La nuova direttiva PIF. Alcune riflessioni in tema di adattamento dell’ordinamento italiano.

1. Introduzione.

Il 5 luglio 2017 è stata approvata la Direttiva 2017/1371/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (cd. Direttiva PIF).
È indubbio che, negli anni, l’integrazione europea abbia comportato uno sviluppo notevole per i cittadini degli Stati membri (e non solo, per la verità), anzitutto nel settore della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, finendo così per generare uno “spazio di libertà, sicurezza e giustizia” unitario. Tuttavia, vi è un dato che non può essere pretermesso: la garanzia di tali libertà, in particolare quella di circolazione, in mancanza di un corrispondente abbattimento delle “frontiere giudiziarie”, rende più agevole la commissione di condotte criminose di livello transnazionale. Tra le varie figure di illecito, la cui realizzazione spesso si caratterizza per elementi di transnazionalità, vi sono i ccd. white-collar crimes (vale a dire, letteralmente, i “crimini dei colletti bianchi”).
E proprio tali crimini rilevano con riferimento agli obblighi di penalizzazione introdotti dalla Direttiva PIF.
Peraltro, il legislatore europeo ha opportunamente avvertito l’esigenza di intervenire (v. artt. 6 e 9) in tema di responsabilità degli enti, in quanto «nella misura in cui gli interessi finanziari dell’Unione possono essere lesi o minacciati dalla condotta imputabile a persone giuridiche, queste dovrebbero essere responsabili dei reati commessi in loro nome» (v. Considerando n. 14).
L’ordinamento italiano conosce già una forma di responsabilità da reato degli enti giuridici, disciplinata dalD.Lgs. 231/2001.
In questo lavoro, si cercherà di verificare la compatibilità dell’ordinamento italiano a fronte degli obblighi sanzionatori introdotti dallo strumento di diritto derivato in parola, previa, beninteso, l’analisi di questi ultimi.

2. La direttiva PIF.

2.1 Il complesso iter di approvazione

Durante i lavori preparatori della direttiva PIF è emersa una questione fortemente controversa, quella cioè riguardante la sua base giuridica.
Tra le norme dei Trattati che presidiano l’integrità del bilancio dell’UE vengono in rilievo, da un lato, l’art. 325 TFUE – se non, forse, l’art. 86, che, secondo un orientamento (H. Satzger, International and European Criminal Law, Oxford, 2012, p. 74 s.), avrebbe addirittura legittimato l’emanazione di un regolamento recante norme incriminatrici – e, dall’altro, l’art. 83.2 TFUE.
Merita di essere ricordato che, secondo la dottrina più autorevole (G. Grasso, Il Trattato di Lisbona e le nuove competenze penali dell’Unione Europea, in Studi in onore di Mario Romano, Napoli 2011, p. 2347 s.), è opportuno escludere una piena competenza dell’Unione in materia penale, mancando un’esplicita attribuzione in tal senso. Una lacuna, questa, che, come evidenziato da Rosaria Sicurella, «l’ampia e significativa formula dell’art. 325 TFUE non potrebbe comunque ‘compensare’, risultando pertanto legittimo il ricorso allo strumento regolamentare esclusivamente allorquando l’atto non contenga misure di natura penale».
La proposta originaria della Commissione, peraltro non esente da critiche in dottrina, sosteneva la prima alternativa (id est, art. 325 TFUE), la quale avrebbe impedito l’opt-out di alcuni Stati membri, nonché precluso alcune procedure di salvaguardia come il cd. “freno di emergenza” previsto dall’art. 83 TFUE. La stessa Corte di Giustizia, nell’ormai celebre sentenza Taricco, si era schierata per questa soluzione, potendo così motivare in ordine alla doverosità della disapplicazione di una disciplina nazionale in materia di prescrizione dei reati, ove in contrasto con la protezione degli interessi finanziari dell’Unione.
D’altronde, medesima posizione ha assunto l’Avvocato generale Bot con riguardo al rinvio pregiudiziale effettuato della Corte costituzionale italiana, in ragione delle difficoltà di applicazione della sentenza in commento incontrate sia dalla Corte di Cassazione sia dalla Corte d’appello di Milano.
In realtà, detto rinvio pregiudiziale non riguardava il profilo della base giuridica di una competenza penale dell’UE in tema di protezione dei suoi interessi finanziari. Piuttosto, esso concerneva: il paventato contrasto tra i principi statuiti nella sentenza Taricco e il principio di legalità dei reati e delle pene nell’interpretazione accolta dall’ordinamento italiano; la discrezionalità di uno Stato membro in ordine alla possibilità di far rispettare, ex art. 53 Carta di Nizza, il proprio livello di tutela dei diritti fondamentali, ove superiore rispetto a quello garantito a livello sovranazionale; la portata dell’art. 4.2 TUE, posto a salvaguardia dell’identità costituzionale di ciascuno Stato membro.
Comunque sia di ciò, resta il fatto che le conclusioni dell’Avvocato generale non revocano mai in dubbio l’individuazione dell’art. 325 TFUE quale fondamento giuridico della tutela penale in esame. Secondo autorevole dottrina, le motivazioni di un simile atteggiamento andrebbero ricercate nella volontà <<di non prendere posizione contro la giurisprudenza Taricco, lasciando mani libere alla Corte nel caso in cui venisse proposto […] un ricorso di legittimità a fini di far valere la pretesa errata base giuridica della direttiva PIF>>.
Tuttavia, le buone (ad avviso di chi scrive) intenzioni della Commissione hanno ceduto il passo alla realtà dei negoziati, caratterizzati dall’emergere di istanze più di impronta “intergovernativa” che “comunitaria”; è stato cioè preferito l’art. 83.2 TFUE, il quale conferisce al Parlamento europeo e al Consiglio la competenza ad adottare <<norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni […] tramite direttive>> laddove <<il ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale si rivela indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione>>.

2.2  I profili rilevanti della direttiva

L’individuazione dell’art. 83.2 TFUE quale base giuridica ha indubbiamente avuto degli effetti sotto il profilo contenutistico della direttiva in parola. Si tratta di una norma che, rispetto alle alternative inizialmente prospettate, consente un ravvicinamento delle legislazioni penali nazionali meno forte.
Va d’altra parte segnalata l’attenzione del legislatore europeo per la tutela dei diritti fondamentali. A questo riguardo – si sostiene in dottrina – rileva il Considerando n. 28, il quale elenca una serie di garanzie sancite dalla Carta di Nizza, nonché il Considerando n. 21, che specificamente consacra il principio del ne bis in idem con riguardo alle ipotesi di reato transfrontaliero.
Ciò detto, occorre ora analizzare gli elementi qualificanti della direttiva.
La tutela degli interessi finanziari dell’UE <<riguarda non solo la gestione degli stanziamenti di bilancio, ma si estende a qualsiasi misura che incida o che minacci di incidere negativamente sul suo patrimonio e su quello degli Stati membri, nella misura in cui è di interesse per le politiche dell’Unione>> (Considerando n. 1).
Ai fini della direttiva, per “interessi finanziari dell’Unione” si intendono ex art. 2.1 a) <<tutte le entrate, le spese e i beni che sono coperti o acquisiti oppure dovuti in virtù: i) del bilancio dell’Unione; ii) dei bilanci di istituzioni, organi e organismi dell’Unione istituiti in virtù dei trattati o dei bilanci da questi direttamente o indirettamente gestiti e controllati>>. Si tratta di una nozione – sostanzialmente omnicomprensiva – per la prima volta esplicitamente sancita (sia i Trattati sia la Convenzione PIF del 1995 sono silenti sul punto).
L’inclusione dell’IVA nel campo di applicazione della direttiva è probabilmente da ricondurre alla radicale posizione assunta al riguardo dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco: «poiché le risorse proprie dell’Unione comprendono in particolare […] le entrate provenienti dall’applicazione di un’aliquota uniforme agli imponibili IVA armonizzati determinati secondo regole dell’Unione, sussiste […] un nesso diretto tra la riscossione del gettito dell’IVA nell’osservanza del diritto dell’Unione applicabile e la messa a disposizione del bilancio dell’Unione delle corrispondenti risorse IVA, dal momento che qualsiasi lacuna nella riscossione del primo determina potenzialmente una riduzione delle seconde»(sul punto v. A. Venegoni, Il difficile cammino della proposta di direttiva per la protezione degli interessi finanziari dell’Unione europea attraverso la legge penale (cd. direttiva PIF): il problema della base legale, in Cass. Pen., 2015, p. 2442 s.).
È interessante rilevare altresì l’amplissima nozione di “persona giuridica” ex art. 2.1 b), essendo essa «qualsiasi entità che abbia personalità giuridica in forza del diritto applicabile, ad eccezione degli Stati o di altri organismi pubblici nell’esercizio dei pubblici poteri e delle organizzazioni internazionali pubbliche».
Va infine segnalata la clausola di limitazione della portata della direttiva contenuta nel successivo § 2 del medesimo articolo. Viene invero statuito che la disciplina da essa sancita si applica esclusivamente con riguardo ai «casi di reati gravi contro il sistema comune dell’IVA», intendendo come tali quelli caratterizzati, per un verso, dalla natura transfrontaliera delle condotte illecite e, per altro, da una capacità lesiva quantitativamente individuata nel «danno complessivo pari ad almeno 10 000 000 EUR».

2.3 Il campo di applicazione della direttiva

La nozione di frode è contenuta nel disposto dell’art. 3, che individua quattro «(sotto-)ipotesi» in ragione della pertinenza alle “spese” [le uscite non relative agli appalti ex § 2 a), e quelle relative agli appalti ex § 2 b)] ovvero alle “entrate” [le risorse diverse da quelle derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA ex § 2 c), e quelle derivanti dalle risorse proprie provenienti dall’IVA ex § 2 d)].
Ma il campo di applicazione ratione materiae della direttiva si estende a condotte non tutte strettamente riconducibili al concetto di frode in senso tecnico. In altre parole, il legislatore europeo, considerato l’obiettivo di salvaguardia dello strumento normativo in commento, ha ritenuto opportuno inserire quest’ultimo nel più ampio contesto della tutela del bene rappresentato dalla cd. “economia lecita”, vagliando attentamente gli effetti che talune condotte possono riverberare, da un lato, sul funzionamento del mercato interno e, dall’altro, sul senso di fiducia nutrito dai cittadini europei nei confronti delle Istituzioni dell’Unione.
La tutela degli interessi finanziari dell’UE, infatti, viene perseguita anche mediante la repressione di altri reati, ccd. “connessi”, individuati dall’art. 4: il riciclaggio di denaro come descritto all’articolo 1 § 3 della direttiva 2015/849 e riguardante beni provenienti dai reati rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva PIF (§ 1); la corruzione attiva e passiva (§ 2); l’appropriazione indebita (§ 3).
Va però precisato che, con riguardo ad alcuni tra i reati menzionati, la direttiva fa proprie nozioni le quali, letteralmente, non coincidono in toto con le corrispondenti figurae criminis previste dal nostro ordinamento.
Per “corruzione passiva” si intende «l’azione del funzionario pubblico che, direttamente o tramite un intermediario, solleciti o riceva vantaggi di qualsiasi natura, per sé o per un terzo, o ne accetti la promessa per compiere o per omettere un atto proprio delle sue funzioni o nell’esercizio di queste in un modo che leda o possa ledere gli interessi finanziari dell’Unione».
Per “corruzione attiva” si intende «l’azione di una persona che prometta, offra o procuri a un funzionario pubblico, direttamente o tramite un intermediario, un vantaggio di qualsiasi natura per il funzionario stesso o per un terzo, affinché questi compia o ometta un atto proprio delle sue funzioni o nell’esercizio di queste in un modo che leda o possa ledere gli interessi finanziari dell’Unione».
Per “appropriazione indebita” si intende «l’azione del funzionario pubblico, incaricato direttamente o indirettamente della gestione di fondi o beni, tesa a impegnare o erogare fondi o ad appropriarsi di beni o utilizzarli per uno scopo in ogni modo diverso da quello per essi previsto, che leda gli interessi finanziari dell’Unione».
Con riguardo a queste definizioni, appare evidente la rilevanza assunta dalle qualifiche soggettive. In particolare, a tenore dell’art. 4.4, per “funzionario pubblico” si intende «un funzionario dell’Unione o un funzionario nazionale, compresi i funzionari nazionali di un altro Stato membro e i funzionari nazionali di un paese terzo» [a)], ovvero «qualunque altra persona a cui siano state assegnate o che eserciti funzioni di pubblico servizio che implichino la gestione degli interessi finanziari dell’Unione, o decisioni che li riguardano, negli Stati Membri o in paesi terzi» [b)].
In ordine al profilo della criminalità organizzata, emerge quel nesso sempre più evidente, a livello sia delle normazioni interne, sia della normazione sovranazionale, tra esse e la criminalità cd. economica.
L’art. 8 prevede infatti un obbligo di adozione delle misure necessarie affinché sia considerata alla stregua di circostanza aggravante la commissione dei reati anzidetti da parte di una “organizzazione criminale”. La presente norma va però letta in combinato disposto con i Considerando nn. 13 e 19.
Il primo recita: «Nella pratica, alcuni reati contro gli interessi finanziari dell’Unione sono spesso strettamente correlati ai reati di cui all’articolo 83, paragrafo 1, del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE) e agli atti legislativi dell’Unione che sono basati su tale disposizione. Nel formulare la presente direttiva è pertanto opportuno garantire la coerenza tra tali gli atti legislativi e la presente direttiva». E tra gli illeciti di cui all’art 83.1 co. 2 TFUE rientrano i reati associativi.
Inoltre, a tenore del secondo, «gli Stati membri dovrebbero assicurare che il fatto che un reato sia commesso nell’ambito di un’organizzazione criminale come definita nella decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, sia considerato una circostanza aggravante in conformità delle norme applicabili previste dai rispettivi ordinamenti giuridici. Dovrebbero assicurare che i giudici possano prendere in considerazione la circostanza aggravante all’atto di giudicare gli autori di reati, pur non avendo l’obbligo di tenerne conto nella loro pena. Gli Stati membri non hanno l’obbligo di prevedere la circostanza aggravante qualora il diritto nazionale preveda che i reati definiti nella decisione quadro 2008/841/GAI siano puniti come un reato distinto e ciò può comportare livelli sanzionatori più severi».
Sotto il profilo psicologico, infine, il criterio di imputazione va individuato, ex art. 3.1, nella intenzionalità. Pare dunque che il legislatore europeo, dal punto di vista soggettivo, richieda, perché le condotte di frode possano essere destinatarie del rimprovero penale, il dolo intenzionale, alias dolo diretto di primo grado, il quale si configura allorché la realizzazione del fatto illecito integri l’obiettivo finalistico che dà causa alla condotta. Va precisato che tale fine non si identifica con il cd. movente, costituendo questo la motivazione interiore o l’impulso emotivo che spinge il reo a perseguire, quale scopo della condotta, la realizzazione dell’illecito. È chiaro che, in questa forma di dolo, l’elemento volitivo assume una valenza centrale. Inoltre, è opportuno precisare che il dolo intenzionale può ritenersi compatibile con la previsione dell’evento non solo in termini di certezza, bensì anche di possibilità, sempreché – beninteso – la condotta dell’agente sia idonea a realizzare il fine preso di mira (G. Fiandaca-E. Musco, Diritto penale. Parte generale., Bologna, 2014, p. 367).
L’art. 5 reca l’obbligo di penalizzazione dell’istigazione, del favoreggiamento, del concorso di persone e del tentativo, con riferimento ai suddetti reati.
Sotto il profilo sanzionatorio, per quanto concerne le persone fisiche (con riferimento, invece, alle persone giuridiche v. infra § 3), l’art. 7 sancisce l’obbligo per i legislatori nazionali di prevedere sanzioni penali effettive, proporzionate e dissuasive. Ciò comunque non pregiudica l’esercizio dei poteri disciplinari da parte delle autorità competenti nei riguardi dei funzionari pubblici.
Per i reati di cui agli artt. 3 e 4 si richiede una pena massima comportante la reclusione, quantificata in almeno quattro anni ove dalla loro commissione derivi un danno o un vantaggio considerevole. Si prevede inoltre: che il danno (o il vantaggio) si presume considerevole qualora abbia un valore superiore ad € 100.000, ove derivante da tutte le condotte di frode – ad eccezione di quelle ex art. 3.2 d), per le quali, invece, tale danno (o vantaggio) si presume sempre considerevole – nonché dagli “altri reati che ledono gli interessi finanziari dell’Unione” ex art. 4; che gli Stati membri possono altresì prevedere una pena massima di almeno quattro anni di reclusione per altre circostanze gravi definite nel loro diritto nazionale; e che, sempre con riferimento a tali categorie di reato, ove il danno (o il vantaggio) sia inferiore a € 10.000, gli Stati membri possono prevedere sanzioni di natura diversa da quella penale.
Merita di essere segnalata la previsione contenuta nell’art. 10, in ragione della quale i legislatori domestici sono obbligati ad adottare le misure necessarie per consentire il congelamento e la confisca degli strumenti e dei proventi degli illeciti rientranti nell’ambito di applicazione della direttiva. In particolare, si prevede che gli Stati membri vincolati dalla direttiva 2014/42/UE del Parlamento europeo e del Consiglio a tal fine provvedono conformemente a quest’ultima.

3. Gli obblighi per i legislatori nazionali in materia di responsabilità da reato degli enti giuridici

L’art. 6 obbliga i legislatori nazionali ad adottare le misure necessarie affinché le persone giuridiche possano essere ritenute responsabili di uno dei reati suddetti – anche in situazioni di istigazione, favoreggiamento, concorso di persone o tentativo – ove <<commessi a loro vantaggio da qualsiasi soggetto, a titolo individuale o in quanto membro di un organo della persona giuridica, e che detenga una posizione preminente in seno alla persona giuridica basata: a) sul potere di rappresentanza della persona giuridica; b) sul potere di adottare decisioni per conto della persona giuridica; oppure c) sull’autorità di esercitare un controllo in seno alla persona giuridica>>, ovvero da soggetti sottoposti all’autorità degli apicali in tal guisa definiti, in caso di illecito reso possibile dalla mancata sorveglianza o dal mancato controllo da parte di questi ultimi. Tale forma di responsabilità dell’ente non esclude peraltro la possibilità di un procedimento penale contro le persone fisiche autrici del reato-presupposto.
Dal punto di vista sanzionatorio, anche con riguardo alle persone giuridiche responsabili ex art. 6 va assicurata la loro sottoposizione a sanzioni che siano effettive, proporzionate e dissuasive, le quali comprendono sanzioni pecuniarie penali ovvero non penali. A tal proposito, a titolo meramente esemplificativo [« (…) che possono comprendere anche altre sanzioni quali (…) »], la disposizione in parola prevede: l’esclusione dal godimento di un beneficio o di un aiuto pubblico; l’esclusione temporanea o permanente dalle procedure di gara pubblica; l’interdizione temporanea o permanente di esercitare un’attività commerciale; l’assoggettamento a sorveglianza giudiziaria; provvedimenti giudiziari di scioglimento; la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti che sono stati usati per commettere il reato.
Non sembrano esservi ostacoli ai fini dell’applicabilità della norma in materia di congelamento e confisca di cui all’art. 10 (v. supra § 2.3) anche con riferimento a responsabilità configurate, ex art. 6, in capo a una persona giuridica.

4. Conclusioni

Non è qui possibile indagare analiticamente, con riferimento a ciascuno degli obblighi imposti dalla direttiva PIF, se l’ordinamento italiano sia o meno già conforme, alla stregua dei parametri offerti al riguardo dalla giurisprudenza della Corte di giustizia. Cionondimeno, è d’uopo qualche richiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, a quelle norme interne, già in vigore, il cui contenuto non è estraneo rispetto alle disposizioni della direttiva in precedenza analizzate.
In particolare, per quanto concerne l’articolata e ampia nozione di frode, a parere di chi scrive, si potrebbero a seconda dei casi richiamare diverse norme del Codice Penale, quali gli artt. 316-bis (malversazione a danno dello Stato) e 316-ter (indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato), nonché l’art. 640-bis (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), o, specie con riguardo alla frode in materia di IVA, diverse norme incriminatrici contenute nel D.Lgs. n. 74/2000. Con riferimento, poi, ai reati “connessi” ex art. 4 si possono richiamare: in tema di riciclaggio di denaro (§ 1), gli artt. 648 (ricettazione), 648-bis (riciclaggio), 648-ter (impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita), e, probabilmente, 648-ter1 (autoriciclaggio) Cod. Pen.; in tema di corruzione (attiva e passiva), gli artt. 318 – 322-bis Cod. Pen.; in tema di appropriazione indebita, secondo la dottrina, gli artt. 314 (peculato), 323 (abuso d’ufficio), e 646 (appropriazione indebita) Cod. Pen.
Le prescrizioni in materia di tentativo, concorso di persone nel reato e favoreggiamento ex art. 5 sembrerebbero trovare una risposta negli artt. 56, 110 e 378 c.p.
Viceversa, con riguardo all’istigazione, emergono non poche perplessità.
Invero, come sostenuto da autorevole dottrina, quando l’istigazione viene in considerazione non come fattispecie autonoma (si pensi ad esempio, alla figura di cui all’art. 414 Cod. Pen.), «ma quale forma di partecipazione – sia come determinazione in altri di un proposito criminoso prima inesistente che come rafforzamento di un altrui proposito criminoso – essa richiede che ne siano determinati l’oggetto e i destinatari» (M. Romano, G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale. Vol. II: Art. 85-149, Milano, 2012, p. 181). Fin qui nulla quaestio. Senonché – correttamente prosegue l’Autore –, l’art. 115 Cod. Pen. conferma «che la commissione di un reato rappresenta un presupposto indispensabile per la punibilità di tutte le attività di partecipazione. Un tale principio, stabilito esplicitamente per la rilevanza delle condotte di accordo e di istigazione, deve essere ritenuto di applicazione generale, così da abbracciare tutte le attività di partecipazione atipiche. (…) Nel nostro sistema penale, di conseguenza, il tentativo di partecipazione, e cioè un atto di partecipazione non seguito dalla commissione del reato (consumato o tentato) da parte di uno o più dei concorrenti, non risulta punibile» (M. Romano, G. Grasso, Ibidem).
Pertanto, alla luce di tali considerazioni, occorre interrogarsi sul senso da attribuire all’obbligo di penalizzazione delle condotte di istigazione. Infatti, laddove questa fosse intesa nel senso di istigazione non accolta – come tale non integrante l’istituto del concorso (morale) di persone nel reato –, ciò comporterebbe la necessità di prevedere, in sede di parte speciale, una deroga al paradigma generale di irrilevanza penale dato dai commi commi 3° e 4° dell’art. 115 Cod. Pen.
In materia di “organizzazioni criminali” ex art. 8 (e Considerando nn. 13 e 19), rilevano gli artt. 416 e 416-bis Cod. Pen.
In conclusione, per quanto pertiene alla materia della responsabilità degli enti ex artt. 6 e 9, occorre verificare se le norme contenute nel suddetto D.Lgs. n. 231/2001 contengano già una disciplina che assicuri la conformità del nostro ordinamento.
Da questo punto di vista, emerge qualche lacuna, in quanto non tutte le disposizioni richiamate con riferimento agli artt. 3 e 4 della direttiva rientrano tra quelle cui gli artt. 24 – 25-duodecies del decreto de quo fanno riferimento per individuare i reati-presupposto della responsabilità in parola.
In particolare, manca anzitutto un richiamo ai reati tributari ex D.Lgs. n. 74/2000. Va d’altronde segnalato che da tempo si dibatte in ordine all’opportunità di ampliare il novero dei reati-presupposto di tale normativa, includendovi tali fattispecie.
La prassi giudiziaria, infatti, dimostra che le condotte di frode fiscale sono spesso strumentali alla realizzazione di disponibilità extracontabili, il cui reimpiego è, a sua volta, un mezzo attraverso il quale commettere illeciti penali – ad esempio, la corruzione –, il cui perfezionamento dà luogo a responsabilità ascrivibili all’ente.
Da qui l’emergere, nella giurisprudenza di legittimità, di un orientamento che, con riguardo al delitto associativo ex art. 416 Cod. Pen. (esso sì richiamato dall’art. 24-ter del D.Lgs. n. 231/2001), tenta di estendere l’ambito materiale di applicazione della disciplina in parola ai cc.dd. delitti-scopo, pur se non ancora espressamente previsti dal decreto de quo.
Senonché la stessa Suprema Corte, con una successiva pronuncia, ha smentito tale ordine di idee. Infatti, un simile orientamento, a parere del giudice di legittimità, presenterebbe diversi punti deboli.
Anzitutto, l’ente sarebbe ingiustamente gravato dell’onere di prevedere dei modelli organizzativi idonei a prevenire la commissione di numerosi reati-fine del sodalizio criminoso, pur se non rientranti tra le fattispecie-presupposto di tale responsabilità.
Ma, soprattutto, – sostengono sempre i supremi giudici – la presente impostazione ermeneutica risulta inficiatada «un vizio di fondo, laddove si è ritenuto di valorizzare […] una serie di fattispecie di reato […] del tutto estranee al tassativo catalogo dei reati-presupposto dell’illecito dell’ente collettivo e come tali oggettivamente inidonee […] a fondarne la stessa imputazione di responsabilità. In tal modo la norma incriminatrice di cui all’articolo 416 c.p. – essa, sì, inserita nell’elenco dei reati-presupposto ex cit. Decreto Legislativo, articolo 24 ter, a seguito della modifica apportata dalla Legge 15 luglio 2009, n. 94, articolo 2 – si trasformerebbe, in violazione del principio di tassatività del sistema sanzionatorio contemplato dal Decreto Legislativo n. 231 del 2001, in una disposizione “aperta”, dal contenuto elastico, potenzialmente idoneo a ricomprendere nel novero dei reati-presupposto qualsiasi fattispecie di reato, con il pericolo di un’ingiustificata dilatazione dell’area di potenziale responsabilità dell’ente collettivo […] ».
Cionondimeno, va rilevato
il dilagare delle cc.dd. “frodi carosello”, in particolare alla luce della sempre maggiore “sofisticatezza” delle condotte e del rilevante rischio per gli interessi finanziari dell’UE. Di fronte a tale fenomeno, pertanto, non stupisce la tendenza dei Pubblici Ministeri (ameno sino alla pronuncia di legittimità appena riportata) a formulare la propria contestazione prendendo come riferimento normativo proprio l’art. 416 Cod. Pen.
Si tratta di frodi la cui realizzazione riguarda, infatti, più Stati membri, nella misura in cui i soggetti coinvolti sono: un cedente di beni, avente la propria sede in un altro Stato dell’Unione, esente dall’IVA; una cd. società “sfinge” (alias “missing trade”), vale a dire un soggetto, con sede in Italia, avente il ruolo di acquirente interposto; un sub-acquirente italiano interponente; e, infine, un cessionario finale con addebito dell’imposta.
Si tratta di condotte criminali che possono assumere le caratteristiche del cd. “reato transnazionale” di cui all’art. 3 della Legge n. 146/2006. Secondo quest’ultima disposizione, <<si considera reato transnazionale il reato punito con la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni, qualora sia coinvolto un gruppo criminale organizzato, nonché: a) sia commesso in più di uno Stato; b) ovvero sia commesso in uno Stato, ma una parte sostanziale della sua preparazione, pianificazione, direzione o controllo avvenga in un altro Stato; c) ovvero sia commesso in uno Stato, ma in esso sia implicato un gruppo criminale organizzato impegnato in attività criminali in più di uno Stato; d) ovvero sia commesso in uno Stato ma abbia effetti sostanziali in un altro Stato>>.
È peraltro vero che, in relazione a figurae criminis aventi tale connotato “transnazionale”, sarà possibile contestare una responsabilità (“amministrativa”) in capo agli enti nei termini di cui all’art. 10 della medesima legge.
Comunque sia di ciò, a prescindere cioè da tutte queste considerazioni, il legislatore è ormai obbligato, a seguito dell’approvazione della Direttiva PIF, ad allargare il novero dei reati-presupposto della responsabilità da reato degli enti, in modo da farvi rientrare, quantomeno, condotte di frode IVA (che siano, secondo i parametri ex art. 2 Dir.) gravi. L’adempimento dell’obbligo di penalizzazione in parola rappresenta un’ottima occasione per una riforma di sistema. Si tratta, per un verso, di allargare a tutte le fattispecie penal-tributarie (e non solo alle frodi IVA gravi) il campo materiale di applicazione della disciplina ex decreto de quo e, per altro verso, di rivedere parallelamente l’intero sistema punitivo in materia fiscale, cercando di eliminare in radice le latenti violazioni del principio del ne bis in idem.
Inoltre, nel D.Lgs. n. 231/2001 manca un richiamo ai reati di cui agli artt. 314, 320, 322-bis (figura, questa, concernente peraltro proprio i funzionari dell’UE) e 646 c.p.; mentre, in ordine alle prescrizioni contenute nell’art. 5 della direttiva, se vi è un richiamo (ex art. 26 del decreto) all’istituto del tentativo, non si può dire altrettanto con riguardo al concorso di persone, all’istigazione e al favoreggiamento.
Sembra pertanto necessario un – si spera tempestivo – intervento del legislatore, in adempimento degli obblighi discendenti dalla Direttiva. Tuttavia, in attesa di un suo pieno recepimento, sarà interessante valutare gli orientamenti dei giudici interni, gravando su di essi l’obbligo – più volte ricordato dalla Corte di Giustizia – di astenersi da forme di interpretazione ed applicazione del diritto nazionale comportanti, una volta scaduto il termine di recepimento (in questo caso il 6 luglio 2019), un rischio, anche solo potenziale, per la realizzazione del risultato voluto dalla Direttiva.
Per concludere, non può rimanere negletta una considerazione, la quale, viceversa, è a giudizio di chi scrive fondamentale ove si voglia veramente comprendere la rilevanza dell’approvazione della Direttiva PIF.
Invero, la salvaguardia degli interessi finanziari dell’UE è un tema assai delicato, sia sotto il profilo strettamente giuridico, sia sotto quello latamente “politico”, rappresentando la “cartina al tornasole” dell’incostante processo di integrazione europea.
Pertanto, se è vero che l’approvazione della Direttiva in parola può essere considerata il coronamento di un processo di trasformazione in atto normativo unilaterale degli strumenti convenzionali dell’UE – elaborati nel corso degli anni Novanta del secolo scorso – in materia di tutela dei propri interessi finanziari (id est, la Convenzione PIF delle Comunità europee del 26.7.1995 e i relativi tre Protocolli), è altrettanto vero che essa non può che rappresentare – almeno questo è l’auspicio della maggioranza dei commentatori – solo un passaggio intermedio verso una maggiore integrazione tra gli ordinamenti degli Stati membri. Da questo punto di vista, rilevantissimi saranno gli sviluppi nel settore in commento apportati dall’istituzione – per mezzo del Regolamento 2017/1939/UE, adottato in sede di cooperazione rafforzata ex art. 86.1 comma 3° TFUE – dell’European Public Prosecutor’s Office (cd. EPPO).
In definitiva, la valutazione che qui si vuole sostenere è positiva, perché «se è vero che i negoziati tra istituzioni e Governi nazionali possono aver comportato qualche involuzione rispetto alla proposta originaria della Commissione, è altrettanto evidente come questa direttiva segni un decisivo passo in avanti nella lotta contro la frode degli interessi finanziari dell’Unione» (v. il contributo di M. Aranci già pubblicato su questa Rivista).
Un risultato, dunque, che certo non integra il canone del “first best”, ma che, realisticamente, costituisce un apprezzabile “second best”, tenuto peraltro conto del preoccupante stato di sfiducia che caratterizza gli attuali assetti relazionali tra Istituzioni dell’Unione e (alcuni) Stati membri, oltreché – cosa, questa, oltremodo allarmante – tra Istituzioni e cittadini (europei) di taluni Stati membri.


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