La Carta dei diritti fondamentali. I vent’anni di uno strumento costituzionale dell’Unione europea

Vent’anni fa, il 7 dicembre 2000, a cinquant’anni dalla adozione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – avvenuta a Strasburgo quasi nella stessa data: il 4 novembre – vedeva la luce a Nizza, con la sua firma da parte dei presidenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

Data la diretta relazione che si tende generalmente ad accreditare tra i due strumenti, questa coincidenza temporale potrebbe apparire fortemente suggestiva, se non addirittura voluta. In realtà essa è stata del tutto casuale. Così come non va troppo sopravvalutata, del resto, la contiguità contenutistica e funzionale tra la Convenzione e la Carta. E non solo per ragioni temporali.

E’ vero. Ambedue enunciano un catalogo di diritti e libertà fondamentali della persona umana. Ed è anche vero che quelli sanciti dalla Convenzione del 1950 li ritroviamo ugualmente nella Carta del 2000.

E tuttavia, quest’ultima è caratterizzata da una carica innovativa che la rende del tutto particolare e diversa rispetto a quel lontano precedente.

Questa diversità si manifesta già sul piano dei contenuti.

Prima di tutto per la quantità dei diritti e libertà sanciti: quelli già enunciati nella CEDU o in uno dei protocolli ad essa allegati non arrivano alla metà di quelli che si ritrovano nella Carta di Nizza, includendo la stessa, per il resto, anche diritti e libertà di altra origine, desunti, ad esempio, dalla Carta sociale europea o direttamente dai Trattati istitutivi, ma anche ricostruiti liberamente in fase negoziale.

In secondo luogo per la qualità della loro enunciazione nella Carta: il più delle volte essa è andata al di là di un’operazione meramente ricognitiva di diritti già esistenti, ma ne ha autonomamente rielaborato la formulazione con conseguenze anche sostanziali sulla loro effettiva portata.

Ma, rispetto alla Convenzione del 1950, la diversità della Carta di Nizza si afferma soprattutto sul piano funzionale. La CEDU si limita a porre – e non poteva essere altrimenti – un vincolo esterno a dei soggetti sovrani, gli Stati parti, imponendo loro uno standard minimo di tutela della persona umana nei confronti dell’autorità pubblica. La Carta, invece, costituisce a pieno titolo uno strumento di sistema: il suo ruolo si gioca tutto all’interno del sistema nel quale e per il quale è nata, tanto da vincolare prima di tutto le istituzioni di quel sistema, e gli Stati membri solo nella misura in cui essi diano attuazione al diritto dell’Unione.

Questi vent’anni hanno infatti dimostrato come essa non sia stata interpretata dalle istituzioni dell’Unione come un mero catalogo di parametri di legittimità della loro azione, ma piuttosto come un manifesto valoriale volto a promuovere i diritti e i principi lì codificati; sia, ovviamente, attraverso l’eventuale censura in giudizio delle loro eventuali violazioni, ma anche, se non soprattutto, attraverso la loro applicazione in positivo in tutti gli ambiti della vita istituzionale dell’Unione.

Non a caso, la Carta è entrata ormai a pieno titolo nel panorama legislativo e operativo dell’Unione. L’obiettivo di “rendere il più possibile effettivi i diritti fondamentali contenuti nella Carta”, che la Commissione ribadì come suo obiettivo primario in occasione dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona e dell’assunzione quindi, da parte della Carta, dello stesso valore giuridico dei Trattati (“Strategia per un’attuazione effettiva della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”, COM(2010) 573), si è in effetti tradotto in questi anni, e per tutte le istituzioni, in un ricorso fisiologico alla Carta nell’azione legislativa dell’Unione.

Apripista è stata una volta di più la Commissione, che aveva avviato già da prima di Lisbona una procedura di verifica sistematica alla luce della Carta delle sue proposte legislative, così come dei suoi progetti di atti delegati o di esecuzione: in vista dell’elaborazione di questi essa individua, nell’ambito della tradizionale valutazione d’impatto, i diritti fondamentali potenzialmente interessati, il livello d’interferenza con il diritto in causa e la necessità e proporzionalità di tale interferenza in termini di opzioni strategiche e di obiettivi prefissati; e una volta che la proposta o il progetto è definito, ne misura, nel quadro del controllo sulla sua legalità, la compatibilità con la Carta (ivi, p. 6 s.).

E altrettanto hanno deciso i colegislatori dell’Unione per le rispettive competenze. Il Consiglio ha adottato fin dal 2015 delle Guidelines on methodological steps to be taken to check fundamental rights compatibility at the Council preparatory bodies (doc. 5377/15, del 20 gennaio 2015), al fine di identificare e trattare le questioni relative ai diritti fondamentali che sorgono in relazione alle proposte in discussione al suo interno. Dal canto suo il Parlamento ha inserito nel proprio Regolamento interno un apposito art. 39, che consente il rinvio per parere alla Commissione parlamentare competente per la tutela dei diritti fondamentali di ogni proposta legislativa (o parte di essa) che la Commissione competente per materia, un gruppo politico o un certo numero di deputati ritengano che non rispetti uno o più diritti della Carta.

Ma l’impatto di quest’ultima sull’azione dell’Unione è andato in alcuni casi anche oltre. Nel senso che, fermo restando che, come precisato dal suo art. 51, par. 2, da essa non possano ricavarsene nuove competenze in capo all’Unione, la Carta ha finito infatti per influenzare e promuovere politiche e iniziative legislative delle istituzioni, inducendole a intervenire su temi sensibili quali la protezione dei dati personali, i diritti dei minori, la parità tra uomini e donne, la non discriminazione (cfr. Commission européenne, Rapport annuel 2018 sur l’application de la Charte des droits fondamentaux de l’UE, COM(2019) 257, p.15).

Insomma, sempre di più la Carta si conferma come uno strumento di sistema dell’Unione europea, del cui “quadro costituzionale” costituisce, come ha osservato la Corte di giustizia, un elemento centrale (sentenza 24 ottobre 2018, causa C-234/17, XC, YB, ZA, punto 45; ma si veda già il parere 2/13 del 18 dicembre 2014, punto 169).

Questo suo carattere sembra trovare peraltro un suo peculiare punto di forza nell’autonomia che le ha inizialmente conferito la sua procedura di adozione e che il Trattato di Lisbona ha successivamente confermato con la scelta di attribuirle unicamente per rinvio lo stesso valore giuridico dei Trattati.

Con una soluzione allora del tutto nuova, la Carta è stata elaborata infatti, com’è noto, da una c.d. convenzione composta da un rappresentante per ogni capo di Stato o di governo, da un rappresentante del presidente della Commissione, da 16 parlamentari europei e da 30 parlamentari nazionali (nella misura di due per ciascuno di essi). E soprattutto si è trattato di una convenzione le cui modalità di decisione furono organizzate in modo tale da impedire che una qualsiasi delle componenti indicate potesse impedire l’adozione finale del testo della Carta da sottoporre alla firma dei presidenti delle tre istituzioni politiche dell’Unione di allora; o che, al contrario, potesse essere a questo fine minorizzata (cfr. al riguardo R. Adam, Da Colonia a Nizza: la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in DUE, 2000, p.884 s.). Insomma, al pari di una fase costituente, quel testo doveva risultare – e tale è stato – espressione della volontà e condivisione di tutte le componenti caratterizzanti del sistema.

Quasi a conferma del suo carattere sostanzialmente costituzionale, questa procedura fu poi utilizzata per l’elaborazione del Trattato costituzionale europeo del 2004, per poi essere definitivamente formalizzata, grazie al Trattato di Lisbona, come procedura ordinaria di revisione dei Trattati nell’art. 48 TUE. Quello stesso Trattato di Lisbona, che in relazione proprio alla Carta dei diritti fondamentali ha optato, ai fini di una sua formalizzazione nei Trattati, per un rinvio esplicito alla stessa da parte dell’art. 6, par. 1, TUE, accompagnato dall’affermazione formale di un “valore giuridico” della Carta identico a quello dei Trattati.

Vi è chi, anche all’interno della Conferenza intergovernativa che adottò il Trattato di Lisbona, ritenne che questa soluzione indebolisse il valore costituzionale della Carta, valore che invece sarebbe stato rafforzato, a suo dire, da un inserimento integrale nel testo dei Trattati, come a suo tempo avvenuto con il Trattato costituzionale.

A ben vedere, però, è possibile anche dare una valutazione diversa della soluzione alla fine prevalsa a Lisbona. E’ vero che essa lascia la Carta fuori dei Trattati, come una sorta di protocollo/non protocollo. E’ anche vero, tuttavia, che, come indica il secondo capo di questa doppia natura, la Carta esce da questa soluzione come formalmente sottratta alla procedura di revisione dei Trattati di cui all’art. 48 TUE. Con la conseguenza che ogni sua modifica dovrà passare per una procedura identica a quella che ha portato alla sua adozione nel 2000 (e ai ritocchi che, nel 2007, hanno preceduto il suo richiamo formale nel Trattato di Lisbona).

Si dirà che in fondo l’alternativa tra le due procedure di modifica ipotizzabili non è in realtà così rilevante, dato che, come abbiamo poc’anzi ricordato, anche la procedura disciplinata dall’art. 48 lascerebbe a una convenzione il compito di elaborare le modifiche. Il punto è però che, a differenza da quanto è avvenuto per la Carta (passata direttamente dalla convenzione alla firma dei presidenti delle istituzioni), nell’economia di quell’articolo tale compito è solo istruttorio, rimanendo poi nelle mani degli Stati membri, riuniti in Conferenza intergovernativa, quello di definire il testo finale da sottoporre ai parlamenti nazionali.

Certo, un intervento di una Conferenza intergovernativa finirebbe probabilmente per prospettarsi in ogni caso, laddove si ritenesse comunque necessario, a fronte di una sia pur minima revisione della Carta, aggiornare la formulazione del rinvio ad essa operato dall’art. 6, par. 1, TUE. Ma questo intervento della Conferenza, e quindi dei soli Stati membri, sarebbe limitato esclusivamente a questa modifica puntuale, senza poter in alcun modo alterare quelle apportate alla Carta dalla convenzione.

Roberto Adam, Scuola Nazionale dell’Amministrazione


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