che sono concetti complementari, siano essenziali anche per realizzare quel processo di integrazione piena cui mira la direttiva 2014/104/UE.

Aggiungo che il sistema complessivamente considerato avrebbe già insiti degli efficaci anticorpi rispetto ai rischi paventati. Come ricordato, la decisione dell’autorità amministrativa è soggetta a un controllo giurisdizionale e, prima ancora, al controllo della Commissione che, ai sensi del regolamento 1/2003, deve essere preventivamente informata dell’esito del procedimento, potendolo, in teoria, sempre avocare a sé ove la decisione si prospetti palesemente in conflitto con la giurisprudenza consolidata. Il regolamento 1/2003 impone, poi, che la decisione dell’autorità garante nazionale sia il frutto di una stretta cooperazione e collaborazione con la Commissione. Insomma, sarebbe bastato un po’ più di coraggio.

Al di là di questi rilievi, il legislatore dell’Unione ha fatto, almeno per ora, una scelta precisa e con questa ci dobbiamo confrontare.

Resta da capire per quei Paesi che come il nostro si sono limitati a rispettare «i livelli minimi richiesti dalla direttiva quale valore probatorio vada riconosciuto al provvedimento di un’autorità garante o alla decisione del giudice del ricorso di un diverso Stato membro.

Il legislatore italiano, non conoscendo il nostro ordinamento la nozione utilizzata dalla direttiva di prova prima facie, si limita ad assegnare alla decisione con cui una autorità garante o il giudice del ricorso di altro Stato membro accertano, in via definitiva, una violazione del diritto della concorrenza il valore di prova, valutabile insieme ad altre prove.

Sembrerebbe, tuttavia, corretto ritenere che tali decisioni facciano sorgere perlomeno una presunzione relativa della violazione degli artt. 101 e/o 102 del TFUE, così come era in precedenza per l’AGCM, ai cui provvedimenti veniva riconosciuto il valore di prova privilegiata a favore dell’attore, pur consentendo al convenuto di offrire la prova contraria

Rimangono, dunque, non poche questioni aperte e, non a caso, la direttiva ricorda, sul punto, che resta impregiudicato il diritto, ma anche l’obbligo, dei giudici nazionali di adire la Corte ai sensi dell’articolo 267 TFUE.

Così allo strumento del rinvio pregiudiziale il giudice del risarcimento potrà o dovrà ricorrere anche nel caso in cui la decisione dell’autorità nazionale o del giudice del ricorso si ponga in contrasto con la giurisprudenza della Corte di giustizia formatasi sugli artt. 101 e 102 del TFUE. Dunque, questa menzione dell’art. 267 che fa la direttiva, apparentemente pleonastica, in realtà non può essere considerata una mera formula di stile, perché, di fatto, codifica la facoltà, nonché l’obbligo del giudice civile di mettere in discussione, nel solco tracciato dalla giurisprudenza Kempter, il giudicato del suo omologo amministrativo.

6. Fino a qui si può dire che la direttiva prevede una disciplina di assoluto favor nei confronti del danneggiato, specie se consumatore.

Un discorso diverso va fatto quando si affronta il complesso tema dell’interazione fra le azioni di risarcimento del danno e i programmi di clemenza con i quali le imprese che partecipano a un cartello si autodenunciano per ottenere l’immunità o una riduzione dell’ammenda.

Qui il riferimento è, invece, alle sentenze Pfleiderer e Donau Chemie con le quali la Corte aveva escluso il sacrificio tout court delle esigenze del private a vantaggio del public enforcement.

La scelta del legislatore dell’Unione è, invece, stata apparentemente netta in favore dell’interesse pubblico. Il par. 6 dell’art. 6 prevede che, in nessun caso, senza, quindi, la necessità di ponderare gli interessi in causa, i giudici nazionali possano ordinare a una parte o ad un terzo di divulgare prove relative a dichiarazioni legate ad un programma di clemenza.

Una scelta, legittima, dettata dall’esigenza di preservare l’efficacia di questo strumento di public enforcement ritenuto essenziale per perseguire gli illeciti antitrust più nocivi ovvero i cartelli.

Ciò nonostante, ci sono già indizi di una contrazione nel ricorso da parte delle imprese ai programmi di clemenza proprio per il timore di essere comunque soggette ad azioni di risarcimento del danno favorite dalla nuova direttiva. Questo perché il danneggiato viene comunque a sapere della loro esistenza, attraverso versioni non confidenziali ancorché talvolta dettagliate della decisione adottata dall’autorità pubblica con cui viene constatata l’infrazione e, dunque, in qualche misura è agevolato a promuovere un’azione giudiziale. A questo proposito la Corte in una recente sentenza (Evonik Degussa GmbH), pronunciata in appello lo scorso 17 marzo sul cartello del perossido di idrogeno e perborato, ha affermato che l’impresa non può invocare l’applicazione dell’articolo 7 della Carta e 8 della CEDU per impedire la pubblicazione di versioni non confidenziali della decisione della Commissione.

Se così è, allora forse non si può più parlare di un felice coordinamento fra i due diversi ambiti di applicazione delle medesime regole di concorrenza.

7. Insomma, viene da chiedersi se la direttiva 2014/104/UE che, certamente, ha il merito di valorizzare il ruolo del consumatore, nel prevedere quasi un eccesso di tutele in suo favore, non finisca a lungo andare per disattendere il pensiero della Corte secondo cui il diritto al risarcimento andava riconosciuto anche in ragione degli effetti positivi che il suo esercizio avrebbe avuto sul public enforcement.

La sensazione piuttosto è che siamo in un periodo di transizione verso una nuova fase della politica di concorrenza dell’Unione. Aumentare la consapevolezza tra i soggetti danneggiati, specie tra i consumatori, dei propri diritti e agevolarne l’esercizio potrebbe portare nel lungo periodo, attraverso una rivoluzione anche culturale, a sovvertire gli attuali equilibri fino ad arrivare ad un punto in cui, al contrario di oggi, vi sarà la prevalenza del private rispetto al public enforcement come, ad esempio, avviene negli Stati Uniti.

Per raggiungere questo risultato, sempre che lo si voglia, occorre però dotare i consumatori di nuovi strumenti o per lo meno armonizzare e rendere più efficaci quelli già esistenti, come le azioni di classe la cui funzione deterrente è innegabile. Solo in questo modo il compito di tutelare il benessere collettivo potrebbe essere indirettamente affidato ai privati, rendendo meno necessario o comunque essenzialmente funzionale ai loro scopi l’intervento delle autorità pubbliche.

Se veramente ci troviamo di fronte ad un nuovo corso è presto per dirlo. La rotta è ancora incerta e siamo comunque ben lontani dall’essere giunti ad un approdo sicuro di questo ulteriore processo di modernizzazione delle regole in tema di concorrenza. Ciò non toglie che ci troviamo, in questo anniversario, di fronte ad una ennesima importante prova di maturità dell’ordinamento dell’Unione in un settore fondamentale, quello della concorrenza, che, qualunque sia la prospettiva considerata, pur sempre governa e su cui si regge o dovrebbe reggersi l’intero mercato interno.


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