Contratti di convivenza e unioni civili: la nuova sfida per il diritto internazionale privato italiano e dell’Unione europea

1. Introduzione

Dopo una lunga attesa e un iter particolarmente travagliato  ha finalmente visto la luce il testo di legge sulla “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze” (legge 76 del 20 maggio 2016, in GU Serie Generale n.118 del 21-5-2016).

Se è vero che il dibattito scatenato dalla proposta normativa all’origine  (d.d.l. Cirinnà) verteva più che altro sull’apertura a queste nuove forme di famiglia arcobaleno, sull’estensione dei diritti da riconoscere da parte dell’ordinamento italiano a tali famiglie, e in particolare sui progetti di genitorialità delle stesse (si pensi alle questioni della step-child adoption e della maternità surrogata) merita un approfondimento l’analisi degli effetti del nuovo dettato normativo, e dei decreti legislativi che vi daranno attuazione, sotto il profilo del diritto internazionale privato europeo (sulla compatibilità della nuova legge con gli obblighi assunti dall’Italia in materia di tutela della vita familiare si rinvia al post di Chiara Ragni).

La L. 218/95 infatti, in assenza di un dato normativo interno sul punto, aveva più volte dimostrato di non essere in grado di fornire una soluzione univoca al problema delle norme di conflitto applicabili a quelle coppie, formatesi all’estero, che chiedevano o il riconoscimento del loro status, o, più semplicemente, il riconoscimento di effetti concreti alle pattuizioni dagli stessi concluse, legittimamente, sulla base di ordinamenti stranieri. Le riflessioni che seguono vogliono mettere in rilievo le soluzioni raggiunte dal nostro legislatore su tali profili e i problemi ancora aperti ai quali si dovrà trovare una soluzione, anche tenendo presenti le norme di diritto internazionale privato che la stessa Unione europea ha elaborato e sta elaborando in questo settore: basti pensare alla  recente decisione n. 2016/954 del Consiglio del 9 giugno 2016 che, dopo un lungo periodo di stallo e il fallimento delle precedenti proposte che vedevano coinvolti tutti gli Stati, autorizza una cooperazione rafforzata nel settore della competenza, della legge applicabile, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia di regimi patrimoniali delle coppie internazionali, con riferimento ai regimi patrimoniali tra coniugi e agli effetti patrimoniali delle unioni registrate, decisione alla quale partecipa l’Italia unitamente a  Belgio, Bulgaria, Repubblica ceca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Croazia, Cipro, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Austria, Portogallo, Slovenia, Finlandia e Svezia.

2. Le due nuove forme di famiglia: l’istituto delle unioni civili e le possibili conseguenze di diritto internazionale privato

Innanzitutto si rende necessario distinguere le due diverse fattispecie prese in considerazione dal legislatore.

Da un lato troviamo le vere e proprie unioni civili, pensate per prevedere un istituto simile al matrimonio aperto alle coppie dello stesso sesso, alle quali il matrimonio risulta ancora oggi precluso. Dall’altro troviamo i cd. “contratti di convivenza” che invece possono essere conclusi da coppie di ogni genere.

Il primo istituto rappresentava indubbiamente la sfida maggiore per il nostro legislatore, anche alla luce del dibattito susseguitosi nel tempo circa la chiusura del nostro ordinamento verso l’accesso al matrimonio  delle coppie dello stesso sesso e la necessità dell’intervento riformatore del legislatore (si pensi alla pronuncia della Corte Costituzionale n. 138 del 15 aprile 2010 che aveva ritenuto inammissibile la questione di costituzionalità relativa, e alla successiva pronuncia della stessa Corte n. 170 dell’11 giugno 2014 sul cd. divorzio imposto, nonché alla sentenza della Corte EDU del 21 luglio 2015 nella causa Oliari e al. c. Italia su cui si veda in questa Rivista il contributo di Ilaria Anrò).

Le esigenze che venivano sollevate da tempo erano quelle di consentire alle coppie same-sex di godere di un certo livello di tutela in particolare in relazione all’art. 14 (divieto di discriminazioni) e 8 (tutela della vita familiare) della CEDU, se non anche in relazione all’art. 12 (diritto al matrimonio), articolo che la Corte EDU ha ritenuto non doversi necessariamente applicare a tali coppie  (v. sentenza Corte EDU Schalk e Kopf c. Austria del 22 novembre 2010).

Per gli aspetti di diritto internazionale privato la scelta effettuata dal nostro legislatore è stata di delegare la modifica e il riordino della materia a uno o più decreti legislativi che dovranno essere adottati entro sei mesi dall’entrata in vigore della legge (e quindi entro il 4 dicembre 2016), limitandosi a dettare, quale unico principio, il fatto che dovrà prevedersi “l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate da persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo”.

La formulazione utilizzata non è forse la più felice, né la più precisa, e ciò probabilmente proprio perché il dibattito pubblico era tutto concentrato su altri aspetti. Da una mera lettura della norma sembra infatti che l’unico problema internazionalprivatistico sia quello del  riconoscimento per analogia degli status acquisiti all’estero da coppie dello stesso sesso, pensato per giungere ad una loro equiparazione alle unioni civili italiane (e ciò sia nel caso di matrimonio  che di altre forme di partnership). In realtà detto articolo della legge sembrerebbe addirittura attribuire alle norme italiane in materia il rango di norme di applicazione necessaria, cosicchè qualunque unione  same-sex formata all’estero (da cittadini italiani, o da stranieri) dovrebbe essere, per il nostro ordinamento, interamente regolata dalla legge italiana.

Una lettura più coerente con gli obiettivi e la ratio della norma ci porta ad affermare che l’intenzione del legislatore è probabilmente di stabilire solo delle regole di possibile “conversione” per il caso in cui non sia possibile l’applicazione delle norme dell’ordinamento di appartenenza: soluzione che dovrebbe essere preferita ogni qual volta non vi siano contrasti sotto il profilo dell’ordine pubblico. Poiché i matrimoni stranieri fra persone dello stesso sesso non potrebbero essere riconosciuti nel nostro ordinamento come tali (e ciò alla luce della giurisprudenza della Corte Costituzionale sopra citata), questi dovrebbero, quindi, venire “classificati” come  unioni civili. Se invece ci si trovasse di fronte a membri di una unione civile conclusa, ad esempio, sul modello della Lebenspartnerschaft di diritto tedesco, agli stessi si dovrebbe conseguentemente (e improvvidamente) applicare in toto la normativa italiana, privandoli di diritti loro riconosciuti o ampliandoli, a seconda di quanto difforme sia il modello italiano da quello dello Stato di origine.

Questa scelta è stata più volte criticata in dottrina (con riferimento a questo tema si veda il post di Livio Scaffidi Runchella, Osservazioni a prima lettura sulla legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso, nella prospettiva internazionalprivatistica, SidiBlog, 16 maggio 2016), e porterà certamente a situazioni problematiche, anche perché sembra irragionevole non consentire – ferma la trascrizione nei registri di stato civile, ove richiesta, come “unione civile” –  il riconoscimento nel nostro ordinamento di eventuali diritti o doveri previsti dalla legge straniera se non in contrasto con principi da noi ritenuti fondamentali. D’altronde anche il matrimonio tradizionale concluso all’estero viene trascritto nel nostro ordinamento quale matrimonio senza ulteriori specificazioni, senza che ciò impedisca l’applicazione delle ordinarie regole di conflitto finalizzate a determinare quale sia la legge applicabile (anche straniera) ai rapporti personali o patrimoniali  fra i coniugi. L’applicazione della “versione italiana” di unione civile a tutti i soggetti che ne richiedono il riconoscimento in Italia potrebbe inoltre sollevare in futuro problemi di compatibilità con il diritto dell’Unione europea nel momento in cui potesse essere definita –  in analogia a quanto accaduto nella causa Garcia Avello (sentenza 2 ottobre 2003, causa C-148/02) in tema di attribuzione del cognome – quale ostacolo alla libera circolazione delle persone, che si vedrebbero attribuiti diritti diversi nei diversi Stati dell’Unione europea. La certezza del proprio status e dei diritti che ne derivano verrebbe quindi posta a rischio al momento del trasferimento della propria residenza in uno Stato membro diverso e precisamente in Italia. Se questo sinora non è stato determinante per ritenere in contrasto col diritto dell’Unione europea il divieto di riconoscimento di un matrimonio fra persone dello stesso sesso (che pur rappresentava un ostacolo alla libera circolazione e che d’altronde non è stato ritenuto in contrasto neanche coi diritti previsti dalla CEDU), sembra però più facile che possa portare a problemi nel momento in cui lo Stato apre a forme alternative di famiglia quali le unioni civili.

Si pensi anche alle problematiche in tema di successione che ne potrebbero derivare e al rapporto fra le nostre future previsioni internazionalprivatistiche sul punto e quelle derivanti dal regolamento 650/2012. Se è vero che tale regolamento non si applica allo status delle persone, è vero altresì che indirettamente lo stesso finirà per incidere anche su questi aspetti: si pensi all’ipotesi di un soggetto, da ultimo residente in Italia ma che abbia concluso un PACS in Francia. La sua successione, in assenza di scelta circa la legge applicabile, sarebbe regolata dalla legge italiana che attribuisce diritti successori al partner, contrariamente a quanto prevede la legge francese per la quale il partner non ha diritti successori se non su base testamentaria, giungendo così ad un risultato che potrebbe essere in contrasto con la volontà del de cuius che, per ipotesi, aveva volontariamente escluso il partner dal proprio testamento. D’altronde questa è la soluzione alla quale sembra portare anche l’applicazione dell’art. 23 del regolamento stesso, nel punto in cui prevede che sia la legge applicabile alla successione a determinare i diritti successori del partner (senza in ciò distinguere fra partner di fatto o nell’ambito di una unione registrata): e ciò nonostante, vale la pena ricordarlo, l’art. 2 del regolamento stesso escluda dall’ambito di applicazione “i rapporti di famiglia e i rapporti che secondo la legge applicabile a questi ultimi hanno effetti comparabili”. La conseguenza appare quindi la legittimazione di una riqualificazione dell’unione civile straniera in una di diritto interno tutte le volte in cui il partner della cui successione si tratta fosse residente in Italia al momento della morte.

Quanto ai rapporti con il diritto dell’Unione europea si deve tenere presente anche l’ormai prossima approvazione, quale cooperazione rafforzata come indicato in premessa, del regolamento sugli effetti patrimoniali delle unioni registrate. Tale regolamento, come risulta anche dalla proposta della Commissione del 2 marzo 2016 COM (2016) 107 final, non si occuperà del riconoscimento delle unioni registrate nei diversi Stati membri, né della validità delle stesse, ma prevederà regole circa “la gestione quotidiana dei beni dei partner” e “la liquidazione dei loro beni in seguito a separazione personale o morte di un partner” (considerando 18), in parallelo con quanto si prevederà per le coppie coniugate. Alla luce di questo la legge applicabile potrà essere scelta dai partner stessi, seppure con limiti ben precisi (potendosi scegliere la legge della residenza abituale o della cittadinanza dei partner o futuri tali, o anche di uno solo di essi, o la legge dello Stato in cui l’unione registrata è stata costituita) o, in assenza di scelta, sarà quelladello Stato in cui l’unione registrata è stata costituita (salvo, ipotesi eccezionale, il caso in cui uno dei partner chieda al giudice che la legge applicabile sia la legge dello Stato in cui i partner hanno avuto l’ultima residenza abituale comune). Se tale proposta dovesse essere approvata nel testo attuale, è evidente che la scelta del nostro legislatore dovrà essere interpretata (se non addirittura corretta), al fine di  renderla compatibile con il diritto dell’Unione europea, nel senso di non ritenere possibile l’assimilazione delle unioni straniere a quelle di diritto interno almeno sotto i profili che saranno coperti dal regolamento in esame (che però, vale la pena ricordare, non si applicherà alla successione a causa di morte del partner).

Non sorgono dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione europea, né di interpretazione, invece, quanto al divieto di accesso diretto, da parte di soggetti presenti nel nostro ordinamento, ad una tipologia di unione civile regolata da una legge straniera: pertanto la legge applicabile a chiunque voglia concludere tale unione sul territorio italiano non potrà essere che quella determinata con la L. 76/2016 quale norma di applicazione necessaria a prescindere dalla cittadinanza o da altri elementi di estraneità dei soggetti coinvolti.

Resta infine da chiedersi cosa prevederanno i decreti legislativi circa il possibile accesso alle unioni civili da parte di cittadini stranieri (magari provenienti da ordinamenti che non conoscono tale istituto). In assenza di previsioni specifiche, e alla luce dei diritti fondamentali sul cui rispetto si basa la loro introduzione, si dovrebbe ipotizzare che le unioni civili siano accessibili per tutti i soggetti presenti sul territorio italiano. Vero è però che una scelta di questo genere lascerà spazio aperto alla creazione di unioni civili “claudicanti”, valide nell’ordinamento italiano, ma potenzialmente invalide o inesistenti negli ordinamenti di appartenenza dei soggetti coinvolti: rischio che la maggior parte dei Paesi che prevedono questo tipo di regolamentazione cerca di evitare introducendo dei limiti all’accesso a detto istituto basati sul legame col territorio nazionale (consentendo, ad esempio, l’accesso ai soli soggetti residenti).

3. Le due nuove forme di famiglia: i contratti di convivenza e i loro effetti transnazionali

Se il dibattito sul testo di legge ha riguardato principalmente il tema delle unioni registrate, anche la questione dei contratti di convivenza ha dei riflessi di sicuro interesse sotto il profilo del diritto internazionale privato nonché del diritto dell’Unione europea.

Infatti, in tema di convivenza di fatto, il diritto dell’Unione europea si era interrogato in più occasioni per prevedere l’estensione di certi diritti al soggetto convivente con cittadino dell’UE se ed in quanto pari diritti fossero riconosciuti al convivente del proprio cittadino (v. sentenza della Corte di giustizia 17 aprile 1986, causa 59/85, Reed). Parimenti, già prima che si ponesse il problema del riconoscimento dei matrimoni fra persone dello stesso sesso e dei partenariati registrati, ci si interrogava su quali fossero le regole da applicare per riconoscere, quanto meno, quelle forme di convivenza regolamentate in forma meramente privatistica, ossia mediante l’uso della libertà contrattuale nei limiti e con i contenuti che l’ordinamento riteneva rientrare nella disponibilità delle parti. Il dubbio era se tali ipotesi, nel corso di una prima qualificazione potessero ricadere nell’ambito di applicazione del regolamento 593/2008 (cd. Roma I), e quindi essere qualificate come obbligazioni contrattuali – ovviamente nel presupposto che si trattasse di obbligazioni derivanti da “regimi patrimoniali relativi a rapporti che secondo la legge applicabile a questi ultimi“ non “hanno effetti comparabili al matrimonio” (v. a contrario l’esclusione dall’ambito di applicazione di cui all’art. 1.2 lett.c) – o se dovessero comunque per analogia ricadere nella disciplina dello status delle persone regolata sulla base della legge nazionale ai sensi delle previsioni della L. 218/95 (art. 24 sui diritti della personalità per chi riteneva che si dovesse far riferimento ai diritti di ciascuno dei conviventi senza ritenere esistente un vero “rapporto di famiglia” o art. 27 sulla capacità e 29 sui rapporti fra coniugi per chi riteneva la convivenza assimilabile ad un rapporto di famiglia vero e proprio e quindi all’unico a suo tempo previsto dalle nostre norme di diritto internazionale privato ). Soluzioni diverse, non univoche dunque.

Sotto il profilo pratico la tesi aveva portato la dottrina notarile (v. Guida operativa in tema di convivenza elaborata nel 2013 sotto gli auspici del Consiglio nazionale del notariato e con la supervisione e il coordinamento scientifico di Luigi Balestra) a ritenere che fosse possibile la conclusione in Italia di un contratto di convivenza con elementi di estraneità basato sul richiamo, quale legge applicabile, di quella francese e quindi del modello “PACS” di cui  all’art. 515-1 e seguenti del codice civile francese. Il tutto nel presupposto che le parti potessero scegliere la legge francese in applicazione dell’art. 29 della L. 218/95 sulla base, appunto, dell’applicazione analogica dello stesso ai rapporti di convivenza “registrata”.

Questa tesi è oggi confermata dal nuovo art. 30 bis che la legge 76/2016 introduce nella legge 218/95. Secondo tale testo ai contratti di convivenza si applicherà “la legge nazionale comune dei contraenti” o, in caso di diversa cittadinanza, “la legge del luogo in cui la convivenza è prevalentemente localizzata”, riprendendo conseguentemente i criteri già previsti per i rapporti patrimoniali fra coniugi. Vale la pena sottolineare come, invece, non si sia ritenuto di consentire ai conviventi l’optio legis in analogia a quanto consentito ai coniugi per i rapporti patrimoniali. Se è pur vero che le differenti previsioni esistenti negli ordinamenti interni sul punto avrebbero forse creato problemi applicativi, il nostro legislatore ha (forse) semplicisticamente considerato solo il caso in cui il contratto di convivenza sia concluso, in Italia, da due soggetti con diversa cittadinanza, senza però occuparsi del caso in cui il contratto sia concluso in Italia da due stranieri aventi cittadinanza comune, magari appartenenti ad uno Stato che non consente i contratti di convivenza.

E’ invece da vedere con favore l’inserimento del secondo comma che fa salve le norme “nazionali, europee ed internazionali che regolano il caso di cittadinanza plurima” pensato, si può immaginare, per evitare i dubbi interpretativi sorti nell’applicazione dell’art. 29 della L. 218/95 circa la sorte del primo criterio nel caso in cui soggetti abbiano più di una cittadinanza comune e che aveva portato a ritenere, in tale caso, applicabile la legge del luogo di prevalente localizzazione della vita matrimoniale anziché i criteri di prevalenza previsti dall’art. 19 della L.218/95.

Più in generale, con riferimento al primo criterio si deve riconoscere che l’applicazione della legge nazionale comune porta a rendere più difficile l’aggiramento delle norme italiane da parte dei nostri cittadini, che potranno quindi concludere in Italia un contratto di convivenza solo nei limiti in cui questo è consentito dal nostro ordinamento (circostanza che ovviamente non esclude la possibilità per gli stessi di concludere un contratto di convivenza, con regole diverse, in altro ordinamento che glielo consenta nonostante la cittadinanza italiana).

Con riferimento al secondo criterio (prevalente localizzazione) valgono, ovviamente, le considerazioni critiche più volte espresse dalla dottrina circa le problematiche che vengono lasciate all’operatore tutte le volte che dovrà valutare l’esistenza di un criterio di collegamento “di fatto” la cui operatività consente un consistente margine di discrezionalità e che è, altresì, un criterio variabile nel tempo. Quale può essere la sorte di un contratto di convivenza concluso da due stranieri aventi diverse cittadinanze e, al tempo della conclusione, residenti in Italia, una volta che questi decidano di spostare altrove la loro residenza, a maggior ragione qualora tale spostamento derivi da una crisi della convivenza stessa? Il principio di certezza del diritto dovrebbe portare a ritenere sufficiente la prevalente localizzazione al momento in cui il contratto è concluso, ritenendosi quindi irrilevante il successivo spostamento della residenza. Tale soluzione, però, sembra andare oltre le previsioni del legislatore e si pone in contrasto con la giurisprudenza esistente in tema di prevalente localizzazione della vita matrimoniale ai sensi dell’art. 29 L. 218/95, giurisprudenza che ha sempre sostenuto la variazione della legge applicabile a seguito del mutamento delle circostanze di fatto, e ciò, secondo un certo orientamento, addirittura con effetto retroattivo, salvi i diritti dei terzi.

Altro dubbio che dovrà essere risolto è quello circa i requisiti formali dei contratti di convivenza e le forme pubblicitarie previste dal nostro ordinamento, per i quali sarà opportuno che il legislatore preveda regolamenti di attuazione che risolvano tali profili. In analogia a quanto previsto in tema di matrimonio dall’art. 28 L. 218/95 si potrebbe  ipotizzare un favor per la validità quanto alla forma, anche in assenza del rispetto dei requisiti formali previsti nell’ordinamento italiano (atto pubblico o scrittura privata autenticata) che, però, dovrebbero ritenersi (probabilmente) necessari per le forme pubblicitarie prescritte ai fini dell’opponibilità a terzi ossia, nello specifico, per la trascrizione nei registri di stato civile.

4. Considerazioni conclusive – i contratti di convivenza e la libera circolazione delle persone

La nuova legge 76/2016 incide sulla libera circolazione delle persone nell’Unione europea non solo per i profili correlati alle unioni civili (per i quali si rinvia a Ragni, cit. supra), ma anche per quelli relativi ai contratti di convivenza.

Si deve infatti ricordare che sia la direttiva 2004/38/CE (del Parlamento europeo e del Consiglio, del 29 aprile 2004), relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari, sia la  2003/86/CE (del Consiglio, del 22 settembre 2003), riguardante il diritto al ricongiungimento familiare per i cittadini di Paesi terzi regolarmente soggiornanti in uno Stato membro prevedono, seppure con parole diverse, la possibilità di circolare per coloro che abbiano rispettivamente una “relazione stabile debitamente attestata” con un cittadino dell’Unione o una “relazione stabile duratura debitamente comprovata con il soggiornante”. Ci si deve quindi chiedere se l’esistenza di un contratto di convivenza concluso sulla base delle nuove disposizioni normative possa essere elemento sufficiente per ritenere tali requisiti soddisfatti e, in caso positivo, se ciò non possa portare ad un rischio di abuso del diritto in particolare con riferimento ai cittadini di Stati terzi. La conclusione di un contratto di convivenza “fittizia”, nel momento in cui fosse elemento sufficiente  per l’ottenimento di un valido titolo di soggiorno  potrebbe infatti essere utilizzata per aggirare le regole in tema di immigrazione in maniera sicuramente più semplice e veloce rispetto ad un matrimonio fittizio.

Sarà quindi opportuno da parte del nostro legislatore coordinare le previsioni della nuova legge anche con il testo Unico in materia di immigrazione, ciò prevedendo ulteriori requisiti e controlli che, pur nel rispetto del diritto dell’Unione europea teso ad agevolare il ricongiungimento familiare, consentano di evitare lo sfruttamento abusivo del nuovo istituto.

 

 


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