La cooperazione rafforzata “orientata” per l’istituzione della Procura europea: possibili scenari e problematiche applicative

1. Introduzione

I recenti, drammatici sviluppi del fenomeno migratorio, bisognosi di risposte istituzionali rapide ed incisive in seno all’Unione europea hanno – comprensibilmente – contribuito a relegare in secondo piano il fervente dibattito che, fino a qualche settimana addietro, caratterizzava le disposizioni che il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (da ora innanzi, TFUE) dedicano all’istituzione della Procura europea. Cionondimeno, pare opportuno dedicare alcune, brevi riflessioni alla problematica, nella prospettiva del nuovo interesse che essa potrebbe suscitare con l’avvicinarsi del prossimo Consiglio dell’Unione europea, in formazione Giustizia ed Affari Interni, che avrà luogo in data 8 e 9 ottobre prossimi.

Il presente contributo non affronterà la questione dall’angolo visuale del diritto penale, già oggetto di numerosi e validi contributi: al contrario, l’obiettivo è quello di fornire una panoramica dei profili problematici che l’istituzione della Procura europea potrebbe presentare, se perseguita per il tramite dell’istituto della cooperazione rafforzata c.d. orientata. Pare altresì opportuno rilevare che tale ipotesi sembra tutt’altro che un mero esercizio di stile: la totalità dei commentatori (Cfr. ex multis H. Leenderth, W.H. Erkelens Arjen (a cura di), The European Public Prosecutor’s Office: an extended arm or a two headed dragon?, The Hague, 2015, p. 196 ss.; U. Draetta, Elementi di diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale. Ordinamento e struttura dell’Unione europea, Milano, 2009, p. 120, nonché la Risoluzione del Parlamento europeo del 12 marzo 2014 sulla proposta di regolamento del Consiglio che istituisce la Procura europea, COM(2013)0534) è concorde nel ritenere estremamente complesso (se non addirittura impossibile) raggiungere una soluzione condivisa in merito, tra gli Stati membri; l’assunto, inoltre, viene confortato dall’evidenza empirica data dalle undici assemblee parlamentari nazionali le quali – secondo i poteri loro concessi dal protocollo n. 2 allegato ai trattati – hanno espresso parere dubitativo (poi negletto, come si vedrà) in ordine alla compatibilità della proposta di regolamento istitutivo della Procura con il rispetto del principio di sussidiarietà.

2. Delle cooperazioni rafforzate ‘orientate’

Come noto, il fenomeno dell’integrazione differenziata nel diritto dell’Unione europea è in continua ascesa.

Del resto, la sottoposizione dell’ordinamento giuridico euro-unitario a deepening – nel senso del progressivo approfondimento dell’integrazione – e widening – nel senso del progressivo allargamento della base soggettiva di applicazione del diritto dell’Unione europea – sempre più marcati non poteva che condurre ad un aumento nella difficoltà di raggiungere soluzioni condivise ed efficaci (sul tema, Cfr. l’autorevole analisi di M. Condinanzi, Il futuro dell’Unione europea. Acquis o ma(c)quis communautaire ?, su questa rivista) .

Naturalmente, le considerazioni esposte sono valide per la totalità dei settori di intervento dell’Unione europea: ciononostante, tra di essi lo Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia (d’ora innanzi, SLSG) ha costituito – e costituisce – un terreno particolarmente fertile per la proliferazione di forme di integrazione differenziata, essenzialmente a motivo di due fattori: (i) le questioni di sicurezza e giustizia occupano una posizione affatto peculiare nei sistemi valoriali degli Stati membri, essendo intrinsecamente connesse ad istanze di salvaguardia della sovranità nazionale (del resto, i settori della sicurezza dei cittadini, dei controlli alle frontiere e dell’amministrazione della giustizia rappresentano, sin dalla nascita del concetto di Stato moderno, i principali fattori di legittimazione degli Stati nazionali); (ii) vi è una tangibile (ancorché comprensibile, per ovvie considerazioni di ordine politico, sociale e, come naturale conseguenza, giuridico) eterogeneità nell’approccio degli ordinamenti giuridici dei singoli Stati membri alla materia di cui trattasi.

Conseguentemente, non può stupire la particolare riluttanza degli Stati membri in ordine a cessioni di porzioni di sovranità nazionale nel settore de quo, tanto da condurre una parte dei commentatori a ritenere che esso testimoni più di ogni altro che la differenziazione non è semplicemente « un concetto astratto, ma una realtà politica » (Cfr. J. Maillo, Differentiation in the European Area of Freedom, Security and Justice).

In tale contesto, il fatto che il trattato di Lisbona abbia fornito la base giuridica per l’istituzione – eventualmente ricorrendo al meccanismo della cooperazione rafforzata (art. 86, par. 1, TFUE) – della Procura europea rappresenta il precipitato di un percorso lungo ed articolato, nel corso del quale la differenziazione nell’integrazione nel settore dell’istituzione di uno SLSG ha assunto forme eterogenee. Così, è stato possibile assistere alla predisposizione di: (i) una forma di integrazione differenziata collocata a latere dell’ordinamento giuridico dell’Unione, quella discendente dall’acquis di Schengen, poi ‘comunitarizzato’; (ii) cooperazioni rafforzate, dapprima disciplinate tra primo e terzo pilastro, poi anch’esse integralmente ‘comunitarizzate’, ancorché mai concretamente avviate, fino a tempi recentissimi (in materia di CR, soprattutto con riferimento ai principi generali della materia e ad una ricostruzione storica del fenomeno, Cfr. l’imprescindibile contributo di A. Cannone, Le cooperazioni rafforzate. Contributo allo studio dell’integrazione differenziata, Bari, 2005); (iii) opt-out clauses relativamente a Gran Bretagna, Irlanda e Danimarca (la cui posizione è disciplinata dal protocollo n.5; (iv) cooperazioni rafforzate (da ora innanzi, CR) ‘speciali’, o ‘orientate’.

Ebbene, è proprio quest’ultima categoria ad assumere particolare rilevanza, ai fini della presente analisi: essa riconduce ad unità disposizioni inerenti a fenomeni diversissimi, ma accomunati dal costituire altrettante eccezioni al regime generale delle CR, così come risultante dal combinato disposto degli artt. 20 del trattato sull’Unione europea (d’ora innanzi, TUE) e 326-334 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. In tali ipotesi, l’eccezione rispetto al regime generale risiede in uno snellimento del procedimento di autorizzazione – e successivo avvio – della CR.

Più in particolare, è noto che il procedimento ordinario, derivante dal combinato disposto degli artt. 20, par. 2, TUE e 329, par. 1, TFUE, prenda avvio con una proposta da parte di almeno nove Stati membri (cioè a dire del numero minimo necessario per integrare il c.d. numero di ‘massa critica’, posto a tutela dell’integrità dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea) alla Commissione, la quale può presentare al Consiglio dell’Unione europea una proposta al riguardo. Quest’ultimo, previa constatazione dell’impossibilità di conseguire gli obiettivi dalla CR dall’Unione nel suo insieme entro un termine ragionevole ed all’esito dell’approvazione del Parlamento europeo, emette la decisione che autorizza la CR.

Rispetto a tale scenario, le CR ‘orientate’ presentano due, fondamentali differenze: (i) l’autorizzazione all’avvio non viene concessa per il tramite di un atto di diritto derivato (la decisione del Consiglio), bensì di diritto primario (il TFUE); (ii) l’autorizzazione non viene concessa all’esito del controllo del triangolo istituzionale, ma è garantita ex ante dal trattato.

Le ipotesi di CR ‘speciale’, allo stato attuale del diritto vigente, sono quattro: il meccanismo di cui al protocollo n. 19 sull’acquis di Schengen; la fattispecie di cui all’art. 82, par. 3, TFUE (dettato per facilitare il raggiungimento dell’obiettivo del riconoscimento reciproco delle sentenze e delle decisioni giudiziarie e la cooperazione di polizia e giudiziaria nelle materie penali aventi dimensione transnazionale); la fattispecie di cui all’art. 83, par. 3, TFUE (fissazione di norme minime relative alla definizione dei reati e delle sanzioni in sfere di criminalità particolarmente grave, che presentano una dimensione transnazionale, nonché alla fissazione di reati e sanzioni per il caso di ravvicinamento delle disposizioni legislative e regolamentari degli Stati membri in materia penale, allorché ciò si riveli indispensabile per garantire l’attuazione efficace di una politica dell’Unione in un settore che è stato oggetto di misure di armonizzazione); l’istituzione della procura europea, di cui all’art. 86, par. 1, TFUE; la fattispecie di cui all’art. 87, par. 3, TFUE (cooperazione operativa).

Sul concreto funzionamento dell’ipotesi di cui all’art. 86 TFUE si tornerà oltre; per ora, sia sufficiente trarre da quanto sinteticamente premesso alcune, significative conclusioni, che torneranno utili nel prosieguo dell’analisi.

In primo luogo, è di tutta evidenza il dato per cui la complessità strutturale dello SLSG si è tradotta in una omologa complessità delle forme di differenziazione dell’integrazione per esso previste (come, del resto, emerge dall’elenco di cui sopra); in secondo luogo, la disciplina delle CR nello scenario post-trattato di Lisbona consegna all’interprete un certo favor per il perseguimento differenziato degli obiettivi dello SLSG, a causa della fissazione di un numero di massa critica piuttosto contenuto, nonché di una certa semplificazione procedimentale rispetto alla procedura ordinaria per l’avvio delle CR; in terzo luogo, lo scenario del diritto positivo attualmente vigente non brilla per chiarezza ed omogeneità, a motivo della coesistenza di numerosi regimi differenziati; infine, l’esperienza maturata nel settore de quo fino ad ora è tale per cui, senza la previsione di fenomeni di differenziazione, probabilmente non sarebbe stato possibile approdare all’attuale livello di integrazione, reso ancor più produttivo dal progressivo ingresso di Stati membri rimasti originariamente ai margini dell’espansione dell’Unione in quel settore (particolarmente esemplificativo a questo riguardo è il caso dell’acquis di Schengen, la cui base di applicazione soggettiva è stata sottoposta ad un significativo incremento, nel corso del tempo).

In altri termini, un certo grado di maneggevolezza del sistema è certamente stato sacrificato; cionondimeno, l’alternativa a tale sacrificio sarebbe stata la stasi o, più probabilmente, la predisposizione di disposizioni collocate a latere dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea.

3. Della procedura di cui all’art. 86 TFUE

Ciò posto, pare possibile effettuare una più consapevole analisi dell’art. 86 TFUE, con particolare riguardo all’istituzione di una CR.

In primo luogo, pone mente rilevare che l’art. 86, par. 1, TFUE prevede una procedura legislativa speciale che, ab origine, si fonda sul requisito dell’unanimità: a ben vedere, sono proprio disposizioni di questo genere a costituire terreno fertile per la proliferazione di CR, a causa della crescente difficoltà di raggiungere l’unanimità in seno al Consiglio (soprattutto in settori particolarmente delicati, quali quello dello SLSG, per i motivi di cui sopra). Un recentissimo esempio in tal senso è costituito dalla CR nel settore dell’istituzione di una tutela brevettuale unitaria, la cui base giuridica – l’art. 118, par. 2, TFUE – prevede una deliberazione all’unanimità in seno al Consiglio (CR, di fatto, effettivamente avviata all’esito di numerose peripezie, le ultime delle quali riconducibili alle pronunzie rese in causa C-146/13 e C-147/13, con le quali la Corte di Giustizia ha definitivamente respinto ogni doglianza spagnola avverso il brevetto unitario).

Inoltre, ancora con riferimento alla votazione all’unanimità in materia di istituzione della Procura europea, è necessario rimarcare come tale soglia debba essere calcolata eccettuando i rappresentanti di Danimarca, Irlanda e Regno Unito (ciò contribuendo ad accentuare i motivi di scarsa maneggevolezza del sistema di cui sopra).

Ad ogni modo, tornando all’esame delle disposizioni rilevanti in materia di Procura europea, nell’ipotesi della mancanza di unanimità un gruppo di almeno nove Stati membri è legittimato a chiedere che il Consiglio europeo ‹‹sia investito del progetto di regolamento››, ipotesi in cui il procedimento è sospeso. Si noti che nulla è disposto relativamente alla composizione del gruppo dei nove Stati membri move forward, di guisa che tale gruppo ben potrebbe comprendere anche Danimarca, Irlanda e Regno Unito. A questo punto, il Consiglio europeo ha quattro mesi di tempo per raggiungere un ‹‹ consenso ›› sulla proposta di regolamento. Entro il medesimo termine, in caso di disaccordo, qualora almeno nove Stati membri desiderassero instaurare una CR sulla base del progetto di regolamento in questione, essi ne dovrebbero informare Parlamento europeo, Consiglio e Commissione e l’autorizzazione dovrebbe ritenersi concessa sic et simpliciter, senza ricorrere alla procedura ordinaria di cui agli artt. 326 ss. TFUE.

Si noti altresì che il trattato è silente in merito a cosa potrebbe accadere qualora, entro il termine in parola, non si riuscisse a raggiungere il consenso, ma non ci fossero neanche nove Stati membri disposti ad avviare la CR orientata. In tale ipotesi, parte dei commentatori (Cfr. H. Leenderth, W.H. Erkelens Arjen (a cura di), op. cit) ha sostenuto che la procedura rimarrebbe sospesa sine die: ciononostante, parrebbe sommessamente possibile ritenere che la lettera dell’art. 86 TFUE conduca altrove. Più in particolare, esso statuisce che ‹‹ previa discussione e in caso di consenso, il Consiglio europeo, entro quattro mesi da tale sospensione, rinvia il progetto al Consiglio per l’adozione. Entro il medesimo termine, in caso di disaccordo […] ››, da che sembrerebbe desumibile la natura perentoria del termine di quattro mesi, all’esito dei quali, in caso di mancata riassunzione del procedimento o mancata richiesta di CR, il procedimento dovrebbe ritenersi interrotto.

Del pari, deve ritenersi impossibile istituire la Procura europea tramite CR nel caso in cui, per qualunque motivo (ad es., rinuncia di Stati membri tale da scendere sotto il numero di massa critica), la procedura in esame dovesse arenarsi: l’art. 86 TFUE, infatti, costituisce lex specialis rispetto agli artt. 20 TUE e 326-334 TFUE, per cui al difetto dell’applicazione dell’art. 86, par. 1, TFUE non potrebbero sopperire questi ultimi.

La procedura appena descritta è sovente definita con il sintagma ‘sistema freno-acceleratore’, assimilandola alle già citate fattispecie di cui agli artt. 82, par. 3, e 83, par. 3, TFUE. Ciononostante, a ben vedere, tale ricostruzione è perfettibile, nella misura in cui l’ipotesi delineata all’art. 86 TFUE parrebbe costituire una sotto-categoria del genus ‘freno-acceleratore’: mentre, infatti, nel caso di cui sopra uno Stato membro che ritenga che un certo progetto legislativo incida su aspetti fondamentali del proprio ordinamento penale può chiedere che il Consiglio europeo sia investito della questione, l’art. 86 TFUE facoltizza gli Stati che vogliano uscire dalla situazione di stallo, non lo Stato (o gli Stati) che vogliano ‘tirare il freno’, a determinare la sospensione la procedura. Se – e solo se – nove Stati membri volessero addivenire ad una maggiore integrazione tramite CR si assisterebbe ad un allineamento dei due sistemi procedimentali, con l’opzione ‘acceleratore’. 

4. Conclusioni

Conclusa l’analisi delle principali problematiche procedimentali, è opportuno operare alcune, sintetiche considerazioni relative alla concreta operatività della CR., una volta avviata.

Da questo punto di vista, è fin troppo evidente che addivenire all’istituzione della Procura europea tramite il procedimento di CR avrebbe (avrà ?) l’effetto di aggiungere ulteriore frammentazione ad un quadro che – lo si è avvertito sin dall’inizio – è già piuttosto complesso. Ciò posto, delle due l’una: si potrebbe accettare il rischio di sovrapproduzione di disposizioni di compromesso, aventi le vesti di una maggiore integrazione, ma prive di capacità innovatrice; ovvero, più coraggiosamente, prendere atto delle diversità ordinamentali dei singoli Stati membri ed accettare fenomeni di differenziazione nell’integrazione.

L’opinione di chi scrive è che, ferme restando le aporie e deficienze che ogni sistema di integrazione differenziata intrinsecamente presenta, è possibile ricondurre a piena legittimità la CR in commento, sia pure a ben precise condizioni.

La prima di esse riguarda il momento a decorrere dal quale gli Stati membri move forward potranno legittimamente decidere di proseguire per la propria strada differenziata: l’aspetto in commento è uno dei più delicati, giacché è fin troppo evidente che gli interessi (finanziari, in questo caso) dell’Unione europea non sarebbero adeguatamente protetti se ogni negoziato infruttuoso potesse condurre ad una o più C.R., a detrimento della ricerca di un compromesso. Nell’ambito del procedimento ordinario di CR, si suole risolvere il problema enfatizzando il ruolo garantistico del Consiglio dell’Unione europea: sennonché, come avvertito, l’ipotesi in commento si caratterizza proprio per pretermettere il ruolo di filtro del Consiglio (ancorché, si potrebbe sostenere, tale mancanza sia parzialmente bilanciata da ruolo esercitato dal Consiglio dell’Unione europea). Dunque s’impone, a parere di chi scrive, una interpretazione sistematica delle disposizioni in materia di CR, condotta nel modo che segue: se è vero, come è vero, che l’art. 43, par. 1, lett. c), TUE, nella versione precedente al trattato di Lisbona, prevedeva che la CR potesse essere posta in essere solo qualora ‹‹non [fosse] stato possibile raggiungere gli obiettivi dei […] Trattati applicando le procedure pertinenti ivi contemplate››, con ciò legittimando un’interpretazione tale per cui il momento di avvio dovesse essere quello di interruzione del corso ordinario della procedura legislativa, allora il trattato di Lisbona  ha certamente guardato con un certo favore l’avvio di CR.

Di talché, pur non dovendo risultare proibitiva l’attuazione della stessa per non contravvenire allo spirito che pare animare il trattato, è quantomeno opportuno che gli Stati membri – sottoposti al controllo della Commissione, anche tramite procedura di infrazione e, se del caso, della Corte di Giustizia in una fase successiva – non procedano tramite CR prima di essersi avveduti di un vero e proprio blocco decisionale, senza esperire con eccessiva frettolosità lo strumento differenziato, ma rispettando con rigore il principio dell’ultima ratio, che informa di sé tutta la materia dell’integrazione differenziata.

Un altro aspetto che sembrerebbe cruciale è quello della relazione tra l’Unione europea, la futura Procura europea, le istituzioni dell’Unione europea, da un lato e gli Stati membri, dall’altro lato. Il problema, in altri termini, è quello relativo alla garanzia del rispetto dei principi di leale cooperazione e di sussidiarietà.

Con riferimento al primo, esso è uno dei drivers fondamentali dell’integrazione “comunitaria” lato sensu e dello sviluppo dello SLSG in particolare, grazie soprattutto all’operato della Corte di Giustizia, che ne ha fatto un principio strutturale che direttamente o indirettamente, in via esclusiva o incidentale, vincola l’esercizio delle competenze nazionali e dell’Unione europea al rispetto della solidarietà, della cooperazione, della buona fede e della lealtà. Esso, inoltre, costituisce il corollario di principi cardine, quali quelli del primato e dell’effetto diretto. Da esso deriva un duplice obbligo, in capo sia agli Stati membri che alle istituzioni dell’Unione europea: (i) assumere tutti i comportamenti necessari al perseguimento degli obiettivi comuni predefiniti; (ii) astenersi da comportamenti o atti che ne possano pregiudicare il raggiungimento, sia nei rapporti inter-statali, che in quelli inter-istituzionali, che in quelli tra Stati membri ed Unione europea.

Da questo punto di vista, l’idoneità delle misure di CR a perseguire l’integrazione europea si misura, indirettamente, anche rispetto all’incidenza negativa di tale meccanismo sulla posizione degli Stati membri che non vi partecipano: ciò va detto, innanzitutto, alla luce dell’art. 327 TFUE, il quale pone un vero e proprio obbligo positivo, in forza del quale le CR debbono rispettare le competenze, i diritti e gli obblighi degli Stati membri out; esso istituisce, inoltre, un obbligo negativo a carico di quest’ultimi, i quali debbono astenersi dall’ostacolare l’attuazione della cooperazione da parte degli Stati membri partecipanti. Da ciò deriva l’importanza fondamentale che assume il (rectius: la puntuale verifica del rispetto del) principio di leale cooperazione, anche e soprattutto alla luce del fatto che né l’art. 86 TFUE, né le disposizioni generali in materia di CR, positivizzano un vero e proprio obbligo della Procura europea di collaborare (in modo leale) con le autorità preposte allo svolgimento delle indagini preliminari degli Stati membri che non dovessero partecipare alla CR. E’ certamente vero, si potrebbe obiettare, che il menzionato art. 327 TFUE vieta agli Stati membri out di costituire un ostacolo al perseguimento di obiettivi tramite CR; è anche vero che l’art. 325 TFUE obbliga gli Stati membri a coordinare la propria azione ai fini della lotta contro le frodi, ma non è meno vero che ciò è (molto) diverso da un vero e proprio obbligo di cooperare lealmente con la Procura (e non tra Stati nazionali), con particolare riguardo all’obbligo di fornire lealmente e senza ostacoli le basi dell’agire penale, in fase di indagine: le informazioni.

Se è vero quanto premesso, è ancor più importante porre l’accento sul ruolo di Commissione e Corte di Giustizia, nonché dei singoli Stati membri, che debbono essere responsabilizzati al fine di garantire il rispetto del principio di leale cooperazione e, parrebbe opportuno aggiungere, dell’effetto utile, del quale sarebbe inevitabilmente priva una Procura a base soggettiva composta da soli nove (o comunque da un numero ridotto di) Stati membri ed estromessa da ogni dialogo con le autorità inquirenti degli Stati membri non partecipanti.

Infine, è indispensabile un breve accenno alla necessità che venga salvaguardato con estremo rigore il rispetto del principio di attribuzione, legato a doppio filo a quello di leale cooperazione, il quale, come detto, deve agire necessariamente in modo bi-direzionale: non solo, cioè, leale cooperazione tra Stati membri out e Procura europea, ma anche tra Procura e Stati membri. E’ evidente, infatti, il pericolo di criminal forum shopping (i.e. la scelta del regime giuridico nazionale caratterizzato dal minor tasso di afflittività della sanzione o dalla minor possibilità di essere soggetti a sanzione per illecito penale) cui potrebbero andare incontro gli Stati membri che non volessero partecipare alla CR: qualora, poi, tale pericolo dovesse concretizzarsi, è forte il rischio che ciò potrebbe coartare tali Stati membri ad attribuire competenze all’Unione europea, aderendo alla CR, in assenza di una libera manifestazione di volontà. Tale rischio, gravissimo (e paventato, in concreto, dalla House of Lords britannica, la quale, nel parere pubblicato in data 3 novembre 2014, sottolinea di essere ˂˂ concerned [of] the risk that a UK unable (or unwilling) to cooperate with the EPPO’s requests could become a safe heaven for illegally obtained EU funds >>), deve essere posto in relazione con alcune statuizioni della Corte Costituzionale tedesca, nell’ambito della ormai celebre sentenza resa il 30 giugno 2009 in materia di compatibilità con la Legge Fondamentale tedesca dell’Atto di approvazione del trattato di Lisbona, dell’Atto che modifica la Legge Fondamentale e dell’Atto che amplia e rafforza i diritti del Bundestag e del Bundesrat nelle questioni dell’Unione europea. La Corte, più in particolare, rimarcava il dato per cui gli Stati membri sono e restano i padroni dei trattati, che l’ordinamento giuridico dell’Unione Europea non è originario, ma pur sempre derivato e deve rispettare le prerogative degli Stati membri. Da questo punto di vista, non è del tutto incoraggiante la gestione dei negoziati sino ad ora, con particolare riguardo al modo in cui sono rimaste pressoché prive di ogni conseguenza le opinioni contrarie delle assemblee parlamentari nazionali, tra cui la House of Lords, il Senato francese e la Camera dei deputati olandese,  relative al supposto, mancato rispetto del principio di sussidiarietà (qui la replica della Commissione).

5. Considerazioni conclusive

All’esito delle considerazioni esposte, è possibile trarre alcune conclusioni: l’esperienza dell’integrazione “comunitaria” ha mostrato a più riprese che, in presenza della volontà politica di un gruppo di Stati membri, ancorché ristretto, si è comunque addivenuti al perseguimento di una maggiore integrazione in un dato settore, anche al costo di farlo al di fuori della cornice ordinamentale dell’Unione europea. Esemplari, in tal senso, sono i casi dell’acquis di Schengen, nonché del Trattato sulla Stabilità, il Coordinamento e la Governance nell’Unione Economica e Monetaria (c.d. Fiscal Compact). Conseguentemente, la CR rappresenta un utilissimo strumento per convogliare sacche di ‘de-comunitarizzazione’ nell’ordinamento giuridico dell’Unione europea e, come tale, costituisce un formidabile strumento di democrazia ed integrazione.

Cionondimeno, esso necessita di essere circondato da particolarissime cautele procedimentali, allo scopo di evitare che sconfini nella violazione dei principi cardine dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea. In tal senso, sarà necessario che gli Stati membri prendano atto della responsabilità che ciò pone su di essi, valorizzando il dialogo e protraendolo nel tempo, al fine di ricercare posizioni condivise, sotto il controllo delle istituzioni dell’Unione europea.

Con specifico riferimento alla Procura europea, le cui competenze potrebbero essere estese anche ad altri settori di intervento ex art. 86, par. 4, TFUE (nel clima di incertezza degli ultime settimane, da più fronti si paventa l’ipotesi della competenza in materia di criminalità transnazionale. Sull’argomento, Cfr. l’interessante contributo di S. Monici, Botta e risposta sulla procura europea tra il Sottosegretario alla Giustizia e l’Unione delle Camere Penali. Resta ancora lontana la sua realizzazione?, su questa rivista), le considerazioni in commento vanno reiterate con forza.

Le premesse non sembrano incoraggianti, ma ciò si rende necessario per il perseguimento di un fine, oltre ogni ragionevole dubbio, meritevole.


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