Il caso catalano, il principio di autodeterminazione dei popoli e la posizione dell’Unione europea

1. Introduzione

In queste settimane, a proposito della crisi catalana, è spesso accaduto di sentire commenti stupiti o perplessi circa un mancato sostegno di interlocutori internazionali alle istanze secessioniste della Catalogna e i silenzi e dell’Unione europea in particolare, quasi si fosse trattato di assistere ad una nuova dimostrazione dell’impotenza, dell’incapacità di reazione o addirittura di una vera e propria paralisi delle istituzioni europee di fronte ad una nuova sfida non raccolta. Ma è davvero così? In realtà di silenzio istituzionale non si può proprio parlare se è vero che sia il presidente della Commissione Junker, sia il presidente del Parlamento europeo Tajani si sono più di una volta espressi in modo piuttosto netto. Infine, il presidente del Consiglio europeo Tusk si è addirittura rivolto direttamente a Puidgemont, invitandolo a non procedere ad una dichiarazione di indipendenza che renderebbe impossibile il perseguimento di un dialogo e, dunque, di una soluzione negoziata. Si può certo osservare che alcuni degli interventi menzionati sorprendono per una certa irrituale disinvoltura: ad esempio è corretto che il presidente del Parlamento europeo dichiari – al posto dei governi interessati – che nessun paese europeo riconoscerà la Catalogna, oppure che il Presidente del Consiglio europeo si rivolga direttamente al Presidente della Generalitat della Catalogna in relazione ad una vicenda interna ad uno Stato membro dell’Unione? In questa vicenda, le due questioni sulle quali va fatta chiarezza riguardano l’ipotetica assimilazione delle vicende collegate al referendum catalano a circostanze idonee all’applicazione del principio dell’autodeterminazione dei popoli e quale ruolo possa giocare l’Unione europea in relazione ad una tale manifestazione di intenti proveniente da istanze interne ad un ente territoriale appartenente ad uno Paese membro dell’Unione.

2. Il principio dell’autodeterminazione dei popoli e la sua applicazione al caso catalano

Quanto alla prima questione la risposta non può che essere negativa.

Il principio dell’autodeterminazione, in quanto oggetto di riconoscimento e di tutela nell’ordinamento internazionale, come è noto, figura già nella Carta delle Nazioni Unite (1945), ma la sua portata e il suo contenuto normativo sono il frutto di successivi contributi della giurisprudenza internazionale e della prassi successiva. Non va dimenticato che l’ambito in cui il principio ha trovato anzitutto applicazione, grazie all’Assemblea generale dell’ONU, è quello del processo di decolonizzazione, affermando l’idea che le popolazioni soggette a dominazione coloniale abbiano il diritto di determinare liberamente la propria condizione politica e di perseguire liberamente il proprio sviluppo economico, sociale e culturale.

Al di là del processo di decolonizzazione, il principio era destinato ad applicarsi nelle relazioni tra gli Stati, garantendo alle popolazioni il cui territorio fosse stato occupato con la forza da uno Stato straniero di decidere il proprio destino politico.

Ad una (relativamente) più precisa definizione del principio in esame si giunge attraverso il fondamentale contributo della Corte internazionale di giustizia con i suoi pareri consultivi sulla Namibia (1971), sul Sahara occidentale (1975), nonché con la successiva sentenza relativa al caso di Timor Orientale (1995) e, ancora, con il parere sulla costruzione di un muro nei territori palestinesi occupati (2004). Per completare il quadro si deve aggiungere la sentenza resa nel 1998 da una giurisdizione nazionale (la Corte suprema del Canada) a proposito della questione del Québec. Dovendo infatti valutare, su richiesta del Governo canadese, la legittimità delle pretese di indipendenza tramite secessione del Québec alla luce del diritto costituzionale canadese e del diritto internazionale, la Corte opera un’utile ricostruzione dei contenuti e dei limiti del principio di autodeterminazione, anche facendo tesoro dei contributi ai quali si à fatto cenno. Il principio in questione si applica pertanto ai popoli che si trovino in tre situazioni specifiche: i popoli soggetti a dominio coloniale, i popoli il cui territorio è stato occupato da uno Stato straniero e i gruppi minoritari che all’interno di uno Stato sovrano si vedano rifiutare un accesso effettivo all’esercizio del potere di governo. Nella specie, la Corte conclude che tali circostanze eccezionali non ricorrono per il Québec.

Emerge dunque piuttosto chiaramente che, per il diritto internazionale, non possono aspirare all’autodeterminazione così intesa tutti i popoli in quanto tali, ma solo quelli che rientrano in una delle tre ipotesi menzionate. La terza è, ovviamente la più problematica da definire, non solo perché – per quanto riguarda la definizione dei beneficiari di tale diritto – rimane la difficoltà di dare un contenuto concreto all’espressione “popolo”, ma anche perché in essa coesistono le due dimensioni interna (libera scelta del proprio governo) ed esterna (indipendenza) del principio stesso. Ed è proprio con specifico se non esclusivo riguardo a questa seconda dimensione (circoscritta dunque alle ipotesi di dominazione e/o di occupazione straniera) che l’autodeterminazione sembra essere considerata un «principio essenziale del diritto internazionale», come ha ricordato la Corte internazionale di giustizia nel citato caso di Timor Orientale.

Il principio in questione, già di difficile e controversa definizione, deve inoltre confrontarsi con il limite rappresentato da un altro principio sancito dal diritto internazionale, relativo all’integrità territoriale degli Stati.

La dimensione interna del principio di autodeterminazione non può dirsi, allo stato attuale, godere di una tutela né effettiva e neppure teorica da parte del diritto internazionale. E del resto, tutto quanto attiene alla dimensione c.d. interna dell’autodeterminazione non può non tenere conto dell’assetto interno dei singoli Stati interessati e, in particolare, di contenuti e limiti al suo esercizio determinati dal diritto costituzionale dei singoli ordinamenti.

Ciò premesso, si deve osservare che nel caso catalano sono del tutto assenti quelle condizioni alle quali si ritiene applicabile il principio dell’autodeterminazione dei popoli e cioè in particolare, il contesto di dominazione coloniale e/o l’occupazione straniera con la forza. D’altro lato, ciò che assume qui un rilievo fondamentale è la circostanza che, nell’ambito dell’ordinamento costituzionale dello Stato spagnolo, il riconoscimento di forme di autonomia più o meno estesa, non giunge a legittimare forme di autodecisione – a prescindere dalle modalità con le quali questi processi decisionali venissero posti in essere – che portino ad una secessione di una parte del territorio. Questa circostanza, come si ricorderà, è stata del resto affermata con forza poche settimane or sono dal Tribunale costituzionale spagnolo che ha posto quindi fuori dall’alveo della legittimità costituzionale una (eventuale) dichiarazione di indipendenza da parte della Catalogna.

3. Il ruolo dell’Unione europea rispetto alle istanze autonomiste provenienti dagli Stati membri

Passando alla seconda questione, non vi è dubbio che nell’ambito dei Paesi membri dell’Unione europea si stia assistendo da più parti all’emergere di istanze autonomiste più o meno marcate da parte di popolazioni di intere regioni o di minoranze all’interno di realtà statuali (anche e non solo) multietniche o plurilinguistiche. Questo è esattamente il caso, oggi, delle pretese secessioniste della Catalogna, così come di quelle manifestate nel recente passato in altri contesti (Scozia) o di altre latenti (Belgio, popolazioni basche). La risposta da parte dei singoli governi nazionali di volta in volta interessati non è stata e non è sempre identica. E’ infatti, in omaggio al principio di legalità, è dunque alla luce dell’ordinamento costituzionale interno – oltre che a valutazioni di opportunità politica – che deve essere valutata la legittimità di rivendicazioni del tipo menzionato. Non a caso tali istanze hanno ottenuto risposte diverse nel caso della Scozia, dove l’ordinamento (e il governo) britannico hanno acconsentito allo svolgersi di un referendum popolare, e oggi in Spagna, dove per contro il Tribunale costituzionale si è pronunciato nel modo accennato e il governo centrale ha prima decretato l’illegittimità del referendum medesimo e poi avviato la procedura di attuazione dell’art. 155 della costituzione del 1978, chiedendo al Senato di approvare una serie di forti limitazioni all’autonomia della Generalitat catalana. Se si vuole inquadrare la questione nell’ambito dell’Unione europea e delle sue reazioni, alla luce di queste osservazioni appare del tutto coerente che tanto – nell’ordine – il presidente della Commissione UE quanto il presidente del Parlamento europeo, quanto ancora il presidente del Consiglio europeo, nel prendere le distanze dalle iniziative referendarie catalane, abbiano dichiarato che qualsiasi azione contro la costituzione di uno Stato membro è una azione contro il quadro legale dell’Unione europea.

Sarebbe del resto difficile per le istituzioni dell’Unione trovare un appiglio diverso e più puntuale di quanto offerto dai principi di cui all’art. 4.2 del TUE laddove si afferma che «l’Unione rispetta l’uguaglianza degli Stati membri davanti ai trattati e la loro identità nazionale insita nella loro struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali o e regionali. Rispetta le funzioni essenziali dello Stato, in particolare la funzione di salvaguardia dell’integrità territoriale…». E’ del resto sul valore del rispetto dello “Stato di diritto” che, a mente dell’art. 2 TUE si fonda, tra gli altri, la stessa Unione. Dunque, una volta richiamati i principi di legittimità, di uguaglianza degli Stati membri e delle rispettive prerogative costituzionali, senza dimenticare il limite rappresentato dal principio di attribuzione di cui all’art. 4.1 TUE, non pare possa destare stupore che l’Unione europea e i suoi vertici istituzionali abbiano, nella sostanza, preso le distanze dalle istanze secessioniste manifestate da una regione appartenente ad uno Stato membro.

Resta naturalmente da aggiungere che, una volta risolti i problemi di inquadramento giuridico, spetta alla politica utilizzare gli strumenti più adeguati per risolvere situazioni di questo tipo e comporre contrasti non altrimenti sanabili sul solo piano della logica giuridica.

Non crediamo, al contrario di altri, che il processo dell’integrazione europea abbia contribuito a rafforzare fenomeni di rivendicazioni identitarie o addirittura a risvegliare localismi sopiti, con effetti centrifughi rispetto al riconoscimento di una comune identità anche culturale europea. I fenomeni in questione sono più complessi e non sono l’effetto di un’unica causa motrice. Anche per questo, una soluzione politica della vicenda potrebbe riservare all’Unione europea un ruolo non previsto dai trattati.


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