La dichiarazione UE–Turchia sulla migrazione: un trattato concluso in violazione delle prerogative del Parlamento?

L’UE e la Turchia hanno recentemente adottato una Dichiarazione (nell’originale: EU-Turkey Statement; di seguito: Dichiarazione), in forza della quale la Grecia ha già espulso decine di migranti in posizione irregolare. La Dichiarazione è stata oggetto di numerose critiche (Chetail; Labayle and de Bruycker; Mandal; Peers; Roman). Si è espresso, in particolare, il timore che la Dichiarazione consenta all’UE di operare espulsioni di massa verso la Turchia – la quale non pare un “Paese sicuro” per i richiedenti asilo, date le disfunzionalità nel suo sistema di asilo (Peers e Roman). Un altro aspetto controverso della Dichiarazione è il c.d. “programma 1:1”, cioè la regola per cui, per ogni siriano (in posizione irregolare) che l’UE espelle verso la Turchia, questa invierà un altro siriano (rifugiato) in Europa. Questo programma solleva delle problematiche giuridiche – ad esempio, perché discrimina fra siriani e richiedenti asilo di altre nazionalità– ed è moralmente discutibile, nella misura in cui genera una sorta di ‘commercio’ di esseri umani.

La Dichiarazione UE-Turchia è problematica anche per un’altra ragione, forse meno evidente: è stata adottata in violazione dell’art. 218 TFUE e in particolare delle prerogative del Parlamento europeo.

Al fine di dimostrarlo, è opportuno ricordare preliminarmente che il diritto primario UE regola la procedura per la conclusione degli “accordi internazionali” da parte dell’Unione, principalmente all’art. 218 TFUE. Non vi è invece alcuna procedura specifica per la conclusione degli strumenti internazionali di soft law. A prima vista, la Dichiarazione UE-Turchia non sembrerebbe un vero e proprio accordo internazionale. Essa è stata adottata il 18 marzo 2016, dal primo ministro Turco e dai “membri del Consiglio europeo”, cioè i capi di Stato e di governo degli Stati membri dell’UE. E’ stata negoziata in modo informale durante l’incontro, non è mai stata ratificata (in gergo UE: “conclusa”), né approvata da alcun parlamento – né nazionale, né europeo. La Dichiarazione si presenta come un mero “statement” congiunto, cioè un atto non vincolante. La lettera della Dichiarazione sembra confermare la sua natura non vincolante: lo statement – adottato in lingua inglese – non utilizza il verbo modale tipico degli accordi internazionali, cioè shall, ma il modale tipico degli strumenti non vincolanti, ovverosia will.

Se davvero la Dichiarazione fosse uno strumento non vincolante, la scelta di una procedura informale per la sua conclusione sarebbe giustificata: nella misura in cui il diritto primario non impone una procedura specifica in questo settore, ogni istituzione può adottare gli strumenti non vincolanti seguendo l’iter che ritiene adeguato allo scopo. Se però la Dichiarazione fosse vincolante – a dispetto del suo nome – si porrebbero varie questioni procedurali. Anzitutto, sarebbe dovuto essere il Consiglio, e non il Consiglio europeo, ad adottare la Dichiarazione; tuttavia data la similarità nella composizione delle istituzioni, questo problema non pare di importanza capitale. Più significativo è il fatto che l’art. 218 TFUE attribuisca alla Commissione il potere di negoziare accordi in materia migratoria (v. Gatti e Manzini), mentre tale istituzione è stata esclusa dal negoziato della Dichiarazione UE-Turchia. Infine, e soprattutto, l’art. 218(6) TFUE attribuisce al Parlamento europeo il potere di approvare la conclusione di varie categorie di accordi internazionali, fra cui gli “accordi che riguardano settori ai quali si applica la procedura legislativa ordinaria”. Tale procedura si applica, inter alia, nel settore della “politica comune dell’immigrazione” (art. 79 TFUE), che riguarda “la prevenzione e il contrasto rafforzato dell’immigrazione illegale” – cioè l’ambito di applicazione materiale della Dichiarazione UE-Turchia. Eppure, come sopra anticipato, il Parlamento non sembra essere stato coinvolto nell’adozione della Dichiarazione.

La mancata partecipazione del Parlamento al processo decisionale è censurabile, giacché la Dichiarazione UE-Turchia – a dispetto delle apparenze – pare costituire un vero e proprio accordo internazionale. Ai sensi del diritto internazionale, un accordo internazionale si definisce come un trattato tra Stati o organizzazioni internazionali, indipendentemente dalla sua designazione formale (Convenzione di Vienna 1969, Art. 2(1); Convenzione di Vienna 1986, Art. 2(1)). La Corte internazionale di giustizia (CIG) ha confermato che gli accordi internazionali “may take a number of forms and be given a diversity of names” (Qatar v Bahrein, punto 23). Considerazioni simili valgono per l’interpretazione della nozione di “accordo internazionale” nel diritto UE: secondo costante giurisprudenza della Corte di giustizia, si definisce come accordo internazionale “ogni impegno a carattere vincolante assunto da soggetti di diritto internazionale, indipendentemente dalla sua forma” (Parere 1/75).

A rilevare, più che la forma, sono gli “actual terms” dello strumento internazionale e le “particular circumstances in which it was drawn up” (Aegean Sea Continental Shelf, punto 96). Ogni strumento che definisca ciò che è stato “‘agreed’ between the Parties” e che enumeri “the commitments to which the Parties have consented” crea diritti e obblighi ai sensi del diritto internazionale, e costituisce perciò un accordo internazionale (Qatar v Bahrein, punti 24-25). La giurisprudenza della CIG dimostra che anche strumenti atipici, come le minute di un incontro o un “joint communiqué” (cioè una dichiarazione congiunta), possono costituire accordi internazionali (Qatar v Bahrein, punti 23-25; Aegean Sea Continental Shelf, punti 96-97).

In questa prospettiva la Dichiarazione UE-Turchia costituisce un altro esempio di accordo internazionale avente forma atipica. Come lo strumento oggetto della sentenza Qatar v Bahrein, anche la Dichiarazione UE-Turchia afferma esplicitamente che le parti si sono accordate (“agreed”) su alcuni “action points”. La Dichiarazione descrive poi il contenuto di questi “action points”, enumerando gli impegni assunti dalle parti. Gli obblighi più significativi sono quelli relativi al già citato programma 1:1: “for every Syrian being returned to Turkey from Greek islands, another Syrian will be resettled from Turkey to the EU”. In sostanza, essendosi espressamente accordate nel senso di accettare degli obblighi specifici, l’Unione e la Turchia hanno inteso stipulare un accordo internazionale. Curiosamente, la stessa Commissione europea qualifica la Dichiarazione come “agreement” nel suo sito web (nonostante sia stata esclusa da un negoziato che essa stessa avrebbe dovuto condurre).

Contro la tesi sostenuta si potrebbe forse ritenere che la natura vincolante della Dichiarazione sia messa in discussione dal fatto che essa parrebbe reiterare obblighi già esistenti in virtù di altri strumenti. La Dichiarazione infatti dovrebbe essere applicata “within the framework of the existing commitments”, cioè l’Accordo di riammissione tra Grecia e Turchia e, dal primo giugno 2016, l’Accordo di riammissione fra UE e Turchia. Tuttavia non si può mancare di osservare come la Dichiarazione UE-Turchia contenga degli obblighi originali: il ‘programma 1:1’, in particolare, non è previsto in alcun accordo di riammissione precedente. Tale programma è stato predisposto in altri strumenti, cioè il joint EU-Turkey action plan dell’ottobre 2015 e un’altra dichiarazione del 7 marzo 2016. Questi strumenti, comunque, non sembrano contenere obblighi giuridici. Il primo si limita a descrivere ciò che ogni parte “intende” fare, ma non afferma che le parti si sono “accordate” in tal senso, né individua un nesso di reciprocità tra i comportamenti che esse intendono mettere in atto. La dichiarazione del 7 marzo, poi, afferma in modo generico che le parti hanno “agreed to work” su una serie di questioni, non che esse si sono accordate su degli impegni precisi. E’ dunque ragionevole ipotizzare che la Dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo sia stata adottata proprio per trasformare dei generici impegni politici precedenti in obblighi giuridici. Tale circostanza sembra dunque confermare che la Dichiarazione del 18 marzo è realmente un “accordo internazionale”.

Se tale era l’intenzione delle parti, perché hanno adottato una “dichiarazione” e non un “accordo”? La ragione è, probabilmente, di politica interna – quantomeno sul lato europeo. Il Consiglio europeo aveva tutto l’interesse ad evitare il coinvolgimento del Parlamento nell’adozione della “Dichiarazione” – coinvolgimento che sarebbe stato invece necessario se essa fosse stata qualificata come “accordo”. I membri del Consiglio europeo potrebbero aver scelto di adottare una “dichiarazione” anche per evitare il coinvolgimento dei parlamenti nazionali. E’ infatti possibile che la Dichiarazione UE-Turchia sia un “accordo misto” (ciò un accordo di cui sono parti sia l’Unione che i suoi Stati membri). Tale qualificazione deriverebbe dal fatto che la Dichiarazione riguarda anche aspetti che esulano dalle competenze dell’Unione: in particolare, essa impegna l’Unione a “velocizzare” l’erogazione dello Strumento per la Turchia a favore dei rifugiati, un fondo composto da risorse finanziarie prevalentemente degli Stati membri e gestito dalla Commissione e da rappresentanti degli Stati membri. Non si può escludere che, laddove adottata nella forma di “accordo internazionale” ai sensi dell’art. 218 TFUE, la Dichiarazione UE-Turchia sarebbe potuta essere soggetta all’approvazione dei parlamenti nazionali. Si può facilmente intuire che i governi degli Stati membri volessero evitare tale scenario, che avrebbe comportato tempistiche lunghe, incompatibili con le necessità imposte dalla crisi migratoria.

Da ultimo, resta da chiedersi se non vi siano, nell’ordinamento dell’Unione, delle norme che potrebbero avere abilitato il Consiglio europeo ad adottare la Dichiarazione UE-Turchia come accordo in forma semplice – cioè, come noto, un accordo vincolante sin dalla firma, e che non necessita di ratifica (né di autorizzazione parlamentare alla stessa). Pare in effetti che alcuni organi e istituzioni dell’Unione adottino regolarmente accordi in forma semplice per regolamentare alcune questioni relativamente ‘tecniche’, come lo status delle Delegazioni dell’UE nei Paesi terzi (v. Baroncini, parr. 55-56). Non sembra però che si possa adottare un accordo internazionale, quale la Dichiarazione UE-Turchia, attraverso una procedura diversa da quella prevista dall’art. 218 TFUE. Secondo una giurisprudenza costante, tale disposizione costituisce, in tema di stipulazione di trattati internazionali, una norma autonoma e generale di portata costituzionale, in quanto attribuisce alle istituzioni dell’Unione determinate competenze ed è “intesa a creare un equilibrio tra queste ultime” (sentenza Direttive di negoziato, punto 62). Concludendo un accordo internazionale come la Dichiarazione UE-Turchia in forma semplice, il Consiglio europeo modificherebbe tale equilibrio a proprio vantaggio – e a detrimento del Consiglio, della Commissione e del Parlamento. La violazione delle prerogative del Parlamento è particolarmente problematica, giacché il suo coinvolgimento nella conclusione degli accordi internazionali costituisce il riflesso, a livello dell’Unione, di un “principio democratico fondamentale in base al quale i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di un’assemblea rappresentativa” (sentenza Mauritius, punto 81).

Emerge dunque che la c.d. “Dichiarazione” UE-Turchia è stata adottata in violazione dell’art. 218 TFUE, e particolarmente delle prerogative del Parlamento europeo. A ciò consegue che la Corte di giustizia potrebbe annullare, ex art. 263 TFUE, tale Dichiarazione (rectius, l’atto – virtuale- con cui il Consiglio europeo ha inteso adottare la Dichiarazione, cfr. sentenza Accordo Commissione-Stati Uniti, punti 13-17). Il Parlamento europeo avrebbe tutto l’interesse a proporre un ricorso avverso un atto che viola le sue prerogative, almeno in astratto. In pratica, però, può darsi che esso preferisca lo status quo: la Dichiarazione UE-Turchia rappresenta, secondo le intenzioni delle parti, una risposta emergenziale ad un problema di difficile soluzione. Non si può escludere che il Parlamento europeo abbia tacitamente accettato la conclusione di questo strumento in un quadro puramente intergovernativo, onde evitare di essere coinvolto in una questione tanto sensibile sul piano politico. Un tale atteggiamento remissivo, però, non mi parrebbe opportuno, specialmente in una fase di diffusa sfiducia verso l’Unione e, soprattutto, nel contesto di un accordo che ha ripercussioni drammatiche sulla vita di centinaia di persone. Se il Parlamento europeo intende davvero esprimere il “principio democratico fondamentale”, dovrebbe operare per tutelarlo, e assumersi le responsabilità ad esso conseguenti.


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