La Corte di giustizia condanna (nuovamente) l’Ungheria per l’inadeguatezza della normativa sull’asilo

Il 17 dicembre 2020 si è conclusa la procedura d’infrazione avviata più di tre anni prima dalla Commissione europea nei confronti dell’Ungheria, per violazione di norme in materia di riconoscimento della protezione internazionale e in materia di rimpatri (causa C-808/18, Commissione c. Ungheria). Si tratta dell’ennesima pronuncia nel settore del diritto d’asilo che vede come protagonista lo Stato di Orbán e che conferma la tendenza del governo ungherese verso un progressivo e sempre più ampio deterioramento dello stato di diritto. In effetti, tra le preoccupazioni che avevano spinto il Parlamento europeo, nel settembre del 2018, ad avviare nei confronti dell’Ungheria la procedura di cui all’art. 7 TUE, rientravano proprio considerazioni legate alla situazione dei migranti e dei rifugiati.

Benché talune delle problematiche poste all’attenzione della Corte siano già state analizzate in occasione di un recente rinvio pregiudiziale sollevato da un Tribunale ungherese (cfr. sentenza del 14 maggio 2020, cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU), e benché, proprio a seguito di questa sentenza, le zone di transito oggetto dell’odierna causa siano state chiuse, la questione assume comunque una particolare rilevanza nell’ottica di rimarcare l’inaccettabilità dell’atteggiamento ungherese.

  1.  La vicenda ha tratto origine dall’emanazione di una legge del 2015, con la quale erano state istituite le cd. «zone di transito» − luoghi specificamente dedicati all’espletamento delle procedure di asilo e situate al confine serbo-ungherese −, e con la quale era stata introdotta la nozione di «situazione di crisi causata da un’immigrazione di massa», che comportava l’applicazione di norme derogatorie alla stregua di norme generali, quando una situazione del genere era dichiarata dal governo. La situazione era stata poi ulteriormente compromessa da una legge del 2017, che aveva ampliato i casi che consentivano di dichiarare l’esistenza di una simile situazione di crisi e aveva modificato le disposizioni che consentivano di derogare alle disposizioni generali.
  2.  Le quattro contestazioni sollevate dalla Commissione europea in ricorso, e ritenute fondate dalla Corte di giustizia, possono essere lette alla luce del canone rappresentato dal principio di effettività della tutela, che, secondo quanto emerso dalla decisione della Grande Sezione, è risultato sistematicamente inosservato nell’impianto normativo e nella prassi ungherese.
  3. Innanzitutto, è stata riscontrata una violazione dell’obbligo di garantire accesso effettivo alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale (art. 6, par. 1 direttiva «procedure»), cui è conseguita la compromissione di diritti connessi − quali il diritto a che tale domanda di protezione sia registrata e possa essere inoltrata ed esaminata entro i termini fissati dalla direttiva 2013/32, − nonché dell’effettività del diritto di asilo, quale garantito dall’articolo 18 della Carta. Tale inadempimento è stato ravvisato tanto nella normativa nazionale, secondo la quale le domande di protezione internazionale potevano, di regola, essere presentate solo in una delle due zone di transito, quanto nella prassi amministrativa diffusasi tra le autorità ungheresi, volta a limitare sistematicamente l’accesso alle zone di transito tramite la fissazione di un numero massimo di ingressi.
  4. In secondo luogo, la Corte ha ricordato (cfr. sentenza del 14 maggio 2020, cause riunite C-924/19 PPU e C-925/19 PPU) che l’obbligo imposto ai richiedenti protezione internazionale di rimanere in una zona di transito durante l’intera procedura di esame della loro domanda costituisce una forma di trattenimento, peraltro non legittima per incompatibilità rispetto alle garanzie fissate dalla direttiva «accoglienza». Contrariamente a quanto sostenuto dall’Ungheria, l’effettività delle garanzie assicurate ai richiedenti asilo attraverso le norme che regolano l’apprestamento di una forma di trattenimento non può essere inficiata in ragione di un mero richiamo ai motivi di ordine pubblico e sicurezza, di cui alla clausola dell’art. 72 TFUE. Secondo un consolidato orientamento della Corte (cfr. sentenza del 2 aprile 2020, Commissione c. Polonia, Ungheria e Repubblica ceca, cause riunite C‑715/17, C‑718/17 e C‑719/17, EU:C:2020:257), infatti, è onere dello Stato membro dimostrare la necessità di avvalersi della deroga prevista da tale norma al fine di esercitare le proprie responsabilità in materia di mantenimento dell’ordine pubblico e della salvaguardia della sicurezza interna.
  5. I giudici europei hanno poi ravvisato una mancanza di effettività della tutela sotto il profilo dell’inattuazione delle garanzie previste dalla direttiva 2008/115, in caso di rimpatri di cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno nel territorio è irregolare. In particolare, secondo la prassi ungherese, i soggetti venivano scortati dalle autorità di polizia dall’altro lato di una barriera eretta a qualche metro dalla frontiera con la Serbia, su una striscia di terra priva di qualsiasi infrastruttura, costringendoli, così, ad abbandonare il territorio ungherese. Questo iter, pur configurandosi come un allontanamento ai sensi della direttiva «rimpatri», non assicurava però il rispetto delle garanzie sostanziali e procedurali che tale direttiva istituisce (Capo III direttiva 2008/115).
  6. Infine, la Grande Sezione ha sancito il mancato rispetto da parte dell’Ungheria dell’obbligo di assicurare, a qualsiasi richiedente protezione internazionale, il diritto di rimanere nel territorio dello Stato membro interessato dopo il rigetto della sua domanda, fino alla scadenza del termine previsto per la presentazione di un ricorso avverso tale rigetto o, se è stato presentato un ricorso, fino all’adozione di una decisione su quest’ultimo (art. 46, par. 5 direttiva «procedure»). In particolare, l’Ungheria si è posta in contrasto con siffatto diritto, consentendo, in caso di dichiarazione di una situazione di crisi causata da un’immigrazione di massa, ai richiedenti protezione internazionale la cui domanda fosse stata respinta in prime cure dall’autorità accertante di rimanere nel suo territorio solo a condizione che essi siano trattenuti in maniera contraria alle direttive 2013/32 e 2013/33.

3. Tanto premesso, occorre rilevare come, allo stato attuale, la situazione di compromissione dei diritti dei richiedenti asilo in Ungheria non sia tuttavia sostanzialmente mutata.

Nuove problematiche concernenti il sistema ungherese sono infatti emerse di recente: una riforma entrata in vigore il 18 giugno 2020, con il pretesto di fronteggiare l’emergenza pandemica, ha introdotto forti restrizioni al riconoscimento del diritto d’asilo, sia per coloro che già si trovano sul territorio dello stato, sia per coloro che tentano di attraversare le frontiere ungheresi.

Le nuove disposizioni – valide fino al 31 dicembre 2020, ma probabilmente destinate ad essere estese nel tempo − prevedono un iter speciale per l’accesso alle procedure di asilo, che impone ai cittadini non comunitari, prima di poter presentare domanda di protezione internazionale in Ungheria, di depositare presso un’ambasciata ungherese situata al di fuori del territorio dell’Unione Europea, una “dichiarazione d’intenti” che attesti la loro volontà di chiedere protezione. L’ambasciata è quindi tenuta ad inoltrare suddetta “dichiarazione d’intenti” all’autorità ungherese competente per l’asilo (NDGAP), perché venga esaminata entro i 60 giorni successivi e venga presa una decisione in merito all’opportunità di rilasciare al potenziale richiedente un permesso speciale di ingresso unico per entrare in Ungheria. Soltanto con tale permesso, quest’ultimo avrà il diritto di fare ingresso nel territorio ungherese (entro 30 giorni dal rilascio), e all’arrivo, di rivolgersi immediatamente alle guardie di frontiera per registrare formalmente (entro 24 ore) la domanda di protezione internazionale.

Anche in tale caso, la Commissione ha promosso l’avvio di una procedura d’infrazione, considerando integrate violazioni della direttiva «procedure», come interpretata alla luce della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. La lettera di messa in mora è stata inoltrata il 30 ottobre 2020 e l’Ungheria ha due mesi di tempo per rispondere agli argomenti sollevati dalla Commissione.

Dunque, innanzi al persistente atteggiamento reticente del governo ungherese a conformarsi agli standard europei, si è scelto, ancora una volta, di procedere attraverso lo strumento del ricorso per inadempimento (cfr. M. Schmidt, P. Bogdanowicz, The Infringement Procedure in the Rule of Law Crisis: How to Make Effective Use of Article 258 TFEU, in Common Market Law Review, 2018, p. 1061 ss,), confermando, implicitamente, la diffidenza rispetto alla possibilità di perseguire efficaci risultati attraverso la procedura di natura politica disciplinata dall’art. 7 TUE.

Atteso che si tratta della quinta procedura d’infrazione concernente le politiche di asilo avviata nei confronti dell’Ungheria, a partire dal 2015, occorrerà monitorare lo sviluppo della vicenda, soprattutto nell’ottica di valutare se il ricorso a tale strumento giuridico possa costituire effettivamente lo strumento più adeguato ad assicurare una tutela reale dello stato di diritto e, correlativamente, garantire il rispetto dei diritti fondamentali.


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