Brevi note sulle conclusioni del primo accordo di recesso: Brexit deal

1. Premessa.

Con un report congiunto tra i negoziatori di ambo le parti, l’8 dicembre 2017 si è conclusa positivamente la prima fase delle trattative per il recesso del Regno Unito dall’Unione europea. Nonostante il caveat di circostanza «nothing is agreed until everything is agreed», l’accordo raggiunto costituisce un importante passo in avanti nell’attuazione della procedura di cui all’art 50 TUE. Le parti, riservandosi di effettuare alcuni adattamenti che potrebbero rilevarsi necessari successivamente, hanno raggiunto una posizione comune («common understanding») su tre punti ritenuti fondamentali all’interno dei negoziati: il c.d. assegno di divorzio; la questione irlandese; la tutela dei diritti (quesiti) dei cittadini europei e britannici.

2. Financial settlement.

In relazione alla prima questione, nell’accordo non c’è alcun riferimento preciso alla cifra di cui dovrà farsi carico il governo britannico, bensì soltanto ai criteri per determinarne l’entità. Il Regno Unito si è impegnato a rispettare tutti gli impegni finanziari presi sull’attuale bilancio pluriennale, che si estende fino al 31 dicembre 2020, ben oltre, dunque, la data prevista per il recesso, ovvero il 30 marzo 2019. Chiaramente, i soggetti interessati, residenti nel Regno Unito, potranno continuare a partecipare ai programmi finanziati dal quadro finanziario pluriennale 2014-2020 (MFF, Multiannual Financial Framework). Inoltre, il Regno Unito ha dichiarato il suo desiderio a partecipare ad alcuni dei nuovi programmi finanziati nel quadro post-2020, anche se come Stato non membro (ad es., al Programma ERASMUS + per lo scambio di studenti universitari e post-universitari). Lasomma ipotizzata oscilla tra i 40 e i 60 miliardi di euro a seconda che la stima sia più o meno prudente. In ogni caso, le parti hanno stabilito che il pagamento sarà suddiviso su diversi anni e che il conto finale sarà in euro.

3. Ireland and Northern Ireland.

La questione irlandese ha costituito il capitolo più spinoso delle trattative condotte finora. La soluzione attualmente adottata è certamente temporanea («this joint report will not pre-determine the outcome of wider discussions on the future relationship between the European Union and the United Kingdom and are, as necessary, specific to the unique circumstances on the island of Ireland» – par. 46); tuttavia, essa appare egualmente controversa e potenzialmente in grado di penalizzare seriamente il Governo britannico.

È stato garantito che non ci sarà una frontiera rigida («avoidance of a hard border») tra la Repubblica d’Irlanda, Paese membro dell’Unione, e l’Irlanda del Nord, territorio britannico, nel pieno rispetto dell’accordo del Venerdì Santo, conosciuto anche come Good Friday or Belfast Agreement, del 10 aprile 1998. Infatti, la soluzione definitiva dovrà assicurare che il ruolo dell’Irlanda nel mercato unico e conseguentemente l’integrità del mercato interno non siano minacciati dall’attuazione del recesso. Il Regno Unito, d’altro canto, vorrebbe evitare che si crei una frontiera interna al proprio territorio; ma, qualora non si riuscisse a trovare una soluzione, si è impegnato a mantenere il pieno allineamento alle regole del mercato interno e dell’unione doganale. È evidente che in tale ipotesi verrebbe sminuito uno degli effetti del recesso, ossia l’abbandono del mercato intermo, appunto, e del suo apparato regolamentare, in deroga al principio simul stabunt simul cadent: «in the absence of agreed solutions, the United Kingdom will maintain full alignment with those rules of the Internal Market and the Customs Union which, now or in the future, support North-South cooperation, the all-island economy and the protection of the 1998 Agreement» (par. 49).

4. Citizens’ rights.

Il terzo punto dell’accordo risulta certamente quello più rilevante dal punto di vista giuridico. Con riferimento ai diritti dei cittadini coinvolti, emerge anzitutto l’estensione quantitativa della tutela, certamente più ampia rispetto a quanto in precedenza prospettato. Invero, se alcuni ritenevano che andassero tutelati i diritti già maturati alla data dell’attivazione dell’art. 50 TUE, ossia il 29 marzo 2017 (cfr. Lang A., La salvaguardia dei diritti di soggiorno dei cittadini dell’Unione nei negoziati per la Brexit,in Eurojus.it, 2017), la dottrina più intransigente e maggiormente vicina alle posizioni più radicali dei Brexiters, rifacendosi agli studi sul diritto dei Trattati di Lord McNair, auspicava addirittura la retrodatazione di tale tutela al giorno del referendum sulla Brexit, vale a dire il 23 giugno 2016 (v. House of Commons’ report, 28 giugno 2016). La soluzione raggiunta, invece, non riguarda solamente i circa tre milioni di cittadini dell’Unione attualmente residenti nel Regno Unito e i poco più di un milione di quelli britannici negli altri 27 Paesi membri dell’UE, bensì qualunque cittadino, britannico o di uno Stato membro dell’Unione, che decida di trasferirsi in maniera permanente entro la data del recesso, ovverosia il 30 marzo 2019.

Lo status di residente permanente sarà garantito nel rispetto dei principi di trasparenza, proporzionalità, necessità e non aggravamento del procedimento amministrativo, ma altresì sottoposto a talune limitazioni, mutuate da quelle relative ai soggiornanti di lungo periodo, come, ad esempio, l’impossibilità di allontanarsi dallo Stato di residenza per più di cinque anni consecutivi, pena la perdita dei diritti derivanti dal suddetto status (sul punto, cfr. KOCHENOV D., Brexit and Citizenship e Brexit and the Argentinisation of British citizenship: Taking care not to overstay your 90 days in Rome, Amsterdam or Paris, 2016).

Proprio in relazione alla tutela dei diritti previsti dall’accordo, particolare interesse riveste il rapporto transitorio e post-recesso tra la Corte di Lussemburgo e le autorità giudiziarie del Regno Unito. Se è vero che alla data del recesso il giudice britannico non sarà più vincolato alle sentenze della Corte di giustizia e alla sua giurisdizione, l’accordo manifesta forme compromissorie di relazione che, seppur inevitabilmente meno stringenti, non sembrerebbero limitarsi, prima facie, al periodo transitorio.

Nessun problema sembra sorgere in relazione al primo meccanismo che mette in relazione le due giurisdizioni: entro otto anni dalla data dell’uscita dall’Unione, il giudice britannico potrà ancora interrogare i giudici di Lussemburgo sull’interpretazione delle norme dell’Unione che rilevano con riferimento ai diritti dei cittadini riconosciuti nell’accordo. La disposizione, dunque, permette al giudice del Regno Unito di continuare ad attivare la procedura del rinvio pregiudiziale, seppur con limiti qualitativi e quantitativi evidenti: il preliminary ruling sarà possibile solamente per un periodo di tempo definito; per questioni solamente interpretative, e non anche di validità; in relazione soltanto ai diritti che concernano l’accordo in questione.

Nondimeno, è espressamente stabilito che le corti britanniche, nell’applicazione o nell’interpretazione di tali diritti, tengano in debito conto la giurisprudenzadella Corte di giustizia nelle materie di interesse dell’accordo anche dopo la data del recesso (in tal senso cfr. parr. 9-38). Ad una prima lettura tali disposizioni sembrano sancire un’atipica forma di subordinazione giurisdizionale, che autorizzerebbe la Corte dell’UE ad incidere attivamente, attraverso i suoi dettami, anche al di fuori della propria sfera di giurisdizione territoriale. In sostanza, seppur passando dal versante legislativo a quello giurisdizionale, la situazione potrebbe essere ricondotta alla condizione del regulation without representation: cioè, il Regno Unito si ritroverebbe vincolato alle decisioni della Corte di giustizia senza però potere, all’occasione, confrontarsi con essa o chiederne l’intervento (cfr. Hofmeister H., Splendid isolation or continued cooperation? Options for a State after withdrawal from the EU, 2015).

Ma, ad un’analisi lessicale più attenta, emerge che la perifrasi «shall therefore have due regard» (letteralmente «deve avere il dovuto riguardo») non può essere interpretata nel senso di configurare un preciso obbligo giuridico, ma semplicemente un invito a tenere in debita considerazione la giurisprudenza dell’Unione, nello spirito di collaborazione che dovrà contraddistinguere i futuri rapporti tra le Parti. Anche perché l’uscita dall’Unione del Regno Unito renderebbe un eventuale obbligo di tal tipo imperfetto, stante l’impossibilità di reagire, da parte dell’Unione, all’eventuale mancato rispetto della indicazione in questione.

D’altra parte, non va dimenticato che, dal momento del recesso e fatte salve le dovute deroghe transitorie, i rapporti tra il Regno Unito e l’Unione si realizzeranno sul campo del diritto internazionale, così come avviene con qualsiasi altro Stato non membro dell’Unione. Pertanto, alla luce dei caratteri tipici del diritto internazionale, la risoluzione delle controversie si sposterà dal campo giurisdizionale a quello diplomatico e dei rapporti di forza. Tuttavia, poiché il Withdrawal Agreement, parziale o totale che esso sia, costituisce un accordo internazionale a tutti gli effetti, le Parti potranno, eventualmente, riconoscere la giurisdizione della Corte internazionale di giustizia per ogni controversia sull’esecuzione del suddetto accordo, riparando così, almeno in parte, all’assenza di coercibilità e riportando la questione nel cono dell’attività giurisdizionale.

Ad ogni modo, è possibile immaginare che le Corti britanniche, nei casi di specie, accoglieranno le soluzioni provenienti da Lussemburgo solo nei casi in cui il loro orientamento non se ne discosti profondamente. Del resto, la scelta di recedere dall’Unione sarebbe ancor più sminuita se i giudici nazionali dovessero continuare a rispettare i dettami della Corte dell’Unione. Non vi è dubbio, però, che i rapporti saranno sicuramente improntati alla leale collaborazione: difatti, è interesse di entrambe le Parti ad attuare correttamente e puntualmente l’accordo (ex multis, v. Łazowski A., WithdrawalfromtheEuropeanUnionandAlternativesto Membership, 2012; Hofmeister H., “Should I stay or should I go?’ – A Critical Analysis of the Right to Withdraw from the EU, 2010; Athanassiou P., Withdrawal and Expulsion from the EU and EMU, 2009).

5. L’accordo come punto di partenza per il negoziato definitivo della Brexit.

Va, infine, notato chel’accordo dell’8 dicembre non si è limitato ai soli tre punti sinteticamente esaminati, bensì ha posto le basi per la futura discussione e risoluzione di altrettante questioni chiave che saranno affrontate nella seconda parte delle trattative sul recesso.

Le parti hanno fissato fin da ora i principi per la separazione tra il Regno Unito e l’Euratom: pur fuoriuscendo dalla Comunità europea dell’energia atomica, il Regno Unito continuerà ad assicurare anche dopo il recesso una collaborazione equivalente a quella previgente all’uscita dall’Unione (a tal proposito, v. Nano E., Tagliapietra S., Brexit goes nuclear: The consequences of leaving Euratom, 2017).

Sulla cooperazione in materia civile e commerciale, su quella giudiziaria e di polizia in materia penale, la formula prescelta resta sempre la medesima, che manifesta la volontà delle parti di raggiungere ulteriori punti di contatto: «there is a need to provide legal certainty and clarity».

Ancora, sulle cause pendenti dinnanzi al Tribunale e alla Corte di giustizia dell’Unione, le parti hanno concordato sulla necessità che tutti i processi incardinati al giorno del recesso presso i suddetti organi restino tali fino alla pronuncia di una decisione. (contra, v. Dastoli P. V., Good Bye UK. L’Europa riparta da Spinelli, 2016).

Alla luce di quanto stabilito, la Commissione europea, nel nome del Presidente Jean-Claude Juncker e del Capo negoziatore UE Michel Barnier, ha comunicato al Consiglio europeo che sono stati compiuti progressi sufficienti nella prima fase dei negoziati. Invero, tale fase, dopo un primo momento caratterizzato da un dibattito aspro e vivace, si è orientata verso soluzioni per un recesso soft che tenga in giusta considerazione le strette relazioni derivanti dalla precedente appartenenza all’Unione del Regno Unito e la necessità di non pregiudicare i diritti dei cittadini delle due Parti. Si tratta, dunque, di un delicato compromesso che sembra poter costituire, piuttosto che il punto di arrivo, quello di partenza verso un progetto di relazioni complessive più ambiziose.

In tale ottica, il Consiglio europeo del 14-15 dicembre, confermando quanto prefigurato dalla Commissione, ha adottato gli orientamenti per il passaggio alla seconda fase negoziale. In particolare, a questa nuova fase negoziale, continueranno ad applicarsi integralmente gli orientamenti del Consiglio europeo del 29 aprile 2017, i principi generali e le modalità procedurali per la condotta dei negoziati fissati nelle direttive di negoziato adottate dal Consiglio il 22 maggio 2017.

Conformemente ai suddetti orientamenti adottati dai leader dell’UE a 27, la Commissione europea ha trasmesso al Consiglio, nella sua formazione Affari Generali, una raccomandazione avente ad oggetto un progetto di direttive di negoziato, che va ad integrare il primo blocco adottato a maggio 2017: tali direttive precisano le modalità dell’eventuale periodo transitorio, specificatamente: il Regno Unito continuerà a partecipare all’unione doganale e al mercato unico (con tutte e quattro le libertà) e l’acquis dell’UE dovrà continuare ad applicarsi integralmente nei suoi confronti e al suo interno esattamente come se fosse ancora uno Stato membro. Inoltre, qualsiasi modifica dell’acquis decisa nel periodo di transizione dovrà applicarsi automaticamente al Regno Unito; verranno applicati tutti gli esistenti strumenti e strutture dell’Unione in materia di regolamentazione, bilancio, vigilanza, attività giudiziaria ed esecuzione, ivi compresa la competenza della Corte di giustizia dell’Unione europea; dal 30 marzo 2019 il Regno Unito sarà un paese terzo e come tale non sarà più rappresentato nelle istituzioni, organi e organismi dell’Unione; il periodo di transizione dovrà essere definito chiaramente e limitato precisamente nel tempo. A tal proposito, la Commissione raccomanda di non protrarlo oltre il 31 dicembre 2020.

Come noto, i negoziati dovrebbero chiudersi entro l’autunno del 2018, in modo da lasciare al Consiglio il tempo di concludere l’accordo di recesso previa approvazione del Parlamento europeo, ai sensi degli artt. 50, par. 2 TUE e 218, par. 6, lett. a TFUE, e al Regno Unito il tempo di approvarlo, secondo le proprie procedure interne, prima del 29 marzo 2019.


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