La crisi economica impone restrizioni alla libera circolazione delle persone?

La libertà di circolare e soggiornare nel mercato comune è la garanzia più qualificante dello status di cittadino dell’Unione, la cui evoluzione ha segnato lo scostamento da una visione prettamente mercantilistica del processo d’integrazione europea e il progressivo affermarsi della centralità dell’individuo e della tutela dei suoi diritti. La crisi economico-finanziaria unitamente allo scadere del periodo transitorio previsto per la libera circolazione di bulgari e rumeni (terminato per Austria, Germania, Belgio, Francia, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Regni Unito e Spagna al 31 dicembre 2013 ha contribuito a diffondere prassi restrittive rispetto alla mobilità del cittadino dell’Unione almeno laddove ritenuta negativa sul mercato del lavoro locale o sui sistemi di sicurezza sociale dello Stato ospitante minacciando la solidità di uno dei pilastri dell’integrazione europea.

Come noto la Svizzera non è membro dell’UE ma intrattiene con quest’ultima relazioni bilaterali, attualmente regolate da oltre 100 accordi, fra i quali sono considerati centrali i c.d. accordi bilaterali I del 1999 (libera circolazione delle persone, trasporto aereo, trasporto terrestre, ostacoli tecnici agli scambi, appalti pubblici, agricoltura e cooperazione scientifica e tecnologica) e bilaterali II del 2004 (associazione a Schengen e Dublino, fiscalità del risparmio, lotta contro la frode, prodotti agricoli trasformati, statistica, media, pensioni, educazione). Tramite questi strumenti si è, tra l’altro, giunti al paradosso per cui alla Svizzera si applica una percentuale maggiore di norme UE rispetto a quella applicabile al Regno Unito. L’accordo sulla libera circolazione delle persone (ALCP) ha esteso alla Confederazione le norme UE che regolano la materia. Si tratta senza dubbio dell’accordo più complesso e il più “ostico” da accettare da parte della Svizzera tant’è vero l’UE impose che gli accordi bilaterali I fossero negoziati parallelamente, firmati e attuati contemporaneamente nonché l’introduzione della clausola “ghigliottina”, vale a dire che l’estinzione di uno dei sette accordi avrebbe determinato la decadenza di tutti gli altri. L’ALCP è un accordo misto (competenza ripartita tra la UE da un lato e i suoi Stati membri dall’altro) e, quindi, l’estensione agli Stati che a partire dal 1999 sono entrati nell’Unione non è avvenuta in modo automatico ma sono stati negoziati di volta in volta dei Protocollo aggiuntivi, approvati dal popolo svizzero.

La posizione più intransigente rispetto alla necessità di limitare la libera circolazione delle persone viene proprio dai cittadini elvetici che il 9 febbraio 2014 hanno approvato l’iniziativa “Contro l’immigrazione di massa”. Con tale voto, è stato modificato l’art. 121 della Costituzione federale imponendo alla Confederazione di fissare dei tetti massimi annuali e contingenti annuali applicabili a tutti i permessi per stranieri, inclusi i cittadini dell’UE, “stabiliti in funzione degli interessi globali dell’economia svizzera e nel rispetto del principio di preferenza agli Svizzeri; […] Criteri determinanti per il rilascio del permesso di dimora sono in particolare la domanda di un datore di lavoro, la capacità d’integrazione e una base esistenziale sufficiente e autonoma”. I trattati internazionali che contraddicono tale principio “devono essere rinegoziati e adeguati entro tre anni dall’accettazione di detto articolo da parte del Popolo e dei Cantoni”.

Nonostante l’iniziativa in parola sia stata approvata con il 50,3 % dei voti, l’affluenza alle urne è stata del 56%, assai elevata rispetto alle frequenti votazioni cui è chiamato il popolo svizzero. Le ragioni del voto si spiegano osservando la geografia dei risultati. I lavoratori stranieri sono considerati una minaccia soprattutto dal Ticino (68,2% di sì) dove la manodopera frontaliera italiana ha raggiunto le 60000 unità e nei cantoni notoriamente più intransigenti (Appenzello interno, Svitto, Uri, Glarona). Basilia città, Neuchâtel, Ginevra, Friburgo, Giura e Vaud sono i cantoni che hanno invece respinto l’iniziativa con il maggior numero di voti, ritenendo dunque il lavoratore straniero una risorsa. Come conseguenza, immediata del voto del 9 febbraio, il Consiglio federale non ha potuto ratificare il Protocollo che estende l’ALCP alla Croazia, membro UE dal 1° luglio 2013.  Il punto più delicato e complesso dell’iniziativa approvata è tuttavia quello che impone alla Confederazione di rinegoziare l’ALCP, entro tre anni. Se questi negoziati non avessero esito e l’accordo venisse denunciato (da parte della Svizzera o dell’UE), gli altri accordi dei bilaterali I decadrebbero automaticamente dopo sei mesi, in base alla clausola-ghigliottina. L’esito dell’iniziativa, giuridicamente, non pregiudica l’efficacia degli accordi bilaterali II. Tuttavia, la reazione della Commissione è stata chiara: il voto degli svizzeri rimette in questione l’insieme delle relazioni bilaterali. I principi della libera circolazione delle persone non sono negoziabili. Immediata quindi la sospensione dei negoziati in corso tra Svizzera e UE nonché il declassamento della Svizzera a “Paese terzo” nel settore della ricerca e quindi l’uscita della Confederazione da numerosi ed importanti progetti quali Erasmus + e Horizon 2020.

Malgrado questa rigida posizione assunta nei confronti della Confederazione, è innegabile che anche per i Paesi europei, l’immigrazione e la libera circolazione delle persone sono fonte di preoccupazione. In Belgio, il numero dei cittadini europei espulsi perché “economicamente non indipendenti” è passato da 502 persone nel 2010, a 2712 persone nel 2013. I dati forniti dall’Ufficio dell’immigrazione belga competente rivelano che tali cittadini rappresentano più del 9% del totale degli stranieri che hanno dovuto abbandonare il territorio per non disporre di mezzi sufficienti a mantenersi. Le comunità più colpite sono quelle di rumeni (816) e bulgari (393) ma anche olandesi (305), francesi (176), spagnoli  (323) e italiani (265) polacchi  (66), slovacchi (60), portoghesi (56) e inglesi (25). Nel Regno Unito il problema dell’immigrazione e il futuro del Paese all’interno dell’UE sono due punti strettamente connessi nell’agenda politica del primo ministro britannico David Cameron. Oltre ad un progetto di referendum sulla permanenza di Londra all’interno della UE da tenersi entro la fine del 2017 (Referendum Bill al momento arenato alla Camera alta del Parlamento britannico), il governo ha presentato, ad ottobre 2013, l’Immigration Bill, un progetto di legge inteso a contrastare l’immigrazione illegale ma anche ad introdurre misure restrittive intese ad impedire “il turismo sociale” ovvero l’arrivo nelle isole britanniche con l’esplicito obiettivo di sfruttare il sistema assistenziale (https://www.gov.uk/government/collections/immigration-bill). Le misure elaborate principalmente per controllare la mobilità di bulgari e rumeni, saranno tuttavia indistintamente applicabili a tutti i cittadini dell’Unione  (http://www.gov.uk/government/speeches/david-camerons-immigration-speech).

Il Regno Unito non è il solo Stato membro a voler perseguire una politica migratoria restrittiva interna al mercato comune: unitamente a Paesi Bassi, Austria e Germania, ha infatti inviato una lettera alla Commissione chiedendo sanzioni dure per contrastare l’arrivo nel suo territorio di rumeni e bulgari. La lettera è stata discussa durante il Consiglio europeo di giugno 2013 che ha invitato la Commissione a esaminare l’attuazione delle norme in materia di libera circolazione, inclusi orientamenti per combattere l’abuso di tali norme, e a presentare al Consiglio “Giustizia e affari interni” una relazione intermedia entro ottobre 2013 e una relazione finale entro dicembre 2013 (www.consilium.europa.eu/uedocs/NewsWord/it/jha/138874.doc‎).

La Commissione ha adottato nel novembre 2013 una comunicazione sulla libera circolazione dei cittadini dell’Unione (COM (2013) 837) evidenziando l’assenza di “una relazione statistica tra la generosità dei sistemi di sicurezza sociale e i flussi di cittadini dell’Unione” ma nel contempo esponendo cinque azioni atte ad aiutare gli Stati membri ad applicare la normativa e gli strumenti messi a disposizione dell’UE anche in termini di utilizzazione dei fondi strutturali e d’investimento. Il 13 gennaio 2014 la stessa istituzione inoltre pubblicato una guida sulla determinazione della residenza abituale per aiutare gli Stati membri ad applicare correttamente le norme sul coordinamento della sicurezza sociale ai cittadini dell’Unione che si sono trasferiti in un altro Stato membro (http://europa.eu/rapid/press-release_IP-14-13_it.htm).

D’altro canto, anche il quadro normativo e giurisprudenziale progressivamente sviluppato dall’UE ammette chiare deroghe al generale principio della parità di trattamento rispetto ai cittadini nazionali in relazione alle prestazioni di assistenza sociale che possono essere negate nei primi tre mesi di soggiorno se il cittadino è economicamente inattivo o se è entrato nello Stato allo scopo di cercare una prima occupazione. La permanenza è poi concessa per altri sei se si è in grado di dimostrare che si sta cercando attivamente un lavoro. Al termine dei sei mesi bisogna uscire dallo Stato, a meno che non si disponga di mezzi finanziari per sostenersi e di un’assicurazione sanitaria. In caso di perdita di lavoro, il Paese ospitante è obbligato ad analizzare la situazione specifica, per decidere se concedere o meno l’aiuto e a tal fine si considerano la durata del soggiorno, l’età, lo stato di salute, il grado di integrazione, il carattere temporaneo della difficoltà, i contributi versati e i diritti acquisiti nel Paese. La Corte di giustizia ha interpretato queste norme in termini rigorosi. Di recente, nella sentenza Reyes (16.1.2014, C-423/12), i giudici hanno ricordato che il diritto al ricongiungimento familiare dei cittadini europei è comunque subordinato al controllo, da parte degli Stati membri, circa l’esistenza dei requisiti di dipendenza economica in capo ai familiari a carico che si vogliono far entrare nel territorio del paese ospitante. Nella sentenza Onuekwere (16.1.2014, C-378/12) ha inoltre stabilito che i periodi di detenzione cui è sottoposto il familiare del cittadino europeo non possono essere presi in considerazione per il rilascio del permesso di soggiorno permanente.

Altro e delicato problema riguarda l’allontanamento cittadino dell’Unione e le garanzie che gli sono riconosciute. L’adozione del provvedimento è possibile per ragioni di ordine pubblico, pubblica sicurezza, sanità pubblica, mai invocabili “per fini economici”, sempre nel rispetto del principio di proporzionalità e soltanto in relazione al comportamento personale dell’individuo. Trattandosi di deroghe all’esercizio di una libertà fondamentale vige l’obbligo di un rispetto rigoroso di queste condizioni. I governi nazionali, d’altro canto, chiedono una più ampia discrezionalità soprattutto laddove ricorrono “motivi diversi” dall’ordine pubblico e pubblica sicurezza, quando, cioè la presenza del cittadino diviene un onere eccessivo per il sistema di assistenza sociale, non dispone più di assicurazione malattia o di risorse economiche sufficienti. La direttiva 2004/38 non precisa il significato di “onere eccessivo” salvo prevedere che il ricorso al sistema di assistenza sociale non è automaticamente di per sé un motivo di allontanamento richiedendo una valutazione caso per caso. Lo stesso criterio vale per la nozione di “risorse sufficienti”: gli Stati non possono fissare a priori un importo preciso ma devono “tener conto della situazione personale dell’interessato”. Inoltre, il provvedimento che dispone l’allontanamento per motivi di ordine pubblico e pubblica sicurezza vieta anche il reingresso nel territorio dello Stato che lo ha disposto; ciò non è consentito se l’allontanamento avviene per motivi diversi. Di conseguenza, il cittadino dell’Unione può rientrare legittimamente anche il giorno successivo o lo stesso giorno dell’allontanamento.

Gli effetti sociali della crisi sono ancora pesanti e consistenti i divari occupazionali e sociali fra gli Stati membri (cfr. COM(2013) 800 e 801, del 13.11.2013) che di fatto mettono a rischio i principi della libera circolazione. C’è indubbiamente una consapevolezza politica del problema, ma anche una difficoltà di fondo nel coordinare gli interventi dell’UE e degli Stati membri, nel rispetto delle rispettive competenze.


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