La Corte europea dei diritti dell’uomo si pronuncia sulla cyber-violenza

1. La Corte europea dei diritti dell’uomo, adita da una cittadina rumena, ha avuto modo di esprimersi su una forma di violenza che, nell’epoca attuale, risulta essere fra le più diffuse: la cyber-violenza. Tramite la sentenza Buturugă contro Romania, depositata lo scorso 11 febbraio, essa ha esaminato il tema in special riferimento alle donne e alla sfera domestica (a tal proposito, si vedano: Risoluzione del Parlamento europeo del 25 febbraio 2014 recante raccomandazioni alla Commissione sulla lotta alla violenza contro le donneRisoluzione del Parlamento europeo del 12 settembre 2017 sulla proposta di decisione del Consiglio relativa alla conclusione della convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza contro le donne e la violenza domesticaRisoluzione del Parlamento europeo del 28 novembre 2019 sull’adesione dell’UE alla convenzione di Istanbul e altre misure per combattere la violenza di genere). La Corte ha così approfondito quanto già affermato nella nota sentenza Talpis contro Italia e ha fissato punti chiave che potranno giovare alla prossima definizione del caso Penati contro Italia.

2. La causa ha avuto origine dal ricorso n. 56867/15, mediante il quale la sig.ra Gina Aurelia Buturugă (nel prosieguo, “la ricorrente”) si è rivolta ai giudici di Strasburgo lamentando l’inadeguata attività delle autorità statali a fronte dei terribili episodi di violenza domestica che la avevano vista protagonista. La ricorrente era stata più volte minacciata di morte dal marito, che le aveva anche inferto lesioni fisiche attestate da un certificato forense. Ma non solo. L’uomo aveva avuto accesso al profilo dei suoi social media, fra cui Facebook, senza il suo consenso e aveva fatto copia delle sue conversazioni private, di documenti e foto.

3. La ricorrente aveva presentato due denunce contro il coniuge presso la Procura della Repubblica del Tribunale di primo grado di Tulcea: la prima aveva come oggetto la violenza e le minacce, la seconda la violazione della segretezza della corrispondenza. La Procura, tuttavia, aveva chiuso il caso, giudicando le condotte del reo non abbastanza gravi da poter essere qualificate come reato e condannandolo, quindi, al pagamento di una mera sanzione amministrativa di ammontare pari a 1.000 lei rumeni (circa 250 euro).

4. Considerato l’infausto esito del giudizio, la ricorrente aveva impugnato il provvedimento emesso, contestando, fra le altre cose, la superficialità con la quale gli inquirenti avevano condotto le indagini e l’insufficienza delle prove raccolte. Il Tribunale adito, però, pur disponendo una misura di protezione in favore dell’attrice della durata di sei mesi, aveva respinto il suo ricorso. La decisione definitiva, emanata il 25 maggio 2015, aveva confermato le conclusioni della Procura e aveva ribadito la mancanza dello standard minimo di pericolosità sociale necessario per condannare penalmente un soggetto.

5. Ritenendosi incondizionatamente lesa da quanto accaduto, la ricorrente si è rivolta alla Corte europea dei diritti dell’uomo, citando in giudizio la Romania e invocando tre articoli della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (nel prosieguo, “la Convenzione”): l’art. 5, relativo al diritto alla libertà e alla sicurezza, l’art. 6, inerente al diritto ad un equo processo, e l’art. 8, connesso al rispetto della vita privata e familiare. I giudici aditi, dopo aver “corretto” la ricorrente giovandosi del principio iura novit curia, hanno valutato il caso soltanto sulla base dell’articolo 3, attinente alla proibizione della tortura, e dell’articolo 8.

6. Nelle more del processo, la Corte EDU ha dettato una serie di principi volti ad orientare l’operato dei giudici nazionali. In primis, ricalcando la sentenza Opuz contro Turchia e la sentenza Bălșan contro Romania, ha evidenziato che gli Stati devono assicurare protezione alle vittime di violenza mediante la predisposizione di forme di prevenzione. Pertanto, in capo ad essi gravano due tipi di obblighi positivi: adottare misure ragionevoli per prevenire i maltrattamenti di cui le autorità sono, o dovrebbero essere, a conoscenza e condurre indagini efficaci ogni qual volta un individuo sostenga di essere stato vittima di soprusi (paragrafo n. 60 della sentenza).

7. In secondo luogo, è stato precisato che i casi di violenza domestica devono essere intesi in modo diverso e, anzi, più rigoroso, rispetto alle altre forme di violenza, in conformità con la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica, adottata ad Istanbul l’11 maggio 2011 ed entrata in vigore il 1° agosto 2014 (paragrafo n. 67 della sentenza). Per tale motivo, nel caso de quo, sono state respinte le difese della Romania. Invero, la convenuta, pur essendo dotata di un quadro giuridico idoneo a proteggere le vittime, non era stata in grado di gestire correttamente l’indagine: gli inquirenti non avevano affatto considerato l’impatto psicologico degli eventi sulla donna, limitandosi a giudicare soltanto le sue lesioni fisiche.

8. La Corte europea si è altresì soffermata sulla cyber-violenza, definendola «un aspect de la violence à l’encontre des femmes et des filles» (paragrafo n. 74 della sentenza) e allineandosi al report Cyber violence against women and girls pubblicato dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nel 2015 e al c.d. Mapping study on cyberviolence elaborato nel 2018 dal Gruppo di lavoro del Consiglio d’Europa. È stato rilevato, inoltre, che essa può assumere le più svariate forme – a partire dall’ingerenza in un dispositivo elettronico altrui con conseguente violazione della privacy, fino ad arrivare alla pubblicazione di dati e immagini – tutte ugualmente gravi e non tollerabili.

9. Ancora, il collegio giudicante guidato dal presidente Kjølbro ha specificato che simili episodi, ove posti in essere da un partner, non possono essere trattati come casi di violenza ordinaria, ma devono soggiacere all’applicazione delle più rigide norme fissate per la violenza domestica (paragrafo n. 74 della sentenza). La ratio di una simile statuizione è rinvenibile nella volontà di dar vita ad un orientamento volto a tutelare al meglio tutte le donne che giornalmente subiscono vessazioni, ma che non si rivolgono alle autorità competenti temendo di non poter essere protette a sufficienza.

10. Sulla scorta di queste fondamentali considerazioni, la Corte ha condannato la Romania invitandola, pro futuro, a valutare con sguardo più ampio ed accorto un così delicato fenomeno.

11. Ebbene, la sentenza in commento rivolge un implicito invito agli Stati europei, esortandoli a non sottovalutare gli episodi di violenza, tanto più se attuata su piattaforme virtuali. Il cyber-spazio, infatti, è un luogo all’interno del quale si annullano tanto la sfera privata, quanto i confini territoriali e temporali, accentuando così l’offensività delle azioni e i danni psichici delle vittime. Sarà interessante scoprire l’impatto che la pronuncia avrà nell’ambito degli ordinamenti nazionali. In Italia, in particolare, i principi ivi sanciti si inseriscono in un panorama già abbastanza ricco per merito dei recenti interventi del legislatore: da un lato, la legge n. 69/2019 ha implementato le disposizioni del codice penale relative alla violenza domestica (si pensi agli artt. 572, 609 bis, 609 ter, 609 quater, 609 quinquies, 609 octies, 612 bis e 612 ter), dall’altro la legge n. 71/2017 ha regolamentato il cyber-bullismo, aprendo le porte all’elaborazione di un’accurata disciplina per ogni forma di cyber-violenza.

 


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