La disciplina dei servizi

Con il 1° gennaio 2021 è entrato ufficialmente in vigore, seppure in forma provvisoria in attesa del “via libera” da parte, prima, del Parlamento e, poi, del Consiglio dell’Unione europea, l’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione tra il Regno Unito (a tutti gli effetti da considerarsi un paese terzo) e l’Unione europea, funzionale a regolare i relativi rapporti bilaterali.

Siamo di fronte ad un caso del tutto atipico di accordo commerciale che, invece, di abbattere barriere agli scambi di merci e servizi, ne introduce; cosa che se da un lato, realizza per il Regno Unito un “allontanamento normativo” dall’UE recuperando così la tanto “agognata” indipendenza legislativa e politica dall’altro, ne contrae inevitabilmente e fortemente l’accesso al mercato unico europeo e ai naturali benefici che ne derivano, dovuti essenzialmente alla libera circolazione delle persone all’interno del territorio dell’Unione, quando queste si muovono, in qualità di cittadini degli stati membri, dallo stato di origine allo stato ospite per svolgere un’attività lavorativa: sia essa subordinata, autonoma o a carattere imprenditoriale. La caratteristica, peraltro, dei servizi di non essere tangibili e spesso non trasportabili richiede il più delle volte ai fini dell’effettuazione della prestazione la contemporanea presenza del fornitore e del beneficiario del servizio; il necessario spostamento (temporaneo o di più lunga durata) di almeno uno dei soggetti coinvolti rendendo così il servizio, diversamente dalle merci, dipendente anche dalle normative proprie di ogni paese in materia di immigrazione e di controllo del movimento delle persone.

L’Accordo in esame non fornisce una definizione unitaria di servizio, bensì una lunga serie di definizioni per singola tipologia di attività che può farsi rientrare in questa specifica categoria economico e commerciale assai eterogena e complessa al suo interno e che ha contribuito a rendere estremamente aspro il negoziato tra le due parti, nel tentativo di fornire una disciplina a carattere generale e valida per la più ampia gamma possibile di servizi.

Entro l’ambito di applicazione sono fatti rientrare i servizi a carattere professionale e aziendale – con quelli legali, di revisione contabile, servizi di architettura – i servizi di consegna e telecomunicazioni, servizi informatici e digitali, servizi di ricerca e sviluppo, la maggior parte dei servizi di trasporto e servizi ambientali; mentre, risultano esclusi i servizi aerei, con alcune eccezioni, i servizi pubblici, i servizi di interesse generale e i servizi audiovisivi con la conseguenza in quest’ultimo caso che i fornitori britannici di servizi tv e video on demand non si troveranno più nella condizione di offrire servizi ai telespettatori europei, salvo l’ipotesi in cui non decidano di trasferire parte della loro attività in uno degli Stati dell’Unione. Tra i settori e le materie, poi, che non sono stati disciplinati dall’Intesa raggiunta, ma che sono stati rinviati a futuri accordi si segnala in particolare quello dei servizi finanziari (v. oltre) fatto quest’ultimo che, giova sottolineare, ha generato negli ambienti della City londinese una significativa frustrazione nei confronti del governo britannico che, durante le trattative con l’UE, ha dato priorità a comparti come quello della pesca, rappresentativo dell’0,1% dell’economia britannica, rispetto per l’appunto ai servizi finanziari, che hanno tutt’altro peso pari a circa il 10% del relativo pil.

A partire dal 1° gennaio di quest’anno, il Regno Unito non beneficerà, dunque, più di quanto sopra descritto e i fornitori di servizi britannici non potranno più giovarsi del principio del paese d’origine, grazie al quale il fornitore del servizio è tenuto al rispetto delle regole del paese dove ha sede la rispettiva attività e non a quelle del paese in cui il servizio viene reso. Viene meno in pratica quella forma di “autorizzazione automatica” che inevitabilmente facilita la circolazione degli scambi commerciali in genere e dei servizi in particolare, in quanto evita al prestatore di servizi di doversi rapportare con le legislazioni dei singoli Stati membri, il cui numero, peraltro, è sensibilmente accresciuto in seguito al processo di allargamento.

Cessando questa forma di riconoscimento immediato, le persone fisiche e giuridiche britanniche interessate a fornire qualunque tipo di servizio entro il territorio di uno stato membro dell’Unione saranno tenute a istituire una sede in detto stato ed essere autorizzate allo svolgimento della relativa attività sulla base della rispettiva legislazione nazionale. Procedura che, peraltro, necessiterà di essere ripetuta per ogni singolo mercato nazionale interessato, con inevitabile aumento di tempi e costi per gli operatori interessati.

L’accesso al mercato nazionale dipenderà anche dal modo in cui il servizio sarà fornito: se su base transfrontaliera dal paese di origine del fornitore; se fornito al consumatore nel paese del fornitore; se fornito tramite un’impresa stabilita localmente di proprietà del fornitore di servizi estero o tramite la presenza temporanea nel territorio di un altro paese da parte di un fornitore di servizi che sia una persona fisica. Relativamente a questa ultima modalità, l’UE e il Regno Unito hanno concordato una serie di impegni reciproci funzionali a rendere più agevole per le imprese situate in una delle parti contraenti l’accordo di trasferire propri dipendenti per lavorare in una società collegata situata nel territorio dell’altra. Poiché i trasferimenti intra-societari costituiscono una forma di migrazione temporanea, la loro durata massima è limitata a tre anni.

L’Accordo prevede, poi, l’obbligo di non discriminazione secondo lo schema classico del “trattamento nazionale” grazie al quale si garantisce ai fornitori di servizi dell’UE di essere trattati in modo non meno favorevole rispetto agli operatori britannici nel Regno Unito e viceversa. È inclusa nell’Intesa sempre nell’ottica non discriminatoria anche la clausola della “nazione più favorita” che consente all’UE e al Regno Unito di rivendicare qualsiasi trattamento più favorevole concesso rispettivamente dall’uno o dall’altro nei loro futuri accordi sugli scambi di servizi e investimenti con altri paesi terzi, tranne che nel settore dei servizi finanziari.

Al fine, poi, di adeguare l’Accordo alle mutate esigenze economiche e commerciali è stata inserita una clausola di revisione che incoraggia le parti a valutare la possibilità di appurare se esistono le condizioni per migliorare gli scambi di servizi e le relazioni di investimento tra l’UE e il Regno Unito in futuro, ad eccezione anche in questo caso del settore dei servizi finanziari.

Quest’ultima materia, come si è già accennato, non è stata disciplinata dall’Intesa, ma rinviata a un futuro accordo così come previsto da una dichiarazione allegata in cui si stabilisce l’impegno delle parti ad addivenire ad un Memorandum di intesa entro il 21 marzo di quest’anno, per definire possibili forme di cooperazione, discutendo in particolare su come avvicinare le due posizioni, mantenendo il cosiddetto “principio di equivalenza” a cui si è dovuti ricorrere, in virtù della fine del cosiddetto regime della passaportazione che ha assicurato alla finanza britannica sino alla Brexit un facile accesso al mercato europeo dei servizi finanziari senza dovere necessariamente costituire sedi sul territorio d’oltremanica.

Grazie al meccanismo del cd. “passaporto europeo” in generale si consente, infatti, alle banche di esercitare determinate attività in libertà di stabilimento o in libera prestazione dei servizi mediante la semplice comunicazione all’autorità di controllo nazionale del paese d’origine. Quest’ultima, salvo che reputi che l’ente creditizio non possa esercitare la propria attività all’estero, comunica all’autorità centrale del paese ospite e alla Banca centrale europea (o all’autorità bancaria europea nel caso di enti bancari di dimensione non significativa) che la banca richiedente eserciterà l’attività creditizia o di intermediazione finanziaria all’estero. Detto regime, come osservato, è venuto meno per il Regno Unito e vedrà operare al suo posto il citato meccanismo del giudizio di equivalenza; in altre parole, il riconoscimento operato dalle competenti istituzioni europee di una sostanziale affinità della normativa britannica a quella continentale così da garantire la stabilità dei mercati finanziari e conseguentemente un’adeguata protezione dei risparmi dei cittadini europei.

In detti termini, si inserisce la decisione assunta dalla Commissione del 21 settembre scorso con cui è stata dichiarata l’equivalenza delle due normative (europea e britannica) con riguardo alle compensazione centrale dei derivati tramite controparti centrali stabilite nel Regno Unito per un periodo temporaneo fino al 30 giugno 2022 (18 mesi) e, il 25 novembre 2020, una decisione di equivalenza della normativa del Regno Unito con la legislazione dell’UE sui depositari centrali di titoli per un periodo temporaneo fino al 30 giugno 2021 (6 mesi). Giova, tuttavia, sottolineare che fin quando non si addiverrà ad un riconoscimento permanente di equivalenza da parte europea, il relativo giudizio di equivalenza rimane da parte dell’Unione unilateralmente revocabile.

Nell’ottica, peraltro, di salvaguardare la stabilità economica finanziaria il legislatore nazionale con il decreto mille proroghe all’art. 22 rubricato “Disposizioni sull’operatività in Italia degli intermediari e delle imprese di assicurazione britanniche dopo lo scadere del periodo di transizione” prevede, come riportato nel Report elaborato dal Servizio studi del Senato della Repubblica del 13 gennaio 2021 p. 6, che «gli intermediari che hanno presentato, entro la data di entrata in vigore del citato decreto legge, un’istanza a operare in Italia come impresa di paese terzo ovvero per la costituzione di un intermediario italiano a cui cede l’attività, ma per i quali non sia ancora intervenuto il rilascio o il diniego dell’autorizzazione, possano continuare a prestare il servizio/l’attività già esercitato/a prima del termine del periodo di transizione, fino al rilascio dell’autorizzazione e comunque non oltre il 30 giugno 2021. In tale periodo, è consentito svolgere le sole attività per le quali è stata richiesta l’autorizzazione, limitandosi alla gestione dei rapporti esistenti».


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